DEL CARRETTO, Ottone, marchese di Savona
Figlio di Enrico Guercio, marchese di Savona, nacque verso la metà del sec. XII. Nel 1179, insieme col padre e col fratello minore Enrico, sottoscrisse l'atto in cui al Comune di Savona fu riconosciuta autonomia in materia fiscale e giudiziaria. Due anni dopo, sempre accanto al padre e al fratello, giurò un accordo col Comune di Noli che, pur accettando la signoria marchionale (col riconoscimento del diritto di fodro e di banno), ottenne una serie di diritti in materia di mercato e la possibilità di fortificare il borgo. Nello stesso anno fu testimone in Alba all'accordo tra il Comune e Manfredo II di Saluzzo circa il rilascio di alcuni mercanti tenuti in ostaggio dal marchese. Usciti di minorità, il D. ed Enrico dovettero giurare (20 luglio 1182) la "Compagna" del Comune di Genova, promettendo di abitare nella città per tre mesi all'anno in caso di guerra e per un mese in tempo di pace. Morto il marchese Enrico tra il 1184 e il 1186, i due fratelli (non sappiamo se di loro iniziativa o su testamento del padre) procedettero alla divisione del feudo.
La marca di Savona (il titolo nobiliare passò ad entrambi i fratelli), già minacciata dalla vivacità espansionistica dei grandi Comuni subalpini e rivieraschi all'esterno e indebolita dalle nascenti autonomie comunali al suo interno, subì un altro duro colpo da questa decisione, anche se i fratelli (o il padre) ebbero l'accortezza di dividersi i due Comuni, Savona e Noli, su cui ormai il controllo signorile era solo formale: al D. toccò Savona (dove gli interessi della famiglia erano rappresentati più efficacemente dal fratello Ambrogio, vescovo della città), la signoria di Albisola e di Quiliano, la proprietà di una serie di "ville" e castelli (Cairo, Dego, Cortemiglia) posti lungo la strada che collegava la città rivierasca al retroterra subalpino e vasti territori posti nelle prime propaggini delle Langhe.
Il 10 apr. 1191, per 1.500 lire genovine, il D. vendette al Comune di Savona tutti i diritti bannali e patrimoniali che egli ancora possedeva nel territorio cittadino, eccettuata la castellania di Quiliano e Albisola già del marchese del Monferrato. Questa alienazione, in pratica, pose termine alla signoria marchionale sulla città che, nello stesso anno, vide sancita anche formalmente la sua autonomia con diploma dell'imperatore Enrico VI (18 nov. 1191). Tuttavia, i rapporti tra il Comune e la famiglia marchionale rimasero stretti, sia per la presenza sulla cattedra vescovile di due fratelli del D., Ambrogio (1183-1193) e Bonifacio (1193-1198), sia per il prestigio politico raggiunto da suo figlio Ugo, che fu podestà di Savona nel 1202. Al titolo di marchese di Savona il D. sostituì quello di "De Carreto", dal nome del castello presso Cairo, dove egli pose la sua residenza abituale.
Il 22 nov. 1192 egli vendette al Comune di Savona anche il castello e la "villa" di Quiliano e i suoi diritti sulla curia di Albisola, per la somma di lire 5.000 genovine. L'anno seguente, anche sua moglie Alda, figlia di Ugo Embriaco, signore di Gibelletto, ratificò la vendita.
Queste alienazioni, cui il D. realisticamente accondiscese, gli permisero di costituirsi un notevole patrimonio finanziario, accresciuto anche dagli introiti che gli derivavano dal controllo della strada, di vitale importanza commerciale, che collegava i porti rivieraschi col retroterra padano attraverso i gioghi montani. Per quanto indebolito, infatti, il feudo del D., avente come centro i castelli di Dego, Cairo e Cortemiglia, si collocava in un'area strategica di enorme importanza, come piccolo "Stato-cuscinetto" tra le potenze comunali subalpine e liguri e la casa del Monferrato, diversamente in lotta tra loro, ma tutte interessate a garantire il libero transito delle strade alpine ed appenniniche. Il suo ruolo politico, dovuto alla particolare posizione strategica del suo feudo, l'abilità diplomatica, ereditata dal padre, il suo prestigio personale posero il D. al centro di una fitta rete di alleanze, come punto di riferimento nel microcosmo della zona occidentale subalpina, composto dalle frammentate consorterie feudali, residuo di quella che era stata la marca di Bonifacio del Vasto, dalla presenza minacciosa dei Comuni e dall'ancor saldo dominio del Monferrato. Al prestigio diplomatico il D. aggiunse anche la fama di signore ospitale e generoso, tanto che la sua piccola corte poté gareggiare con quella più importante del marchese del Monferrato, al quale, del resto, il D. fu sempre strettamente legato. Nei suoi castelli soggiornarono i due poeti provenzali Folchetto di Romans e Palais, che lo ricordano nelle loro poesie come signore valente, franco e prode.
