DE SORIA, Giovanni Gualberto
Nacque a Pisa il 10 apr. 1707 da Enrico e da Maria Elisabetta delle Sedie; l'affermazione delle Novelle letterarie (1767, col. 676) ripresa poi da A. Fabroni, circa una sua nascita a Livorno, priva di ogni elemento probatorio, è da ritenere erronea.
La famiglia paterna risiedeva da tempo a Sant'Ilario in Campo, nell'isola d'Elba, dov'era nato lo stesso Enrico; nei registri parrocchiali di San'Ilario relativi all'epoca (come anche nella popolazione odierna, presso cui è ancora diffuso) il cognome, di probabile origine spagnola, è però attestato nella forma Soria; fu probabilmente lo stesso D., allorché divenne professore a Pisa, ad alterarlo forse in analogia alla denominazione d'una famiglia comitale spagnola dalla quale poté ritenere che la sua derivasse. Quanto al nome, documenti e testimonianze del D. stesso e di altri lo presentano indifferentemente nelle forme Giovanni Alberto e Giovanni Gualberto; tra esse la seconda pare preferibile, per il plausibile riferimento devozionale e per la frequenza del nome Gualberto nell'onomastica elbana.
Attorno al 1698 Enrico Soria ("uomo non culto, e oscuro", come lo dirà Luca Magnanima) si era trasferito dall'Elba a Pisa, iniziando a lavorare nel servizio postale della città; la famiglia che formò sposandosi nel 1702 visse modestamente: a Giovanni Gualberto, primogenito, seguirono altri otto figli, gli ultimi quattro dei quali nati a Livorno, dove Enrico si trasferì seguitando a lavorare nelle poste e, dopo la morte del padre, spetterà al D. fungere da supporto della famiglia. Egli effettuò i primi studi nelle scuole labroniche dei gesuiti, che frequentò fin verso il 1720, avendovi per compagno il futuro barnabita Clodoveo Maria Pentolini, rimasto poi sempre suo amico strettissimo. In seguito, per le classi di retorica, andò a studiare nel collegio gesuitico di Prato. Il Magnanima presentò come negativa la reazione del D. alla didattica dei gesuiti, ma è arduo stabilire se questo sia un dato reale o una sorta di razionalizzazione a posteriori: risulta comunque che con gli antichi maestri egli mantenne contatti amichevoli, e ai suoi studi con loro risale certamente l'ottima preparazione nella lingua latina, mentre pare che studiasse da autodidatta il greco, assente o marginale nel cursus gesuitico. Il Magnanima accenna anche, fuggevolmente, ad un tentativo dei gesuiti di attrarlo nel loro Ordine. Dopo alcuni anni, plausibilmente al termine del triennio filosofico (e comunque anteriormente al 1725), il D. tornò a Livorno, dove il padre intendeva avviarlo a studi giuridici. Nella città portuale, sede attiva di traffici, venne a contatto con alcuni vivi esponenti d'una cultura laica innovativa, priva di supporti istituzionali e confinata in cenacoli privati, ma informata sugli sviluppi esteri ed erede dello sperimentalismo galileiano. Uomini come il medico M. Ictier, il giurista G. A. Padroni e G. Athias, studioso di lingue e di esegesi biblica, erano stati parte del circolo solito a riunirsi, tra fine '600 e primo '700, attorno a Giacinto Cestoni, condividendone interessi e risultati biologico-medici ed i rapporti con Redi e Vallisnieri. Da loro il D. fu indirizzato ai testi dello sperimentalismo, da Bacone e dalla tradizione inglese di Boyle e della Royal Society a Galileo ed ai Saggi dell'Accademia del Cimento; un altro aspetto che è verosimilmente da collegare alla frequentazione del gruppo di Athias sono le relazioni del D. con gli stranieri, e particolarmente gli inglesi, residenti allora in Toscana in numero apprezzabile. Dai rapporti con costoro gli deriverà l'ampiezza di letture e contatti e la forte presenza di componenti inglesi nella sua cultura, caratteri che s'incontrano significativamente in altri esponenti del preilluminismo toscano, come A. Cocchi. I nuovi interessi così destati modificarono anche le sue prospettive di studio; iscrittosi all'università di Pisa, formalmente per compiere gli studi legali come desiderava il padre, seguì di fatto i corsi filosofico-scientifici, e quando la famiglia, colto questo suo orientamento, vi si oppose, egli resistette tenacemente e con successo nella sua decisione.
