DEBITO PUBBLICO (XII, p. 437; App. II, 1, p. 759)
PUBBLICO La classificazione e l'esatta sistemazione teorica del d. p. costituiscono argomento di contrastanti opinioni dottrinali. Da taluni, infatti, il ricorso al d. p. viene ritenuto compatibile con una economica condotta finanziaria; nella finanza straordinaria, come alternativa alle imposte straordinarie, e, nella finanza ordinaria, soltanto sotto forma di buoni del tesoro ordinarî (a scadenza inferiore ad un anno) volti a pareggiare eventuali deficit di cassa da compensarsi entro l'esercizio finanziario. Da altri, invece, il d. p. è concepito come forma non esclusiva della finanza straordinaria e quindi ipotizzabile anche come forma della finanza ordinaria.
Chi propende per la prima tesi parte dall'osservazione che lo stato possa finanziare il proprio bilancio con tre diversi strumenti aventi la caratteristica di intaccare il patrimonio nazionale: d. p., imposta straordinaria e inflazione. Ora, si dice, l'imposta straordinaria sul patrimonio e il d. p. hanno un carattere comune: quello di incidere sul risparmio nazionale. Viene, quindi, secondo tale opinione, negata quella teoria finanziaria che ha cercato di convalidare la tesi che il d. p. costituisca un mezzo per spostare sulle generazioni future un onere che altrimenti graverebbe, con l'imposta straordinaria, sulle generazioni presenti. Premesso che per "pressione" esercitata dal prestito o dall'imposta, debba intendersi la diminuzione dell'ammontare del reddito o del valore del patrimonio in seguito al prelievo operato dallo stato e partendo dal presupposto che il fabbisogno finanziario dello stato, necessario per fronteggiare una certa spesa straordinaria, superi largamente l'ammontare del reddito disponibile di un certo periodo, si conclude che non vi è alcuna differenza tra imposta e debito anche perché l'onere viene subìto sia dalle generazioni presenti sia da quelle future. Infatti, tanto che venga applicata l'imposta tanto che venga contratto il d. p., le generazioni avvenire erediteranno in entrambi i casi un patrimonio e un reddito proporzionale minore. Il sacrificio della generazione presente è identico a quello delle generazioni future e in entrambi i casi il prelievo patrimoniale non è assolutamente in grado di aumentare il sacrificio delle generazioni attuali a beneficio di quelle che verranno. Tale ragionamento viene evidentemente riferito alla collettività nel suo complesso e non con riferimento a questa o a quella classe di redditieri. Ampia è l'elaborazione teorica volta a dimostrare gli effetti del ricorso all'imposta o al d. p. per concludere che non vi è alcun elemento astratto che giochi sostanzialmente a favore del d. p. e contro l'imposta straordinaria sul patrimonio.
L'opinione contraria si basa essenzialmente sulla impossibilità di distinguere tra spese ordinarie e spese straordinarie sulla base della loro natura. Nella realtà - si afferma - non esiste un tipo o un livello di spese per il quale sia comunque doverosa la copertura mediante l'imposta, e soltanto fuori, e oltre il quale, sia legittimo il ricorso al prestito. Così per esempio, nella finanza delle guerre moderne, che è certo finanza straordinaria, l'entità dei fabbisogni è del tutto sproporzionata alla quantità di beni già esistenti e mobilitabili per la guerra, e può essere fronteggiata soltanto dal flusso della produzione corrente. Ma allora - si sostiene - il finanziamento deve provenire sostanzialmente dal reddito corrente. E infatti nella finanza straordinaria dei tempi moderni sempre più largo è il ricorso alle imposte mentre i prestiti hanno come funzione prevalente non tanto l'assorbimento di disponibilità liquide quanto il prelievo dal reddito corrente mediante un tipo di processo inflazionistico. Viceversa, nella finanza dei tempi ordinarî il prestito si può presentare come un mezzo per mobilitare risorse che sono o rimarrebbero inerti, e per finanziare la spesa pubblica senza elevare le aliquote delle imposte a livelli mal sopportabili dai contribuenti che hanno oggi scarsi margini di reddito e che dallo sviluppo della vita economica possono attendersi un incremento di reddito che permetta loro di contribuire più agevolmente alla liquidazione del debito.
In particolare, teorizzando sulla possibilità di indebitamento di uno stato, occorre preliminarmente distinguere tra debiti esteri e debiti interni. Nel primo caso, si sostiene che il servizio interessi e ammortamento implichi un trasferimento di mezzi dall'economia del paese debitore a quella del creditore; il che non crea un problema (se non eventualmente per le modalità del trasferimento) qualora il paese debitore abbia impiegato il prestito estero in modo da aumentare il proprio reddito nazionale in misura almeno eguale al servizio del prestito. Nel caso invece si abbia un impiego consuntivo, la successiva sottrazione di ricchezza all'economia nazionale non trova una contropartita, e non può ovviamente essere spinta oltre certi limiti senza creare profondi squilibrî. Nel caso poi dei debiti interni, il loro servizio importa trasferimenti soltanto entro l'economia del paese, che non è quindi, per il fatto del debito, né più ricca né più povera. Il limite qui non è dato, come nel caso precedente, dagli effetti di una sottrazione di ricchezza all'economia come un tutto, ma dagli inconvenienti della redistribuzione del reddito nazionale, mediante il pagamento degli interessi del d. p. e il prelievo delle imposte corrispondenti. In questi inconvenienti dei trasferimenti sta il limite reale alla espansione del d. p.: limite che in concreto dipende da elementi come l'altezza del rapporto tra interessi del debito e reddito nazionale, la struttura del sistema tributario, la distribuzione dei titoli del debito pubblico.
Sotto il profilo più strettamente amministrativo, deve ricordarsi che in Italia, nel 1957, sono state apportate notevoli innovazioni tecniche, amministrative e giuridiche al precedente ordinamento del d. p. che risalendo al 1861 (v. XII, p. 437 segg.), con l'istituzione del Gran Libro, si era dimostrato inadeguato alle esigenze dell'attività economica e finanziaria del paese, in relazione allo sviluppo dei prestiti pubblici.
Per quanto riguarda infatti la struttura del Gran Libro la legge 12 agosto 1957, n. 752, ha abolito le matrici dei titoli al portatore e misti - uno dei modi di accertamento della legittimità dei titoli - e le ha sostituite con apposite schede al fine di assicurare con un sistema più semplice e moderno e con economia di spese e di locali il relativo servizio e il raggiungimento degli scopi prefissi dall'Amministrazione. Inoltre, sono state introdotte procedure più semplici e più rapide nelle varie fasi di svolgimento delle operazioni sui titoli di debito pubblico amministrati dalla Direzione generale del debito pubblico, snellendo i varî servizî ed abolendo formalità e registrazioni sembrate superflue. Infine, nel campo che riflette prettamente la disciplina dei diritti nascenti dai rapporti di carattere patrimoniale, ai quali sono interessate persone fisiche o persone giuridiche, si è cercato di alleggerire la documentazione delle pratiche e di eliminare adempimenti e procedure talvolta troppo onerosi, tenendo presente il carattere speciale dei rapporti tra lo Stato e i portatori di titoli e le particolari esigenze di questi ultimi, improntate a particolare dinamicità.
L'anno successivo, veniva perfezionata la tecnica amministrativa del d. p. con una legge (18 marzo 1958, n. 241) che dettava norme sul minimo iscrivibile nel Gran Libro e sull'arrotondamento dei pagamenti degli interessi su titoli, nonché facilitazioni nelle operazioni di rinnovamento dei titoli nominativi. Il provvedimento mirava ad apportare economie di spese e snellimento dei servizî per l'Amministrazione risolvendo, fra l'altro, l'annoso problema dell'eliminazione dei titoli di piccolo importo.
Bibl.: A. De Viti De Marco, Contributo alla teoria del prestito pubblico, in Saggi di economia e finanza, Roma 1898; id., Principii di economia finanziaria, Torino 1953; S. E. Harris, The national debt and the new economics, New York 1947; G. Del Vecchio, Introduzione alla finanza, Padova 1954; S. Steve, Finanza pubblica, in Diz. di economia politica, Milano 1956; L. Einaudi e F. A. Repaci, Il sistema tributario italiano, Torino 1958; C. Cosciani, Principii di scienza delle finanze. Ricerche, Roma 1959.