Ormai privo di reale forza militare, il D. preferì consolidare la sua posizione attraverso una stretta alleanza col Comune di Genova, sul versante ligure, e col Comune di Asti e il marchese del Monferrato, sul versante padano, diventando il mediatore tra queste potenze, spesso in lotta tra loro.
Nel 1194, seguendo Bonifacio del Monferrato e mantenendone gli impegni contratti col giuramento della Compagna, egli partecipò alla spedizione genovese in Sicilia, per aiutare Enrico VI nella conquista dell'isola contro i Normanni. Morto di febbri il podestà Oberto di Olevano, al suo posto venne nominato il D., con una elezione improvvisata e priva dei crismi legali. Le promesse imperiali di una cessione a Genova di Siracusa e della Valle di Noto, come compenso all'aiuto militare fornito, furono subordinate alla conquista di Palermo; caduta la città, Enrico rifiutò di rispettare i suoi impegni, avanzando, come scusa, la mancanza di un potere ufficiale in rappresentanza del Comune genovese e considerando illegale l'elezione del Del Carretto. L'anno seguente, al D. successe come podestà un milanese, atto che sancì la frattura tra Genova e l'imperatore.
Ritornato nel suo feudo, negli anni seguenti il D. affiancò l'azione militare e diplomatica di Bonifacio del Monferrato, tesa a contenere l'espansione dei Comuni padani, in primo luogo Alessandria e Asti. Nel 1196 assistette all'atto di infeudazione di Manfredi Lancia, marchese di Busca, a Bonifacio del Monferrato; due anni dopo, esplosa la lotta tra Bonifacio e i Comuni di Asti e Alessandria, il D. si offrì, insieme col fratello, come mallevadore del marchese al Comune di Ivrea, alleatosi con lui; nel 1199 fu tra i testimoni dell'accordo firmato a San Germano nel Casalese tra Bonifacio, da una parte, e i Comuni di Alessandria, Asti e Vercelli, dall'altra; nell'agosto dello stesso anno assistette alla firma del trattato tra Manfredi Lancia e il Comune di Alba. Dopo l'accordo con Alessandria, tuttavia, egli si vide sottrarre da quest'ultimo Comune il castello di Montechiaro; nel 1200 fu teste all'atto in cui i signori di Manzano donarono ad Alba il loro castello.
Partito il marchese Bonifacio per la crociata, nel lento processo di modificazione delle alleanze, il D. preferì arrivare ad un accordo con le potenze che premevano sul suo piccolo feudo; già alleatosi con Alba, nel marzo 1202 si accordò col Comune di Alessandria, impegnandosi ad acquistare case e terre nella città e a contribuire con soldati all'esercito comunale; in cambio, il Comune si impegnò a impedire che la nascita di una "villa" nel territorio tra Bestagno e Santo Stefano creasse un'area autonoma vicino al feudo carrettesco. L'anno seguente, nell'accordo tra Alba e Alessandria venivano esclusi da interventi armati congiunti il D. e suo fratello Enrico. Nel 1204 i due fratelli entrarono nell'alleanza che vide stretti attorno a Guglielmo del Monferrato i marchesi del Vasto, il Comune di Alba e la consorteria signorile dell'Astisio contro i Comuni di Asti e di Cuneo.