La didattica filosofico-scientifica dell'università pisana nei primi decenni del Settecento è perciò un elemento essenziale per comprendere i successivi esiti della cultura del D., che in parte ne furono un superamento ma che, in parte anche maggiore, ne mantennero condizioni e limiti. Quando il D. la frequentò da studente, la sola matematica (e discipline connesse quali meccanica, idraulica e ottica) aveva, grazie alla docenza di Guido Grandi, una didattica di livello europeo. La fisica vi manteneva invece ancora la collocazione tradizionale nei corsi filosofici, nei quali gli elementi innovativi penetrati nei precedenti decenni non avevano mutato il carattere meramente dialettico e ipotetico-sistematico delle analisi, in quanto esso era comune anche a fisiche come quella gassendiana e cartesiana. Mancava, con sporadiche eccezioni, una sperimentazione affiancata a metodi quantitativi, ed in docenti di filosofia come Pascasio Giannetti l'adesione a tesi corpuscolariste e l'omaggio alla tradizione galileiana, se giungevano ad esiti interessanti su un lato piano ideologico-religioso, restavano però generici e aprioristici. Egli dovette quindi leggere praticamente da solo i testi base dello sperimentalismo inglese e olandese, e in un corso biennale di studi con Grandi apprese l'essenziale in geometria classica e "moderna" (cioè il metodo degli indivisibili di B. Cavalieri), in algebra e analisi, e infine in meccanica. Tuttavia nella sua cultura la componente matematica, non veramente approfondita, rimarrà secondaria, tanto che quasi nessuno dei suoi scritti di filosofia naturale, in cui è teorizzata l'adozione del metodo analitico e l'associazione intima delle procedure sperimentali e di calcolo, presenta operativamente tali requisiti. Questo non fu un puro limite personale del D., ma esemplifica un'intera situazione storica: egli operò in un periodo in cui le discipline fisico-matematiche vennero sempre più specializzandosi, e quindi assumendo uno statuto concettuale e professionale autonomo rispetto alle vecchie, onnicomprensive cattedre di filosofia; la sua posizione fu quindi quella di chi, senza dedicarsi in senso proprio alla ricerca scientifica e rimanendo ad operare entro la persistente struttura universitaria, non per questo rimase fedele al vecchio approccio speculativo e recepi in parte le istanze di rinnovamento emergenti dai progressi scientifici. Spinto da un'immensa curiosità intellettuale, il D. seguì poi a Pisa i corsi di diritto romano di G. Averani, quelli medici e anatomici degli allievi di L. Bellini, le lezioni di botanica di M. Tilli, ed anche le dimostrazioni chimiche che, senza essersi ancora costituite in un corso apposito, comparivano saltuariamente nella didattica delle materie mediche; si dedicò al pensiero moderno europeo, da Cartesio (la cui impostazione aprioristica egli sentì però in contraddizione con gli sviluppi più recenti dell'epistemologia e delle scienze) a Leibniz e Wolff, e soprattutto Newton, Locke e i newtoniani inglesi, tra cui Clarke. L'empirismo e la particolare accezione newtoniana dell'analisi matematica dei fenomeni segnarono la sua fisionomia intellettuale in modo permanente, ed è questo un dato decisivo per cogliere il particolare rapporto filosofia-scienza che egli sosterrà nella fase matura delle sue concezioni. Sia in scritti suoi sia in attestazioni esplicite del Magnanima e di altri appare che per lui la "metafisica" ebbe un ruolo di fondazione e di orientamento nei confronti delle discipline settoriali, e questa è certamente una posizione che lo distingue dall'illuminismo maturo, accostandolo a concezioni sia classiche sia secentesche sulla struttura del sapere, tuttavia in questo quadro ciò che il D. intese per "metafisica" non fu un'ontologia nel senso tradizionale, bensì una teoria della costituzione e funzionamento della ragione desunta in gran parte da Locke: in questo, come in altri aspetti, le sue concezioni, a parte il valore intrinseco, posseggono un elevato valore in quanto esemplificazioni d'una fase storica di trapasso. Sugli interessi filosofici, se ne innestarono poi altri per l'erudizione, l'etica, la religione e la critica storica, ed inoltre egli mantenne costante un'attenzione per la letteratura e le arti: scrisse versi, fu cultore di Dante e della tradizione pittorica italiana (scriverà una difesa della pittura di Michelangelo dalle critiche di A. du Fresnoy).
Laureatosi nel 1727, il D. dovette ricercare una sistemazione economica, e si orientò a chiedere una lettura di filosofia nell'università di Torino, che in quegli anni veniva riformata. Per accreditare la sua candidatura compose ed inviò a Torino un saggio Sull'origine, uso ed abuso delle idee nel ragionare, il cui testo si conservava ancora nel tardo Settecento ma in seguito non è stato più segnalato; dal titolo lo si può comunque giudicare come un primo abbozzo della futura Philosophia rationalis. Le prospettive della richiesta parevano favorevoli quando Gian Gastone de' Medici, con una decisione che creò qualche risentimento data la giovane età del D., gli conferì una lettura di logica nell'università di Pisa. Il granduca lo incoraggiò anche ad esprimere il suo giudizio circa i metodi e i contenuti dell'insegnamento filosofico pisano, ed in seguito ai rilievi del D. circa il suo tradizionalismo e la sua astrattezza, lo autorizzò ad introdurre alcune modifiche nel suo corso di logica. Il senso e l'ambito delle modifiche si colgono bene nella sua principale opera filosofica, le Rationalis philosophiae institutiones sive de emendanda, regendaque mente, pubblicata ad Amsterdam nel 1741, una cui seconda edizione si ebbe a Venezia nel 1746; una terza edizione in italiano, in due volumi, fu poi pubblicata a Lucca nel 1750, ed oltre ad un titolo generale (Opere filosofiche italiane di Gio. Gualberto De Soria pubbl.o profess. filosofo dell'Alma Università di Pisa; contenenti la scienza dell'uomo, e la scienza della natura, espurgate da tutte le ipotesi, e ridotte alla intelligenza comune), riferito non solo ai due volumi, ma ad una serie di altri (dedicati presumibilmente alla "scienza della natura" ricordata nel titolo) che il D. progettava di far seguire, ne recava uno specifico relativo alla parte edita (La scienza dell'uomo o la filosofia emendatrice, e direttrice della ragione, della memoria, e della volontà umana. Dedicata dall'autore all'amplissimo Senato, e celebre popolo di Livorno. Parte prima emendatrice della ragione. Parte seconda direttrice della ragione).
Nonostante l'autore presentasse la terza edizione come molto migliorata, i cambiamenti rispetto alle precedenti furono in realtà ridotti e formali. La prima edizione olandese, come scrisse il D. nella prefazione, seguì dopo anni la stesura del testo, il quale risultò dalla raccolta delle sue lezioni di logica, e fu realizzata all'estero per iniziativa di un "vir illustrissimus", che talune fonti individuano in un commerciante inglese, Jack Jackson. Dei due volumi, il primo tratta genesi, tipi e combinazioni delle idee (dando al termine l'esatto significato lockiano); natura, partizione e criteri di verità per giudizi e ragionamenti; relazione tra idee a fondamento sensoriale e sentimenti. Il secondo passa invece dalla fisiologia della ragione alla sua metodologia: si espongono i metodi analitico e sintetico, e se ne specificano in trentuno "leggi" e dieci "canoni" varie circostanze applicative e corollari, aventi particolarmente per oggetto la stima dell'attendibilità delle testimonianze e delle valutazioni storiografiche: per quest'ultimo aspetto l'opera del D. è uno dei testi salienti, tra Rinascimento e Illuminismo, della tradizione di metodologia critica della storiografia, e l'attenzione su di essa, richiamata già dal Gentile, è ripresa in studi recenti. La novità delle Institutiones entro la cultura italiana si può individuare essenzialmente nel fatto che, pur coprendo un'area tematica, quella del funzionamento razionale della mente, che era l'oggetto tradizionale della logica aristotelica, alteravano le modalità di trattazione proprie di quest'ultima, passando dall'enunciazione di regole inferenziali alla psicologia dei processi cognitivi, quindi connettendo intimamente la logica alla filosofia ed eliminando la tradizionale netta partizione didattica tra le due discipline. Nella sostanza le concezioni del D., nonostante certe affermazioni dell'autore, non presentano molto di nuovo: si tratta per gran parte di riprese, talora letterali, da Locke, con integrazioni accuratamente delimitate e funzionali al tronco argomentativo principale tratte da Descartes, Leibniz e pochi altri. Il ruolo dell'opera, oltre a quello della diffusione dell'empirismo lockiano nell'area italiana, con la chiarezza e la sistematicità proprie d'un manuale, consiste proprio nel fatto che essa si proponeva esplicitamente il requisito della chiarezza per ottenere un coinvolgimento nelle tematiche filosofiche, rapportate ai loro effettivi connotati esperenziali, di ampi ceti medi dediti ad attività economiche e per solito rimasti estranei alla componente speculativa degli studi liberali. Inoltre, nei capitoli della seconda parte sul metodo storico, il D. tentava di saldare, con una sorta di derivazione deduttiva, le metodiche dell'empirismo filosofico e dello sperimentalismo scientifico con la tradizione del metodo critico emersa nei settori dell'antiquaria, dell'erudizione e della filologia, e con ciò esprimeva a livello teorico il dato storico d'una oggettiva convergenza di motivazioni.L'annullamento della demarcazione tra logica e filosofia, che era una delle valenze delle Institutiones, ebbe corrispondenza nella situazione professionale dell'autore, che nel 1735 passò dalla prima alla seconda cattedra, rimanendo in quest'ultima fino alla morte (dal 1735 al 1748 come straordinario, in seguito come ordinario), e divenendo nei suoi ultimi anni il decano del corso filosofico. Comunque, se mutavano il rapporto acquisito tra filosofia e logica e i modi didattici di quest'ultima, le Institutiones contenevano un potenziale innovativo pressoché identico nei confronti della didattica filosofica, destinato ad avere ripercussioni anche maggiori per il ruolo centrale di quest'ultima nell'assetto universitario. Ad un cursus filosofico onnicomprensivo, almeno in parte aristotelico nella sostanza ed enciclopedico nella forma, com'erano state ancora, solo pochissimi anni prima, le Institutiones philosophicae di Odoardo Corsini, collega del D. a Pisa, si sostituiva un'opera che sia nella strutturazione sia nel contenuto rompeva decisamente con la tradizione aristotelica, realizzando forse per la prima volta in Italia la penetrazione sistematica del nuovo pensiero nella manualistica filosofica ad uso universitario. Naturalmente ciò non significa che il D. riuscisse a superare del tutto l'inerzia degli usi consolidati, ai quali si dovette anzi ampiamente conformare, quanto meno nelle lezioni ex cathedra se non in quelle private e nei seminari: dovette quindi associare metafisica, cosmologia e fisica, anche se i contenuti scientifici esposti derivavano dalla nuova scienza. Questo carattere enciclopedistico, perpetuante per un certo verso l'uso scolastico, è tangibile nei diversi manoscritti sopravvissuti riportanti in parte o per intero alcuni suoi corsi.
Un importante gruppo di inediti del D. si trova a Livorno, Biblioteca Labronica. La Biblioteca universitaria di Pisa conserva, nel ms. 19, gli scritti: Institutiones physicae traditae A. D. MDCCXLV; Leges analyticae e Naturalis philosophiae theoremata universalia, di forte impronta newtoniana; la Biblioteca Guarnacci di Volterra ha una Physica coelestis (ms. 282); la collezione privata Durazzo di Genova, infine, conserva in sei volumi, dal titolo complessivo Le opere tutte del sig. dott. Gian Gualberto Soria publico professore di fisica nell'università di Pisa, un gran numero di scritti, dai testi dei corsi universitari di fisica a saggi e memorie accademiche di storia naturale, etica, letteratura. Tutti questi manoscritti, ed altri minori variamente collocati (ad es. uno in Firenze, Bibl. Riccardiana, Fondo Moreni 235), sono in genere copie o appunti presi da allievi, perché il D., fidando sulle risorse mnemoniche e dialettiche, non scriveva i testi delle sue lezioni, variando quindi, di anno in anno, i modi di presentazione per uno stesso argomento.
La circolazione dei testi manoscritti di queste lezioni fu amplissima: il D. stesso dice che quello delle Institutiones, anteriormente alla stampa, era diffuso al di là dei confini italiani, ed il testo a stampa, nella prima edizione di Amsterdam del 1741, fu letto ampiamente in Olanda, e perfino adottato in università; all'opera logica, come detto, il D. progettava di far seguire un filosofia naturale, che però fu pubblicata solo dopo la sua morte, quando ormai il progresso delle concezioni l'aveva resa almeno in parte obsoleta (Cosmologia o Fisicauniversale, Firenze 1772; ampia recensione in Novelle letterarie di Firenze, 1772, coll. 258-263 e 291-296). Pur con i limiti accennati, l'insegnamento del D. avviò la circolazione, entro la cultura toscana, di testi ancora ignoti o non penetrati nella didattica: fece leggere in alcuni dei suoi seminari l'Ottica di Newton, che fu anche esposta da suoi allievi in tesi pubbliche, mentre è eccessiva l'affermazione, che talora s'incontra, che fosse il primo a far conoscere Newton in Toscana (i Principia erano noti nel circolo di G. Grandi già attorno al 1720). Bastò comunque la semplice introduzione dell'Ottica nel circuito didattico, con la connessa esaltazione della metodica newtoniana, a procurare al D. aspre reazioni da parte di altri insegnanti di filosofia: non, si noti, esponenti dell'aristotelismo ortodosso di fatto già scomparsi dalle cattedre filosofiche, ma prodotti, come un Pascasio Giannetti o il padre C. Rolli, d'una tradizione filosofico-scientifica locale, associante spunti di critica all'aristotelismo, un galileismo sovente generico, gassendismo e cartesianesimo. Se era ideologicamente ostile alla vecchia cultura e talora assumeva toni libertineggianti ed eterodossi, quella tradizione aveva ancora i caratteri ipotetico-sistematici delle vecchie trattazioni metafisiche e sentiva la metodica analitica nel senso lockianonewtoniano come una minaccia al proprio patrimonio culturale. Le polemiche che circondarono i primi anni della docenza del D. furono perciò, più che il sintomo d'una resistenza dei tradizionalisti aristotelici, un episodio di un fenomeno generale degli anni '30 e '40 del Settecento, il sostituirsi dell'empirismo matematico newtoniano e delle epistemologie di matrice sensistica alle fisiche sistematiche ed al deduttivismo secenteschi. Nel caso del D., comunque, all'ostilità dei filosofi si aggiunse quella dei docenti di teologia, che nelle sue impostazioni fisiche e psicologico-metodologiche vedevano un pericolo per l'ortodossia religiosa; questo tipo di preoccupazioni valse ad avviare accertamenti riservati sulle sue posizioni, affidati ad una commissione con membri di alto prestigio quali il Grandi, O. Corsini e il padre O. Fancelli, la quale lo scagionò completamente.
Con gli anni, il prestigio del D. crebbe fino a portarlo a contatto dell'aristocrazia e degli esponenti del governo lorenese. Nominato nel 1742 bibliotecario dell'università, nel cui edificio abitò stabilmente, alimentò continuamente la sua informazione (Fabroni scrisse che "era egli stesso una biblioteca vivente"); fu poi socio attivo ed influente, almeno dal 1743, col nome di Pontonaro Aristide (o, in forma greca, Pontonoo Aristideo), della colonia pisana d'Arcadia, detta Alfea, nella quale lesse numerose memorie e tenne orazioni confluite in parte nei tre tardi volumi della Raccolta diopuscoli filosofici e filologici, Pisa 1766 (preceduta da una Raccolta diopuscoli filosofici, Lucca 1753, che rispondeva in parte all'intento dichiarato dell'autore nel pubblicare la Scienza dell'uomo, e che fu recensita da F. A. Zaccaria in Storia letteraria d'Italia, VII, Modena 1755, pp. 154-158).
I diciassette scritti della Raccolta, che oltre ai testi letti in Arcadia ne comprende altri motivati da varie occasioni o composti per la stampa dell'opera, si muovono lungo un arco tematico ampio, dalla filosofia (in particolare l'etica) alla storia naturale a questioni letterarie, e nel complesso costituiscono un complemento significativo, su punti particolari, alle opere maggiori. Tra essi rientra anche un Dialogo tra un Cavalier Francese e un Italiano circa i pregi delle due Nazioni, ristampato isolatamente a Rovereto nel 1767, che è interessante per una rivendicazione decisa delle peculiarità della tradizione artistico-culturale italiana, articolata per singoli aspetti, tra i quali sono particolarmente evidenziati quello linguistico e quello storico-scientifico. Il Dialogo, che come prova stilistica e testo di lingua fu criticato da S. Bettinelli, espresse sentimenti e reazioni diffuse nel Settecento italiano, che li vide convivere con le posizioni cosmopolitiche.
Nelle relazioni del D. con esponenti della comunità straniera residente in Toscana fu significativa l'amicizia con E. Richecourt; si frequentarono nelle estati, che il D. usò a lungo trascorrere a Firenze, dove curò anche privatamente la preparazione culturale del figlio del Richecourt, Carlo. Tra lui e il ministro vi fu la consuetudine di franchi scambi d'opinioni. Nel giudizio del Magnanima il rapporto del D. col ceto dirigente, e più ampiamente con la politica come problema intellettuale ed operativo, fu improntato a interesse ma anche ad autonomia intellettuale e pratica, e a grande franchezza. La matrice delle idee politiche del D. non è, al presente, interamente ricostruita: vi rientrarono certo la tradizione italiana e toscana del pensiero politico, con Machiavelli e Guicciardini, giusnaturalismo e contrattualismo, la critica del preilluminismo e del nascente illuminismo, da Bayle a Montesquieu a Voltaire; né è agevole ricostruire una sua eventuale successione di idee, con le relative fasi, perché singole tesi o episodi non sono sempre databili con precisione. La documentazione mostra che egli fu favorevole a riforme incisive, ma insieme consapevole della non completa prevedibilità o desiderabilità delle loro implicazioni, tanto da oscillare tra la denuncia della superficialità o compromissorietà dell'azione di governo e l'autoconfinamento sul piano culturale per le remore al coinvolgimento nel concreto decidere politico. Il suo contributo più vivo si espresse quindi in analisi e proposte avanzate nel corso di conversazioni private, in cui le valenze innovative della sua cultura si espressero in forma di progetti costituzionali ampi, talora manifestamente connessi con la tradizione utopica.
Questo si avverte già nelle Notti alfee, il cui manoscritto inedito si conserva a Livorno (Bibl. Labronica). L'operetta scaturì dalle conversazioni che il D. ebbe a Pisa e Livorno, a partire dal 1746 ed in modo intenso nel 1748, con un gruppo di giovani nobili genovesi momentaneamente esuli dalla loro città per vicende militari e politiche connesse con la guerra di successione austriaca: tra essi vanno ricordati G. B. Negroni, futuro doge della Repubblica, e Giacomo Filippo Durazzo, colui che entrato in possesso di numerosi manoscritti del D. li aggiungerà poi alla collezione della sua famiglia. Date le circostanze, le conversazioni, che il titolo del manoscritto fa supporre che si svolgessero prevalentemente nella colonia arcade di Pisa, ebbero anche carattere politico, e dalle vicende correnti giunsero ad investire il complesso delle leggi fondamentali della Repubblica di Genova, circa le quali il D. formulò ampie e penetranti osservazioni. Trasmesse a Genova, queste destarono l'interesse d'un esponente del mondo culturale locale, l'abate Pier Maria Asdente, che chiese chiarimenti al De Soria. La risposta di questo constò d'una lettera del marzo 1748 da Pisa, che unita ad ampie note esplicative forma il testo delle Notti alfee. Le proposte del D., studiate da F. Venturi e S. Rotta, investirono assetto istituzionale, economia, costume pubblico, vita scolastica e culturale, estendendosi anche alla questione corsa; per quest'ultimo aspetto saranno poi riprese e ampliate dal Magnanima nelle sue Lettere italiane sopra la Corsica. In seguito alla pubblicazione del Dei delitti e delle pene di C. Beccaria, il D. espresse un Giudizio che fu stampato nella terza edizione dell'opera; nella parte terminale egli accennava all'intento di pubblicare un "romanzo politico, un mio viaggio al Regno di Sofia, parte delle Terre Australi incognite", dove avrebbe rappresentato "il sistema civile più beato e più perfetto". Il proposito non si concretò, ed il progetto utopico resta perciò ignoto nei suoi precisi connotati, anche se è palese, quanto meno nella struttura letteraria, il rapporto che esso ebbe con i viaggi utopici di un Seriman.
Le Notti alfee non sono che uno dei documenti dei rapporti del D. con ambienti diversi, nei quali, oltre alle sue idee politiche, ebbero modo di diffondersi anche quelle religiose, che se non rientrano interamente nella tipologia illuministica, per certi aspetti appartengono chiaramente al movimento che portò a quella. Vicino al gruppo di mercanti, agenti e diplomatici inglesi dai quali era nata nel 1732 la loggia massonica fiorentina, amico di A. Cocchi, T. Perelli e T. Crudeli, che ne erano stati tra i primi associati (e di Crudeli poeta fu un estimatore entusiasta), egli gravitò nella stessa loro area anche se, per la precoce chiusura della loggia fiorentina, il suo nome non compare tra quelli degli affiliati certi.
Vanno probabilmente viste in questa luce anche due dissertazioni pubblicate a Lucca nel 1745, in un unico volumetto dal titolo Della esistenza e degli attributi di Dio e della immaterialità ed immortalità dello spirito umano secondo la mera filosofia. Ragionamenti metafisici .... Presentate come risposte a quesiti posti all'autore, che resta anonimo, da un "Cavalier' della Gran Brettagna", già fatte circolare da costui in Inghilterra, le dissertazioni usano molte movenze argomentative della tradizione metafisico-scolastica (la dimostrazione dell'esistenza di Dio riprende le prove tomistiche) ma, se polemizzano con atei e materialisti, sono di tono marcatamente deistico per il ricorso esclusivo a strumenti logici, che elimina il valore dimostrativo della rivelazione cristiana o del consensus gentium, ed il Dio che vi compare è un ente che, nella sua pura definizione concettuale, non possiede tutti gli specifici connotati di quello cristiano. Da ciò nacque una forte reazione di Giovanni Lami, pur sospetto anch'egli di posizioni eterodosse; nelle sue Novelle letterarie (VI[1745], coll. 706-715, 723-736, 739-752, 753-764, 786-798; VII [1746], coll. 4-14, 17-26, 35-47, 222-224, 306-320, 324-333) egli recensì il volumetto divulgando il nome dell'autore e criticandone aspramente le tesi in cinque lettere attribuite ad un inesistente abate Clemente Bini, pseudonimo del Lami stesso. Le critiche vertevano sul silenzio del D. sulle prove ed argomentazioni con cui la Chiesa avvalorava la concezione cristiana di Dio, e sulla difformità da questa delle idee espresse nel Dell'esistenza, giungendo ad indicare come intento reale dell'autore lo svuotamento d'ogni prova positiva circa l'esistenza della divinità.
In difesa del D. intervenne il padre servita F. R. Adami, professore di teologia a Pisa e già autore d'una recensione positiva alle Institutiones del D. (Giornale de' letterati pubblicato in Firenze, 1[1742], 1, pp. 132-137), che dapprima fu il probabile autore d'una recensione positiva anonima contrastante con le critiche di Lami (nello stesso Giornale de' letterati, IV[1745], 1, pp. 185-201), ed in seguito gli replicò più ampiamente con un testo circolato manoscritto; il sedicente Bini replicò a sua volta con altre due lettere, pubblicate assieme alle cinque precedenti in un volume (Lettere teologiche e metafisiche, Milano [ma Firenze] 1746) nella cui stampa, secondo Lami, ebbe parte anche il filologo e grecista A. M. Bandini, ciò che mostra come l'urto D.-Lami ne esprimesse uno più generale tra due gruppi di intellettuali discordanti sui modi d'un approccio razionalistico al problema religioso (anche un uomo fine e aperto come mons. G. Cerati, provveditore allo Studio di Pisa, parlò delle dissertazioni come di "puro pensiero deistico"). Infine al volume del Lami ne seguì uno dell'Adami, celato anch'egli sotto uno pseudonimo, Gelaste Mastigoforo (Lettere all'eccellentissimo signor dottor Clemente Bini, Lucca 1746 e 1747); la polemica ebbe ampia risonanza, fin nell'epistolario del Muratori, e le tesi del D. attrassero l'attenzione dell'Inquisizione. Tramite i nobili genovesi che erano stati origine alla stesura delle Notti alfee, il D. ottenne, a Roma, l'appoggio dei cardinali Spinola e Negroni, mentre secondo Magnanima anche un esame del Dell'esistenza fatto per ordine di Benedetto XIV non vi trovò elementi tali da giustificare la messa all'Indice del libro; tuttavia, per cautelarsi, l'autore ne pubblicò ancora a Lucca, nel 1746, una seconda edizione, mutandola in alcuni dei passi più problematici. Rimasero invece inedite due repliche polemiche del D. al Lami, citate dal Magnanima tra i manoscritti che alla sua morte rimasero in possesso del Pentolini, ma oggi non reperibili tra le carte di questo nella Biblioteca Labronica.
Nel tempo libero dall'insegnamento e dalle incombenze di bibliotecario (nel cui svolgimento fu coadiuvato dall'abate G. Del Turco, un altro dei più fedeli divulgatori delle sue posizioni) il D. amò le conversazioni colte, nelle quali riversava la sua dialettica spigliatissima con un'abbondanza che già a qualche contemporaneo seppe di improvvisazione e dispersione; membro di varie accademie oltre all'Arcadia, e oratore ufficiale in varie circostanze accademiche e cittadine, le sue orazioni e memorie furono numerose, e solo in parte sopravvivono nella Raccolta di opuscoli e nei manoscritti della collezione Durazzo (un saggio sulla struttura del corpo umano fu stampato come primo tra le Dissertazioni e lettere scritte sopra varie materie da diversi illustri autori viventi, II, Firenze 1750: tre altre dissertazioni saranno stampate al termine del secondo volume delle Opere inedite). Restò ufficialmente scapolo ma il Fabroni, conoscitore informatissimo (e non del tutto simpatetico) del personaggio e del suo ambiente, deplorò l'influenza esercitata su di lui da una donna, nata "humili et obscuro loco", che secondo le voci correnti il filosofo avrebbe sposato. Ammiratissimo dagli allievi tra i quali, nella lunga docenza, si contarono molte personalità di futuro spicco (G. Targioni Tozzetti, R. Cocchi, A. Tavanti, G. Buondelmonti, G. V. Castelli, G. Pelli, R. Niccoli), fu affabile con loro e molto disponibile verso un gruppo ristretto di amici: del Pentolini, accademico apatista e oscuro poetante, illustrò con note i poemi Le donne illustri (Livorno 1776) e Delle lodi di Maria Vergine (inedito in Bibl. Labronica, O. 91. O, mss. Sez. IV, 26); il Pentolini stesso, il Del Turco ed il Niccoli disposero ampiamente dei suoi manoscritti, che in gran parte rimasero in loro possesso alla sua morte e non giunsero alla pubblicazione. L'unica pubblicazione postuma, oltre alla Cosmologia già ricordata, sarà la Raccolta di opere inedite (2 voll., Livorno 1773-1774).
Oltre a tre brevi dissertazioni stampate al termine del secondo volume, la Raccolta contiene un gran numero di schizzi biografico-psicologici di personaggi di svariatissima collocazione cronologica e ambientale: si va dai personaggi classici (Dario, Alessandro, Archimede, Aristotele, Cicerone) a esponenti culturali e politici che il D. aveva conosciuto personalmente. Questa successione di ritratti (centotrentacinque in tutto, ordinati alfabeticamente) interessa soprattutto quando vi compaiono personalità contemporanee dell'ambiente toscano, sulle quali, pur nell'estrema brevità, egli ha spesso informazioni e notazioni importanti, anche perché attente al volto non ufficiale delle indoli e dei comportamenti.
Il suo sapere enciclopedico (e più ancora il compiacimento e l'ostentazione di esso), se destò ammirazione, produsse anche perplessità, talora in ambienti culturalmente vicini a lui, e la sua sintesi filosofica, se nel medio Settecento svolse un'importante funzione di svecchiamento, nella seconda metà del secolo parve superata e segnata da una superficialità di base; nel riferire al fratello Pietro il suo incontro con il D. a Pisa Alessandro Verri lo descrisse come un "ciarlatano di buona grazia", abile nell'inserire "in un mare di parole, spruzzate di qualche immagine, alcuni generali principi di zibaldonica filosofia", e al giudizio sull'autore faceva corrispondere quello sulle opere (Carteggio di Pietro e di Alessandro Verri, I, 1, Milano 1923, pp. 362 s.). La sua notorietà fu comunque amplissima: da Federico II gli giunsero precise offerte per trasferirsi presso l'Accademia di Berlino; F. Galiani tenne a visitarlo nella tappa toscana del suo viaggio italiano del 1751-52, e così J.J. de Lalande (Voyage en Italie, Genève 1790, II, p. 433; al Lalande il Magnanima dedicherà la propria biografia del maestro, ricordando la circostanza). Già le biografie di contemporanei nelle Opere inedite provano la vastità dei suoi contatti, ma uno strumento ben più interessante in tal senso sarebbe un'edizione completa dell'epistolario, che è in massima parte disperso e, per la parte relativa a lettere a lui inviate, appare sostanzialmente perduto: la Biblioteca Labronica conserva (0.91.0, mss. Sez. IV, 25) una Raccolta di lettere inviate da lui ad altri, ricopiate consecutivamente dal Pentolini e da lui corredate di un indice, che elenca quarantaquattro destinatari per novantanove lettere (tra essi Benedetto XIV, Francesco Stefano di Lorena, Muratori, Maria Teresa d'Austria, il Richecourt, lady Margaret Walpole); altre sue lettere sono state ripetutamente segnalate negli archivi e biblioteche di Pisa (tre nella corrispondenza di Grandi in Bibl. univ., ms. 96, cc. 45-48) e Firenze, e più sporadicamente in altre località.
Con l'avanzare dell'età il D. amò sempre più trascorrere i periodi di vacanza nella zona di Calci, della quale era originaria sua madre. La sua salute, mai eccellente, andò progressivamente declinando per disturbi che il Magnanima attribuì alla scarsa attività fisica propria d'una vita di studioso, cui si aggiunse una forma di oftalmia. Morì in seguito a "un assalto fierissimo di convulsioni" il 16 agosto 1767a Calci (Pisa) e fu sepolto nella locale chiesa di S. Andrea.
Fonti e Bibl.: Diversi dati, sia sull'origine familiare sia sulle attitudini e interessi del giovane D. si potrebbero desumere dai ricchi materiali d'archivio del collegio Cicognini, elencati da G. Scaramella, L'archivio del Collegio Cicognini di Prato. Indice, Prato 1903. G. Lami pubblicò un anonimo Elogio del dottor G. G. D. nelle sue Novelle letterarie pubblicate in Firenze, 1767, coll. 676-682; si vedano anche, delle stesse Novelle letterarie, gli anni 1766, coll. 421 ss.; 1778, coll. 106-109, e 1779, col. 672. Notizie generiche sulle opere del D. si trovano in varie storie - contemporanee e successive - della filosofia e della cultura in Italia; più specificamente utili sono: F. A. Zaccaria, Storia letter. d'Italia, II, Venezia 1750, pp. 148 ss.; L. Magnanima, Elogio istor. e filosofico di Giovanni Alberto D., Livorno 1777 (cha appare come uno sviluppo delle anonime "Notizie intorno alla vita dell'Autore" premesse alla citata Raccolta di opere inedite del D., I, pp. III-XVI); A. Fabroni, Historia Academiae Pisanae, III, Pisis 1795, pp. 420 ss., 687, 690;F. Pera, