Gangalandi, di
Antica consorteria fiorentina, i cui privilegi cavallereschi e il cui stemma risalgono all'investitura concessa ad essa e ad altre casate della città dal gran barone, il marchese Ugo di Toscana (Pd XVI 128; G. Villani IV 2). Ebbero vasti possedimenti fondiari e castelli fortificati nei dintorni di Settimo e di Signa; era di loro proprietà il luogo forte di Monteorlandi, che Arnolfo di G. fu costretto a cedere ai Fiorentini all'inizio del secolo XII, nonostante la difesa tentata nel 1107.
Il cognome dei di G. viene appunto da una delle località che fu centro dei loro possedimenti fondiari. Esercitarono anche la mercatura, in Firenze e in Pisa, ove, nel secolo XIII, ebbero un fondaco, detto ‛ dei Tedaldi '.
Pur non dimorando in Firenze i di G. presero parte attivissima alla vicenda politica cittadina, e, al momento della rottura fra le grandi famiglie consolari, abbracciarono il partito degli Uberti, dei Fifanti, dei Lamberti, degli Amidei, ai quali li univano interessi e parentele. Nel 1216 furono tra i protagonisti degli episodi violenti che portarono all'uccisione di Buondelmonte de' Buondelmonti e alla definitiva inimicizia tra le maggiori consorterie, schierate con i guelfi oppure con i ghibellini.
Nelle lotte tra quelle due fazioni, i di G. sono sempre ricordati dai cronisti fra i più accesi protagonisti. Nel 1242 i guelfi cercarono di sorprenderli nelle loro terre di Signa; nel 1251, già banditi da Firenze, appaiono fra i contraenti della lega ghibellina contro il comune. Nel quadro della diaspora ghibellina, molti di loro sono segnalati dai documenti a Siena (ove uno dei di G. si trova nel 1258), nella Toscana occidentale (il conte Pigello, o Parigello, è fatto prigioniero dai guelfi volterrani nel corso di un assalto armato contro quella città, del luglio 1269), in Pisa (ove dimorarono, insieme con gli Uberti, nel quartiere di Kinzica, dopo il 1268).
Un periodo di tregua sembrò, finalmente, aprirsi per loro nel 1280, quando, ammessi a ‛ sodare ' la pace del cardinal Latino, alcuni di essi vengono a Firenze (come Pigello, messer Rinuccio, Geri, Catello e Lapo); ma la consorteria nel suo complesso venne anche compresa fra quelle i cui capi, per l'accanimento del loro parteggiare, dovettero andare in esilio nel territorio pontificio. A quattro dei di G. (Chianni e Pallino di messer Corrado, Tarlo di messer Filippo, Tondellino di messer Corso) fu assegnato il confino tra Orvieto e Roma, e solo nel 1292 un Daddo conte di G. fu liberato dal bando.
Rotta la pace, essi s'impegnarono in pieno nei disperati tentativi compiuti dai ghibellini per ritornare in patria. Nel 1289 sono in armi a Campaldino, insieme agli Uberti, ai Pazzi di val d'Arno, agli Scolari, Ubertini e Grifoni. Due di loro, con tre degli Scolari, furono fatti prigionieri; ma non vennero condannati alla decapitazione, come voleva la legge che puniva i traditori, bensì chiusi nella triste prigione della Pagliazza; dalla quale, tuttavia, riuscirono a fuggire l'anno dopo, probabilmente perché favoriti da guardiani compiacenti.
Né le ricorrenti delusioni, né le sconfitte, riuscirono, però, a farli deflettere dalle ostilità. Nel 1302, il conte Tondolino è fra i ghibellini che si recarono a Genova per indurre quella repubblica a vietare il passaggio attraverso il suo territorio del grano necessario a Firenze, e per questo gesto il comune guelfo fiorentino lo condannò in contumacia al rogo, il 13 ottobre. E ancora, nel 1304, i di G. furono protagonisti - insieme con gli Ubertini, i Pazzi, gli Uberti, e i fuorusciti Bianchi - delle inutili trattative di pacificazione con gli avversari intavolate per iniziativa del cardinale Niccolò da Ostia. Infine, gli esponenti della casata (diciotto in tutto) si posero al seguito di Enrico VII (1311), nell'estremo tentativo di tornare per forza d'armi nella città che li aveva banditi.
Il comune reagì rinnovando contro di essi la condanna politica e l'esclusione dal governo e dagli uffici pubblici, nel 1281, nel 1293 e nel 1311, dichiarandoli grandi e magnati, e perciò inabili agli squittini e alle imborsazioni. Uno dei di G., tuttavia, di nome Scolaio, figura tra coloro che Enrico VII condannò al bando per opposto motivo politico, essendo restato in Firenze per difendere la patria contro l'imperatore.
Bibl. - Fonti per la ricostruzione della genealogia dei di G. sono conservate in Archivio di Stato di Firenze, Carte Dei, XXIII 22; Carte dell'Ancisa, BB 100, 104; DD 310; HH 130, 455, 457, 540; II 755; LL 179, 639; MM 115, 151; Biblioteca manoscritti, 422, 82; e in Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze, Carte Passerini, 219. Altri documenti relativi alla consorteria e ai membri di essa sono editi dal p. Ildefonso DI San Luigi, Delizie degli eruditi toscani, Firenze 1770 - 1789, ad indicem; dei di G. parlano nelle loro cronache il Malispini, LII, C; il Compagni, I 3, II 25, III 7; e Marchionne DI Coppo Stefani, XXXV, LXIII; le cui notizie sono riprese da S. Ammirato, Albero e istoria della famiglia dei conti Guidi, Firenze 1640, 57; V. BORGHINI, Discorsi, II, ibid. 1755², 103, 104; B. De' Rossi, Lettera a Flamminio Mannelli... delle famiglie e degli uomini di Firenze, ibid. 1585, 56; P. Mini, Difesa della città di Firenze e de' fiorentini..., Lione 1577, 298, 303, 310; M. Salvi, Delle historie di Pistoia e fazioni d'Italia..., II, Pistoia 1657, 46; dei di G. in relazione alla storia di Firenze parla ripetutamente Davidsohn, Storia, ad indicem; sulla famiglia cfr. G.G. Warren Lord Vernon, L'Inferno di D.A., II, Documenti, Londra 1862, 481; Scartazzini, Enciclopedia I, 871-872.