debito pubblico
Lo Stato e i suoi creditori
I titoli pubblici hanno scadenze varie, annuali (per es., Buoni Ordinari del Tesoro, ➔ BOT) o poliennali (per es., Buoni Poliennali del Tesoro, BPT), e garantiscono ai sottoscrittori un rendimento sotto forma di interesse (➔ p) su quanto pagato, cioè sul prezzo di emissione o di borsa. Periodicamente il Tesoro indice aste per il collocamento dei titoli, il cui ricavato serve a finanziare il nuovo fabbisogno e a rimborsare il vecchio debito, allorché viene in scadenza. Al rendimento dei titoli è legato il costo del debito per le casse dello Stato, sotto forma di spesa per interessi. Per attirare la domanda di titoli, lo Stato deve garantire un rendimento che sia competitivo con gli altri asset (➔) finanziari, e garantisca un adeguato premio per il rischio di insolvenza.
Se le necessità di finanziamento sono elevate, lo Stato emette il titolo sotto la pari, traducendo il rendimento per i sottoscrittori in costo per interessi superiori alle cedole staccate. Il costo del debito per il Tesoro è la media dei rendimenti garantiti in relazione alla scadenza dei titoli che ha emesso. Il rendimento di un titolo a lunga scadenza è più basso di uno a breve, perché più alto è il rischio legato al rimborso. Tuttavia, quando la curva dei tassi (➔ tasso) di interesse si sposta verso l’alto, il costo del debito cresce al diminuire della durata media, perché i titoli a breve, una volta scaduti, devono essere rinnovati a un rendimento più alto, mentre, per quelli a lunga scadenza, questa trasformazione avviene più in là nel tempo.
La spesa per interessi dello Stato è ottenuta applicando il costo medio del debito all’ammontare accumulato. Per questo motivo, nei Paesi ad alto debito, la spesa per interessi costituisce una componente rilevante delle uscite pubbliche, capace di ingessare il bilancio, data la sua imprescindibile necessità. In Italia, prima dell’adesione all’area dell’euro, la spesa per interessi aveva superato il 12% del PIL, più del doppio della spesa per l’istruzione, e ben al di sopra di quella sanitaria. Il livello del debito è significativo non solo in termini assoluti quanto, soprattutto, relativi: in rapporto cioè al PIL di un Paese. I parametri fissati nel Trattato di Maastricht (➔), per l’adesione alla terza fase dell’Unione monetaria (➔) europea, e poi utilizzati nel Patto di stabilità e crescita (➔), indicano un limite del 60%, che gli Stati dovrebbero tendenzialmente rispettare. In Italia il rapporto debito/PIL è sopra il 100% almeno da 20 anni e dopo la crisi del 2009-10 è arrivato alla quota del 120% nel 2010. Si tratta del livello più alto tra i Paesi europei, tranne la Grecia che è al 143%. La Germania ha un debito pubblico dell’84% del PIL e la media UE è dell’80%. Gli USA sono al 95% e il Giappone è il Paese industrializzato con il più alto livello del debito, pari addirittura al 220% del PIL. La dinamica nel tempo, per es. la crescita, del rapporto debito/PIL può essere descritta con la seguente fondamentale equazione
=dp+(r−g) b+f−Δm
dove Δb, l’incremento del rapporto debito/PIL, dipende, in primo luogo, dal disavanzo primario (cioè la differenza tra il totale delle spese pubbliche, al netto della spesa per interessi, e il totale delle entrate pubbliche), su PIL, dp. In secondo luogo, Δb dipende dal prodotto del rapporto debito/PIL, b, per il differenziale tra costo reale del debito r (pari al tasso di interesse nominale meno il tasso di inflazione r=i−π), e tasso di crescita reale dell’economia, g, che muove il denominatore del rapporto debito/PIL. In terzo luogo, Δb dipende dalla dinamica delle partite finanziarie, sempre in rapporto al PIL, f, che derivano da operazioni di finanza straordinaria, entrate o uscite una tantum (per es. le privatizzazioni). Δm è la monetizzazione del debito tramite il signoraggio che riduce il rapporto debito/PIL, se però la pratica è ammessa, in quanto fonte di inflazione (➔). Da notare che quest’ultima, per quanto fenomeno generalmente negativo, incide favorevolmente sullo stock (➔) di debito. Se si registra inflazione, a parità del tasso nominale di interesse, il costo reale del debito diminuisce e con lui il rapporto debito/PIL. Invece, un aumento del cosiddetto spread (➔) dei tassi di interesse, cioè il differenziale del costo del debito rispetto a un tasso di riferimento (generalmente quello assicurato dai Bund decennali tedeschi) dovuto a un incremento dei rendimenti dei titoli nazionali, aumenta, a parità di crescita, la seconda componente dell’equazione. Si alimenterà così nuovo debito sul PIL, in una specie di spirale. Alla formazione del debito pubblico contribuiscono i 3 livelli in cui è suddiviso il conto della pubblica amministrazione. L’amministrazione centrale (i ministeri) contribuisce all’indebitamento netto della pubblica amministrazione per circa il 41%, l’amministrazione previdenziale (gli enti pubblici gestori) per il 35% e l’amministrazione locale (enti locali e Regioni) per il restante 24%.
Simmetricamente, una politica di rientro dal debito, che prescinda dall’inflazione, consiste in interventi sulle prime 3 componenti dell’equazione in modo separato o concomitante. Una riduzione della spesa pubblica (➔ p)(un incremento della tassazione) aumenta l’avanzo primario e quindi diminuisce la prima componente. Una politica di sostegno alla crescita economica contrae la seconda componente. Per la terza, in genere, si pensa alla dismissione del patrimonio della pubblica amministrazione o, in via eccezionale, all’istituzione di imposte patrimoniali straordinarie. Quando la spirale dei tassi di interesse si coniuga con una bassa crescita e una incapacità di sostenere l’avanzo primario e di mettere mano a interventi di finanza straordinaria, il debito pubblico diviene insostenibile, e si aprono scenari di instabilità finanziaria con conseguenze deleterie sull’economia reale. In casi eccezionali, uno Stato, non riuscendo a far fronte alla situazione, può essere costretto al ripudio del debito (➔ debito pubblico, ripudio del) stesso, cioè a decidere di non rimborsarlo alla scadenza.
Alessandro Petretto