Negli anni seguenti, il D. si avvicinò ad Asti: il 6 luglio 1209 cedette al Comune tutti i suoi possessi sul versante padano (Castano, Cortemiglia, Torre di Bormida, Torre Uzzone e altre località) per il prezzo di lire 1.000 genovine, ricevendoli poi dal Comune "in rectum et gentile feudum". L'infeudazione ad Asti impegnò il D. a cedere al Comune l'uso dei suoi castelli e subordinò ad esso le sue alleanze; Asti si assicurò, inoltre, un certo controllo sulla strada passante per il feudo carrettesco, in quanto il D. promise di chiuderla ai mercanti albesi, in concorrenza con quelli astigiani. Questo accordo, infine, permise al D. di appoggiarsi su un Comune in piena crescita economica e militare, proprio quando la discesa dell'imperatore Ottone IV in Italia metteva in moto il complesso sistema di alleanze nella zona subalpina.
Fermatosi l'imperatore ad Asti nel 1210, il D. fu teste alla concessione di privilegi a questo Comune; nel giugno, egli seguì Ottone a Torino, assistendo al rilascio di un diploma a favore del monastero di Casanova. Maturato il conflitto tra Ottone e Federico II, egli seguì la scelta politica compiuta da Asti e si schierò dalla parte dello Svevo. Nel 1212 venne eletto podestà di Asti. Uscito di carica, col figlio Ugo cedette al Comune di Genova il castello di Cairo, quello di Dego, metà di Carcare e altre località, con i diritti bannali connessi, ottenendone l'investitura "nomine recti et gentilis feudi" e impegnandosi a rispettare le alleanze strette dal Comune. In pratica, al D. venne implicitamente affidato da Genova e Asti il compito di assicurare la libertà di transito sulla strada da lui controllata e di garantire uno stretto collegamento con la casa del Monferrato. Nel 1217, insieme col fratello Enrico, si impegnò ad assicurare il passaggio alle merci degli Astigiani dirette verso i porti rivieraschi. L'anno seguente giurò il cittadinatico di Savona, impegnandosi a tenervi casa e ad assoldare uomini per il Comune. Nel 1219 fu teste al trattato di alleanza tra Manfredo III, marchese di Saluzzo, ed Asti. Nello stesso anno, ribellatasi Ventimiglia al Comune genovese, il D. e il fratello Enrico fecero parte dell'esercito comunale diretto all'assedio della città. Sceso in Italia Federico di Svevia, egli lo raggiunse a Roma, dove assistette alla incoronazione imperiale (22 nov. 1220). Nel frattempo Genova era intervenuta presso Federico per avere la conferma dei suoi diritti sulla ribelle Ventimiglia; l'imperatore incaricò il D. di imporre al Comune la resa e l'obbedienza a Genova. Tuttavia gli inviati del D. furono, come risposta, incarcerati, cosicché egli fu costretto a porre la città sotto bando imperiale, proibendo a tutti i luoghi circostanti di portare ad essa aiuto.
I legami familiari, il ruolo di garante della neutralità delle zone montane e il conseguente compito di impedire che Genova sbilanciasse a proprio favore il controllo dei valichi, sono forse le ragioni che spiegano l'unico episodio in cui il D. si oppose fermamente alle iniziative politico-militari del Comune genovese. Avendo l'arbitrato di Genova attribuito ad Enrico di Ussecio il possesso del castello di Pareto, su cui vi era lite col marchese Ottone Del Bosco (appartenente al consorzio feudale del Vasto, di cui vi è ancora ricordo in un atto del 1228), il figlio del D., Ugo, legato da rapporti familiari col marchese Del Bosco, occupò con un colpo di mano il castello; la decisione di vendere Pareto a Genova, presa da Enrico di Ussecio, finì col rendere più decisa l'opposizione di Ugo, cui diede man forte il padre, consapevole che un tale atto avrebbe consolidato la presenza egemonica genovese nell'entroterra appenninico. Fallita una prima spedizione dell'esercito comunale, alla fine le forze soverchianti di Genova ebbero la meglio: il D. fu costretto a recarsi nella città per rinnovare il giuramento di fedeltà al Comune e per riconfermare la cessione di Dego e di Cairo; tuttavia, quando gli inviati genovesi giunsero per prendere possesso dei due castelli, trovarono una fiera opposizione da parte di Ugo, costretto, alla fine, a sottomettersi. I castelli furono occupati; i Del Carretto, obbligati a pagare un'ammenda, videro, però, rispettata la loro signoria sul territorio circostante.
Nel 1224 il D. fu teste all'accordo stipulato tra il Comune di Asti e Manfredo III di Saluzzo; l'anno seguente, fu intermediario nell'accordo tra lo stesso Comune e suo fratello Enrico. Divampata, nel frattempo, la lotta tra Asti e Genova, alleate, e gli altri Comuni padani, nel 1225 il D. e suo fratello Enrico si unirono a Gavi Ligure all'esercito genovese pronto a soccorrere Asti, con la quale egli rinnovò proprio in questo anno il trattato per la sicurezza della strada montana da lui controllata. L'anno seguente, il D. ed Enrico si impegnarono a rispettare l'accordo stipulato tra Genova e Federico II. Tuttavia quando si scollò il legame sempre più labile esistente tra il Comune e l'imperatore e quando l'arrivo di quest'ultimo in Alta Italia parve offrire alle forze feudali rivierasche l'occasione per porre fine all'espansionismo genovese, mentre il fratello del D., Enrico, si fece anima della rivolta contro il Comune, egli preferì mantenere i suoi legami con Genova, spinto a ciò sia dalla ridotta forza militare di cui poteva disporre, sia dagli stretti interessi che lo legavano allo sviluppo commerciale del porto genovese. Nel 1227 militò nell'esercito comunale inviato nella Riviera di Ponente per soffocarvi la rivolta filoimperiale e vide salvaguardati i suoi diritti sul castello di Stella, arresosi al Comune; nel maggio, a Savona, assistette alla resa al Comune del fratello Enrico, sconfitto. Nello stesso anno, si offrì come fideiussore dell'alleanza stretta tra Genova e Asti col marchese del Monferrato, per bloccare l'espansione del Comune di Alessandria.
Di questa rete di rapporti il D. fu l'abile tessitore: nell'agosto 1228 fu teste all'accordo militare tra Genova ed Asti; nel novembre, a fianco dei due Comuni scendeva tutto il consorzio feudale dei marchesi del Vasto, che si impegnarono a bloccare la strada alle merci degli Alessandrini e degli Albesi e a non far pace separata con le due città nemiche. Nel frattempo, all'interno del suo piccolo feudo, preferì riconoscere le richieste avanzate dalle povere Comunità rurali su cui esercitava la signoria, trasformando i diritti feudali in rendita annua. Nel 1233 rinunciò a favore degli uomini di Cortemiglia il fodro e il diritto di confiscare i beni dei defunti "ab intestato", in cambio di una somma da versare ogni anno; lo stesso egli fece a favore degli uomini di Cairo, riconoscendo la loro "debilitatem, passibilitatem et paupertatem". In quegli anni dovette essergli attribuita da Federico II la carica di vicario, perché con tale qualifica, a nome dell'Impero, concesse a certo Guglielmo Piloso di Santa Vittoria la facoltà di imporre un pedaggio sulla strada controllata da quest'ultimo. Nel 1235 vendette i suoi diritti su Dego a Giovanni Embriaco per 500 lire genovine, e risulta in lite col monastero di S. Pietro di Mesema per il possesso di terre e decime riscosse nel territorio di Cairo, ai cui uomini egli confermò, nello stesso anno, le convenzioni in precedenza stipulate. Sempre nel 1235 risulta in lite con l'Ospedale gerosolimitano di Lombardia circa le decime di Rocchetta; la sentenza fu affidata a Ugo, magiscola della cattedrale di Genova.
Del 1237 è l'ultimo atto in cui il D. compare: come arbitro eletto tra le parti, fu presente alla convenzione stipulata dal Comune di Asti coi signori di Calamandrana e di Canelli. Morì prima del 1242. Ebbe tre figli: Ugo, podestà di Savona nel 1202, di Asti nel 1212 e 1225 e di Alba nel 1217, premorto al padre anteriormente al 1228; Enrico, che avrebbe sposato Beatrice del Monferrato; Manfredo, se bisogna prestar fede ad un documento del 1242 pubblicato nel Codex Astensis.
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