DIMENSIONI (lat. dimensio)
Si dice nel linguaggio comune che la linea ha una sola dimensione, cioè lunghezza; che la superficie ne ha due: lunghezza e larghezza; che il solido ne ha tre: lunghezza, larghezza e altezza. Queste locuzioni assumono il significato più chiaro e preciso per un osservatore che contempli, ad es., la superficie di un rettangolo ovvero il solido di un parallelepipedo rettangolo, opportunamente collocati davanti a sé. E allora le dimensioni si traducono anche in misure. Ma c'è un ordine di considerazioni geometriche per cui le dimensioni assumono un senso più profondo, indipendentemente da ogni misura. Esso si può mettere in rilievo ricordando le più antiche definizioni, che già i Greci proponevano degli enti geometrici: i punti sono i termini delle linee; le linee sono i termini delle superficie; le superficie sono i termini dei solidi (cfr. Euclide: Elementi, I, termini, 2, 3, 5, 6). E anche prima di Euclide si trova accennata in Aristotele la definizione genetica reciproca: il moto di un punto genera una linea, il moto di una linea (comunque variabile di forma) genera una superficie, il moto di una superficie genera un solido (cfr. De Anima, 409 a, 4).
Per chi abbia in mente questa generazione, il numero delle dimensioni di un ente - linea, superficie, o solido - riesce definito così: c'è una sola dimensione per gli enti - linee - generati dal moto semplice dell'elemento; due dimensioni per l'ente (superficie) che è generato da un moto doppio, cioè dal moto dell'ente che a sua volta è generato dal moto semplice; e similmente per il moto triplo. Rispetto a ciascuna di queste generazioni l'ente generatore (a zero o una o due dimensiom) può fungere da termine, cioè separare gli elementi, così come si dice del punto che divide in due parti una linea, o della linea che divide una superficie, o della superficie che divide un solido.
Quindi l'affermazione che un solido ha tre dimensioni si traduce nella verifica che non si può trarre un oggetto da una scatola chiusa senza attraversare una parete, o similmente che un prigioniero non può fuggire dalla prigione se non passi per la finestra o per la porta o per un foro praticato nelle muraglie (inclusi pavimento e soffitto). Invece un animale superficiale, che resti attaccato alla terra, è già chiuso in una prigione (a due dimensioni) da una linea o da un solco che egli non possa oltrepassare, se non gli è dato di saltare l'ostacolo o di volar via per la terza dimensione.
A chi abbia bene afferrato il valore delle precedenti considerazioni, viene ora in mente la questione se possa darsi una quarta dimensione dello spazio. Per generare un ente o figura a quattro dimensioni, si penserà naturalmente a far muovere un solido: ma si vede tosto che per dar luogo a una figura a più dimensioni dovrebbe codesto solido uscire da sé stesso nel moto generatore, come occorre che la superficie esca da sé (cioè non strisci sopra sé stessa) per generare veramente un solido a tre dimensioni anziché un'altra superficie, e così pure che la linea esca da sé per generare una superficie. Ora, evidentemente, un solido non può muoversi uscendo da sé stesso; perché ciò fosse possibile, sarebbe necessaria una porzione di spazio avente più di tre dimensioni, e l'esistenza di una tale porzione è negata dalle elementari esperienze sopra citate, che verificano essere tutte le figure spaziali dei solidi a tre dimensioni: esperienza della scatola o della prigione.
Si può descrivere ancora un'altra esperienza che vale a stabilire le tre dimensioni dello spazio. Si provi a sciogliere un nodo, quando i due capi del filo annodato siano fissati (v. fig.). Non si può scioglierlo, perché occorrerebbe far ruotare, per es., un tratto AB del filo, attorno ai due punti A e B, in modo che passasse da una parte all'altra di un altro tratto CD: ma nella rotazione la linea AB genera una superficie che divide in due una porzione di spazio contenente il nostro nodo, per modo che una linea CD andando da una parte all'altra deve traversare la superficie di divisione, che vuol dire tagliare in un punto le linea rotante AB.
Secondo certi medium e taluni studiosi (Zöllner) le esperienze darebbero risultato diverso nei fenomeni medianici, la materia passando per una quarta dimensione (v. psichica, ricerca). Ma tale ardita ipotesi non ha trovato conferma, e per la scienza positiva lo spazio fisico resta veramente a tre dimensioni, e appare impossibile la quarta.
Ma, tornando al punto di vista matematico, ci si può chiedere: l'idea di un ente a quattro dimensioni è soltanto un'idea analogica priva di senso, ovvero possiede qualche senso? Si può concepire un ente a quattro dimensioni? La risposta dipende dal significato che si dà alla parola concepire. Se s'intende "immaginare" o "intuire", allora conviene dire che la nostra mente, che intuisce lo spazio o il solido a tre dimensioni, non può in alcuna guisa rappresentarsi un superspazio o insieme di punti a più di tre dimensioni. Invece, per estensione analogica, si può parlare delle dimension, di enti - insiemi o varietà di elementi - che non sono punti. Per es., se si considera la serie delle posizioni successive di un oggetto che si muove nello spazio, si può dire che questa serie è una varietà ad una dimensione o - astrattamente parlando - una linea di oggetti. In questo senso si potrà parlare di una varietà a una dimensione di calamai o di pietre, ecc. E la proprietà caratteristica di una siffatta varietà sarà quella che un oggetto di essa, per es., un calamaio, dividerà la classe di tutti gli oggetti in due: quelli che vengono prima o dopo al termine di separazione, così come un punto divide in due la linea che genera col suo moto.
Una volta accettata questa prima estensione analogica, si può procedere oltre, definendo varietà di oggetti a due e a tre dimensioni. Ma qui non s'incontra più, per le dimensioni, il limite insuperabile di tre. S'immagini una serie tripla di calamai, generata dal moto triplo di uno di questi oggetti (il moto semplice conduce a una serie ad una dimensione, il moto di questa ad una serie a due dimensioni e quindi il moto della serie a due dimensioni conduce alla serie o varietà a tre dimensioni): è facile persuadersi che ora un calamaio si può muovere descrivendo una serie che non ha con la varietà data alcun elemento comune, fuori di quello di partenza, cioè uscendo da codesta varietà è quanto dire che la varietà stessa si può muovere uscendo da sé stessa, e quindi generando una varietà di oggetti a quattro dimensioni. In modo analogo si possono concepire e definire varietà d'elementi a un numero qualsiasi di dimensioni.
Dunque, il concetto della varietà a più di tre dimensioni non è logicamente contradditorio, ma solo incompatibile con la rappresentazione intuitiva che possediamo dello spazio, cioè della varietà di tutti i possibili punti. Per i matematici codesto concetto diventa quindi argomento di uno studio astratto: e non c'è nemmeno difficoltà che - per aiutare il senso analogico - si parli degli elementi di tale varietà in un senso figurato e convenzionale, dando loro il nome di punti e perciò chiamando le varietà stesse col nome di spazî.
I matematici sono effettivamente condotti a considerare varietà a più dimensioni ogni qualvolta hanno a fare con famiglie di enti (elementi) che dipendono da un certo numero di variabili (coordinate o parametri). È difficile dire quando s'introduca questo linguaggio, perché si trovano accenni suggestivi già in Viète e in Stifel. Leibniz parla di "rectangule solide et hypersolide"; Kant dice che una scienza di codeste forme spaziali (Raumarten) a più dimensioni sarebbe la più alta geometria che un intelletto finito possa comprendere (Werke, ed. Hartenstein, I, Lipsia 1867, p. 22). Lagrange osserva che la dinamica - dove la variabile "tempo" si aggiunge alle tre coordinate che fissano la posizione di un punto nello spazio - si può ritenere come geometria di uno spazio a quattro dimensioni. In forma matematica il concetto di spazî o varietà a più dimensioni si trova in A. Cayley (1843) e, con maggiore generalità in H. Grassmann (1844). B. Riemann mette i fondamenti della loro metrica differenziale (1854). Più recentemente gli spazî a n dimensioni sono studiati in maniera sistematica dai geometri proiettivi (F. Klein, Clifford, G. Veronese, C. Segre, ecc.). Infine l'idea, in varî modi affacciata da molti, che essi possano condurre a una significativa rappresentazione delle leggi fisico-matematiche, trova la sua espressione nella teoria della relatività di A. Einstein (1906-17). Per tutti questi matematici gli spazî a più dimensioni offrono il linguaggio geometrico più suggestivo per tradurre proposizioni algebriche o analitiche.
Frattanto le ricerche generali di G. Cantor sulla teoria degli insiemi, hanno posto il problema critico di definire le varietà a n dimensioni. A prima vista si può credere che il numero delle dimensioni designi la maggiore o minore numerosità o estensione della classe degli elementi: per esempio ciascuno direbbe che una superficie - per piccola che sia - contiene sempre più punti di una linea. Ma quando si è cercato di precisare questo giudizio, si è dovuto riconoscere che esso svanisce in una maniera imprevista e paradossale. Per confrontare il numero degli elementi di due classi, quando esse sieno infinite, non si vede altro criterio che quello di cui ci serviamo nel caso delle classi finite: se è possibile porre fra gli elementi delle due classi una corrispondenza biunivoca, si deve dire che le due classi sono equivalenti o egualmente numerose o - come dice G. Cantor - che hanno egual potenza: non osta la circostanza che, per un'altra diversa corrispondenza uno dei due insiemi si possa porre in corrispondenza con una parte dell'altro; giacché per gli insiemi infiniti cade l'assioma che si esprime dicendo "il tutto è maggiore della parte" (v. infinito). Ora, il Cantor prova che, per es., si può porre una corrispondenza biunivoca fra i punti di un segmento e quelli di un quadrato o di un cubo, ecc., sicché nel senso anzidetto, linea, superficie e solido hanno eguale potenza. La varietà con più dimensioni non possiede un numero di elementi superiore a quella con meno dimensioni.
Quindi per definire le varietà a più dimensioni bisognerà prendere in considerazione, non tanto l'estensione o potenza della varietà, quanto certe relazioni di vicinanza degli elementi, i quali conducono a definire gli elementi-limiti o di accumulazione.
Infatti E. Netto e J. Lüroth (1907), e con maggiore precisione e generalità L. E. Brouwer (1911) e H. Lebesgue (1911-24), hanno dimostrato che fra due varietà con diverso numero di dimensioni non può intercedere una corrispondenza biunivoca continua. Il problema di definire le varietà continue a più dimensioni, enunciando le ipotesi che occorrono per l'introduzione delle coordinate, è stato risoluto con una definizione genetica da F. Enriques (1898). Più recentemente M. Fréchet, F. Hausdorff, G. Bouligand, P. Urysohn, K. Menger hanno definito e studiato le dimensionalità d'insiemi affatto astratti, che possono dipendere anche da un numero infinito di coordinate (spazî separabili metrici); i concetti di intorno d'un punto e di punto limite essendo caratterizzati da un sistema conveniente di postulati, ne deriva la possibilità d' introdurre una metrica. Ci limitiamo a citare queste ricerche nella bibliografia.
Bibl.: W. K. Clifford, Il senso comune nelle scienze esatte (trad. it.), Milano 1886, p. 255 seg. - Sul nodo di una curva intrecciata: R. Hoppe, in Archiv der Math., LXIV, LXV, 1879-80; Durège, in Wiener Ber., 1880; Schlegel, in Zeitschr. f. Math., XXVIII, 1883. Per i fenomeni medianici, cfr. Schlegel, in Abh. der Leop. Ak., XXII, 1886; Fr. Zöllner, Vierte Dimension und Okkultismus, n. ed., Lipsia 1923: M. Boucher, Introduction à la géom. à quatre dimensions, Parigi 1917. - Intorno alla definizione delle varietà a più dimensioni e alle questioni critiche che vi si collegano: H. Poincaré, Dernières pensées, Parigi 1924, cap. III; F. Enriques, Sulle ipotesi che permettono l'introduzione delle coordinate in una varietà a più dimensioni, in Rend. Circolo mat. di Palermo, XII (1898); id., Enc. der math. Wiss., III A, B. i, cap. II; P. Urysohn, Mémoire sur les multiplicités cantoriennes, in Fundamenta Math., VII, VIII, Varsavia 1925, 1926; K. Menger, Dimensionstheorie, Lipsia-Berlino 1928; M. Fréchet, Les espaces abstraits, Parigi 1928. - Per la geometria proiettiva degl'iperspazî: E. Bertini, Introduzione alla geometria proiettiva degli iperspazi, 2ª ed., Messina 1923; C. Segre, Mehrdimensionale Räume, in Enc. der math. Wiss., III, cap. 7°. - Sul teorema d'invarianza delle dimensioni per le varietà algebriche e sul principio di Plücker-Clebsch: F. Enriques e O. Chisini, Lezioni sulla teoria geometrica delle equazioni, I, 2ª ed., Bologna 1929. - Più larghe indicazioni bibliografiche in G. Loria, Il passato e il presente delle principali teorie geometriche, 4ª ed., Padova 1931, e, per le questioni connesse con la topologia, in S. Lefschetz, Topology, New York 1930.