depurazióne dei terreni Complesso di trattamenti, biologici o chimico-fisici, cui vengono sottoposti i terreni soggetti a contaminazione provocata dall'attività umana attraverso la dispersione, in superficie o in profondità, di agenti inquinanti.
Abstract di approfondimento da Depurazione biologica di Camille A. Irvine, David A. Irvine, Robert L. Irvine, Timothy J. Irvine, Lisa I. Larson (Enciclopedia della Scienza e della Tecnica )
La depurazione biologica dei terreni contaminati con composti organici è un problema di grande interesse poiché la natura non è in grado di autodepurarsi in modo tempestivo anche quando i contaminanti da eliminare siano biodegradabili. Per poter accelerare la velocità di disinquinamento bisogna migliorare le condizioni più propizie biologicamente, in termini di disponibilità di nutrienti, di concentrazione di ossigeno, di pH e di tasso di umidità. Quando i problemi determinati da sostanze inquinanti introdotte nei terreni dall’attività umana (per es., metodi impropri di smaltimento, spargimenti accidentali sulla superficie o serbatoi che perdono sottoterra) vengono affrontati con determinazione, si accorcia il tempo richiesto per risanare e vengono diminuiti i costi specialmente se si utilizzano metodi biologici.
I metodi fisico-chimici per eliminare le sostanze inquinanti dal suolo comprendono, di solito, l’incenerimento, l’ossidazione chimica, l’estrazione con vapore, il desorbimento termico a bassa temperatura, il lavaggio del suolo. Questi metodi, tuttavia, possono essere relativamente costosi, perché il contaminante estratto o il terreno incenerito spesso devono essere poi ulteriormente trattati o smaltiti, e ciò va aggiunto al costo complessivo del trattamento. In alternativa molte sostanze inquinanti organiche possono essere facilmente biodegradate dai microbi indigeni del suolo, rendendo così possibile il biorisanamento. Il trattamento biologico è di solito l’opzione meno costosa per i suoli contaminati. Durante il biorisanamento, le sostanze inquinanti sono convertite in acqua, diossido di carbonio, biomassa e prodotti organici stabili che vengono incorporati nel materiale umico del terreno originario (umificazione). Queste reazioni biologiche possono essere promosse nel suolo (in situ) lasciandolo indisturbato o, previa escavazione, in reattori fuori terra (ex situ). Il trattamento ex situ è più costoso rispetto alle tecniche in situ, a causa del costo di movimentazione del terreno, ma permette un migliore controllo del processo e un miglior trattamento. In entrambi i casi molte delle tecnologie basate su principî biologici sono aerobiche e si fondano sullo sviluppo di metodi per fornire ossigeno alla popolazione microbica responsabile del risanamento.
Le tecniche ex situ trattano la terra di scavo contaminata in bioreattori fuori terra, che permettono un controllo maggiore del processo, velocità maggiori di reazione e la distribuzione più uniforme dei reagenti rispetto a quanto possibile con le tecniche in situ. Il biorisanamento ex situ avviene di solito in fase solida o in sospensione. Nel biorisanamento in fase solida, un apposito sistema spesso prende la forma di bacini confinati (per es., nel cosiddetto landfarming) o di cumuli (per es., nelle cosiddette biopiles o soil-heaping) costituiti dal terreno contaminato. Nel landfarming l’aerazione è di solito passiva in quanto la quantità complessiva di ossigeno trasferita cresce semplicemente per incremento della superficie esposta all’atmosfera. Nelle biopile l’aria viene immessa per aerazione forzata attraverso il suolo contaminato. L’acqua viene fatta gocciolare o viene spruzzata sul terreno contaminato per ottenere un grado di umidità adatto alla biodegradazione (normalmente tra il 45% e il 65%). Le sostanze nutrienti possono essere fornite in forma solida (per es., come fertilizzanti, letame o compost) o aggiunte in forma disciolta. Spesso ai terreni a grana fine vengono aggiunti materiali di riempimento (paglia e pezzetti di legno) in modo da aumentarne la permeabilità all’aria. L’energia consumata nel landfarming o con l’aerazione forzata è di modesta entità, e ciò rende il biorisanamento in fase solida uno dei metodi meno costosi di trattamento ex situ dei terreni contaminati. Tuttavia, l’efficacia di questo metodo è spesso limitata dall’eterogeneità insita nel sistema di rimozione delle sostanze inquinanti, dalla bassa velocità e dalla scarsa resa della biodegradazione. Nel biorisanamento in sospensione (chiamato trattamento bioslurry) la decontaminazione di terreni o fanghi inquinati è effettuata mediante l’aggiunta di acqua (di solito 5440%) per formare una torbida acquosa, che viene poi mescolata e aerata in una vasca o in una laguna al fine di ottenere la biodegradazione delle sostanze inquinanti.
Il biorisanamento in sospensione è più costoso del trattamento in fase solida a causa dell’energia necessaria a mantenere le particelle di terreno nella condizione di torbida acquosa. Tuttavia, il rimescolamento nei reattori bioslurry diminuisce le resistenze di trasferimento di massa perché disperde le sacche isolate di contaminanti e rompe gli aggregati di argilla e le particelle di limo. L’omogeneizzazione facilita lo stretto contatto tra le sostanze nutrienti aggiunte, i composti inquinanti, i microorganismi e l’ossigeno. Il risultato consiste in maggiori velocità, resa e uniformità della biodegradazione dei composti inquinanti rispetto a quanto di solito si ottiene nei sistemi in fase solida.
L’utilizzazione dei reattori bioslurry seguita dal biorisanamento in fase solida permette di combinare i vantaggi e di minimizzare gli inconvenienti che ciascuno di questi metodi di trattamento presenta quando viene utilizzato singolarmente. In tali sistemi si utilizza una breve decontaminazione in sospensione per ottenere l’omogeneizzazione, seguita dal completamento del trattamento biologico in un sistema a fase solida (a bassa richiesta energetica).
Le tecniche in situ trattano il terreno contaminato sul posto togliendo l’acqua sotterranea e i gas contaminati e sostituendoli con acqua e gas non contaminati, carichi di ossigeno, nutrienti e altre sostanze necessarie alla biodegradazione degli inquinanti. A causa dei problemi di salute e di sicurezza connessi con lo spostamento di terreni contaminati, soprattutto se contaminati da materiali pericolosi, le varie autorità competenti hanno mostrato di preferire le tecnologie in situ. In tali sistemi il suolo funge da bioreattore. L’erogazione di ossigeno al di sotto della superficie è il passaggio che limita la velocità dei sistemi di biorisanamento in situ. Quattro tipi differenti di tecniche in situ hanno ricevuto le maggiori attenzioni: (a) il biorisanamento in situ (in situ bioremediation), nel quale viene stimolata la biodegradazione delle sostanze inquinanti nella zona satura; (b) la bioventilazione (bioventing), con la quale viene stimolata la biodegradazione delle sostanze inquinanti nella zona insatura (o zona vadosa); (c) la bioinsufflazione (biosparging), nella quale viene stimolata la biodegradazione delle sostanze inquinanti sia nella zona satura sia in quella vadosa; (d) il biorisanamento intrinseco (intrinsic bioremediation), in cui le sostanze inquinanti sono lasciate a biodegradarsi nella zona satura o nella zona vadosa senza particolari interventi attivi (a eccezione dei pozzi di controllo).
I sistemi di biorisanamento in situ consistono di solito in una combinazione di pozzi per l’iniezione di acqua sotterranea (o gallerie o fossi di infiltrazione) e in uno o più pozzi per il recupero delle acque sotterranee. Nella maggior parte dei casi l’acqua sotterranea raccolta viene dapprima trattata per eliminare le sostanze inquinanti, poi arricchita con nutrienti oppure con ossigeno o con entrambi, e, infine, iniettata di nuovo. Il trattamento dell’acqua sotterranea recuperata viene di solito effettuato in unità di stripping con aria, in adsorbitori su carbone attivo, in separatori di acqua dall’olio, in bioreattori, in unità di ossidazione avanzata (per es., con ozono), o in una loro combinazione. L’azoto e il fosforo vengono di solito forniti sotto forma di sali ammoniacali e ortofosfati. L’ossigeno normalmente viene somministrato insufflando aria o ossigeno puro nell’acqua prima di iniettarla di nuovo, oppure aggiungendo acqua ossigenata.
I sistemi di bioventilazione consistono in una serie di pozzi per l’estrazione o l’immissione di aria che si estendono attraverso la zona di contaminazione. I pozzi di estrazione sono più usati dei pozzi di iniezione poiché consentono di controllare meglio la perdita di contaminanti volatili nell’atmosfera. I nutrienti vengono di solito forniti sciogliendoli nell’acqua che viene fatta percolare sull’area contaminata. L’acqua è necessaria nella zona vadosa per evitare l’essiccamento causato dalla ventilazione. È interessante notare che questa tecnologia è derivata dai sistemi di estrazione con vapore dal suolo (SVE, Soil vapor extraction), in cui il principale metodo di rimozione si pensava fosse fisico. Gli utilizzatori dei sistemi SVE non erano in grado di spiegare completamente l’effetto di risanamento che risultava maggiore di quello prevedibile in base alle sostanze inquinanti estratte. La differenza in molti casi, risultò dovuta all’intervento di processi biologici.
La bioinsufflazione (talvolta chiamata air sparging, cioè immissione forzata di aria) è una tecnologia relativamente nuova sviluppata per superare i due processi che limitano maggiormente la velocità del biorisanamento in situ nella zona satura: la disponibilità di ossigeno e la dissoluzione di liquidi in fase non acquosa (NAPL, Non-aqueous phase liquids). Nella bioinsufflazione si inietta aria sotto pressione nella zona satura per fornire l’ossigeno necessario alla biodegradazione delle sostanze inquinanti presenti. Questa tecnica non solo determina una maggiore ossigenazione rispetto al biorisanamento in situ, ma favorisce la dissoluzione dei NAPL mediante l’agitazione e il rimescolamento prodotti dalle bolle d’aria insufflate. L’aumentata dissoluzione dei NAPL incrementa la biodisponibilità di questi nella zona di saturazione. Le bolle prodotte dall’insufflazione inducono un incremento della volatilizzazione delle sostanze organiche contaminanti dalla zona satura alla zona vadosa. Per questa ragione, la bioinsufflazione prevede di solito pozzi per l’estrazione di aria (cioè si combina con la bioventilazione), per il controllo dei composti organici volatili (VOC, Volatile organic compounds).
Il biorisanamento intrinseco (talvolta chiamato biorisanamento naturale o attenuazione naturale) è un processo di correzione nel quale la concentrazione delle sostanze inquinanti nelle falde acquifere contaminate viene ridotta senza interventi progettati ad hoc o manipolazioni dell’ecosistema. Il biorisanamento intrinseco è una tecnica passiva che semplicemente sfrutta la capacità naturale dei microbi adattati a un sito di biodegradare le sostanze contaminanti. Il requisito necessario è che in una falda acquifera contaminata è presente una zona attiva dal punto di vista biologico nella quale un’associazione stabile di microorganismi indigeni si sviluppi e degradi biologicamente le sostanze contaminanti. La zona biologicamente attiva può essere aerobica o anaerobica, a seconda delle condizioni richieste dalla biodegradazione delle sostanze contaminanti. La presenza di una zona biologicamente attiva dipende dal continuo ;rifornimento di materiali essenziali per la crescita (nutrienti ed elettronaccettori) e si verifica in modo naturale in quel sito. Le sostanze inquinanti, che attraversano la zona biologicamente attiva nelle normali condizioni di flusso in quel punto, vengono consumate dai microorganismi e ciò permette di controllare la corrente di sostanze inquinanti in modo che non si verifichi la migrazione di questa corrente fuori dal sito.
La biofiltrazione è una tecnica per il controllo dell’inquinamento dell’aria ben consolidata in Europa, dove più di 500 installazioni sono state costruite prima del 1991. Negli Stati Uniti un forte interesse per la biofiltrazione è cominciato durante i primi anni Novanta, anche se una viva preoccupazione per l’inquinamento dell’aria c’era già negli anni Sessanta. La crescente consapevolezza ambientalista negli Stati Uniti è stata accompagnata dall’approvazione di norme sempre più severe riguardanti l’ambiente, come si può riscontrare dall’approvazione dell’Air quality act (legge sulla qualità dell’aria) del 1967, del Clean air act (legge per l’aria pulita) nel 1970 e dei Clean air act amendments (emendamenti alla legge per l’aria pulita) nel 1977 e nel 1990.
Il trattamento delle emissioni gassose mediante la biofiltrazione riduce i costi della depurazione ed elimina i flussi secondari e di scarico; tale metodica è altrettanto efficace nella rimozione delle sostanze inquinanti biodegradabili, se non più di altre tecnologie di trattamento. La biofiltrazione è significativamente meno costosa di qualunque altra tecnologia di trattamento. Tuttavia, molte questioni tecniche ne hanno limitato l’uso. Quattro sono i problemi comunemente riportati: (a) eccessiva crescita microbica: la biomassa prodotta in sistemi sovraccaricati o in sistemi fatti funzionare per lunghi periodi di tempo spesso ostruisce i biofiltri, provocando cammini preferenziali, cortocircuiti ed eccessiva perdita di carico attraverso il letto filtrante; (b) inadeguato controllo dell’umidità: l’eccesso di umidità riduce le velocità di trasporto dei VOC e di ossigeno, mentre un’umidità insufficiente limita l’attività microbica; (c) inadeguato controllo del pH e dei nutrienti: elevati o scarsi livelli di pH e un inadeguato rifornimento di nutrienti fanno diminuire o eliminano l’attività microbica; (d) rapidi aumenti del carico di sostanze contaminanti: variazioni rilevanti nelle caratteristiche dei gas di scarico, per esempio concentrazione di VOC e VIC (Volatile inorganic compounds), umidità relativa e temperatura, possono determinare carichi dinamici eccezionali che eccedono le capacità di reazione biologica.
I biofiltri sono nati più di quarant’anni fa per essere utilizzati nel controllo degli odori negli impianti industriali agricoli, di lavorazione degli alimenti e di trattamento delle acque di scarico. L’uso dei biofiltri impiegati in Europa consisteva nell’insufflare l’aria maleodorante attraverso strati di terreno o mucchi di compost. In generale, la biofiltrazione implica il passaggio dei gas contaminati attraverso un mezzo solido poroso che fa da supporto a uno strato biologicamente attivo di microorganismi. Quando i gas fluiscono attraverso il mezzo poroso e vengono a contatto con il biofilm, le sostanze contaminanti si trasferiscono dalla fase gassosa alle fasi acquosa e solida (cioè il mezzo di supporto e il biofilm) dove i microorganismi consumano le sostanze contaminanti proprio come operano negli impianti di trattamento biologico per le acque di scarico o per i terreni.
Le componenti fisiche fondamentali di un biofiltro sono un sistema di distribuzione delle emissioni gassose, un mezzo di supporto per la popolazione microbica e un sistema di umidificazione e drenaggio per controllare il tasso di umidità. Solitamente una soffiante forza i gas contaminati attraverso una rete di tubi forati. Questo sistema può essere umidificato in vari modi: (a) saturando l’aria di umidità prima che essa entri nel biofiltro; (b) cospargendo d’acqua la superficie del materiale di riempimento; (c) aggiungendo acqua al letto filtrante con un tubo flessibile; (d) con una combinazione di queste tecniche. Solitamente viene predisposto anche un sistema di drenaggio per eliminare l’acqua in eccesso.
Anche se i materiali di riempimento utilizzati nei letti filtranti convenzionali sono per lo più la torba e il compost, è stata utilizzata un’ampia varietà di altri materiali tra i quali: terra, sabbia, trucioli di legno, corteccia, segatura, carbone attivo, monoliti di ceramica, palline di ceramica, vetro sinterizzato, perline di polistirene e schiuma di poliuretano. Gli additivi tipici ai materiali di riempimento comprendono agenti volumizzanti, agenti tamponanti, nutrienti e microbi. Gli agenti volumizzanti, impedendo che i letti si compattino, aumentano la loro permeabilità per una migliore distribuzione dei gas, e diminuiscono la perdita di carico lungo il letto. Tali agenti includono sfere di polistirene, perlite, vermiculite, corteccia e trucioli di legno. I tamponi regolano il pH contrastando la produzione o il consumo di ioni idrogeno che derivano dall’attività microbica. Quando viene utilizzato un materiale di supporto inorganico i nutrienti vengono aggiunti o con il materiale di riempimento prima di assemblare il biofiltro, oppure in una soluzione nutriente che viene spruzzata sul materiale di riempimento o mescolata con esso dopo la costruzione. Qualunque sia il materiale di riempimento utilizzato, esso deve possedere alcune proprietà particolari, tra cui un’elevata porosità, un’appropriata dimensione dei pori, una bassa densità e la capacità di assorbire l’acqua.
La biofiltrazione è stato il primo sistema utilizzato per il trattamento biologico dei gas di scarico, ma in seguito sono stati studiati molti altri procedimenti per trattare biologicamente le sostanze inquinanti in fase gassosa. Questi sistemi sono conosciuti come biofiltri percolatori, biolavatori, reattori a insufflazione di gas e reattori a membrana porosa.
Un biofiltro percolatore ha una fase liquida che scorre liberamente. In questo sistema, un flusso contenente le sostanze nutrienti viene fatto continuamente ricircolare sul materiale di riempimento. I materiali di riempimento sono di solito inerti e rigidi e possono essere costituiti da ghiaia, plastica, ceramica o una varietà di altri prodotti. Un biolavatore utilizza una torre o una colonna per trasferire le sostanze inquinanti dal gas alla fase liquida che viene sottoposta a biodegradazione in un reattore separato. Alcune torri utilizzate per il trasferimento delle sostanze inquinanti sono a piatti, altre vengono riempite con materiale inerte, e alcune sono del tipo a spruzzo dove le sostanze inquinanti si trasferiscono nelle ;goccioline che ricadono nel flusso di gas contaminato. Un reattore a insufflazione di gas è un reattore a liquido (per es., un CMFR) in cui avviene un’intensa insufflazione di gas contaminato. Le sostanze inquinanti si trasferiscono dalla fase gassosa nella fase liquida, dove vengono biodegradate da una coltura di microorganismi che cresce in sospensione. Il reattore a membrana porosa utilizza una membrana idrofobica microporosa costituita da materiali quali il polipropilene, il polietilene o il silicone. Le sostanze inquinanti si trasferiscono attraverso la membrana dalla fase gassosa alla fase liquida, dove vengono degradate da una popolazione microbica che può crescere in sospensione (fanghi attivi) o formando un sottile strato fisso.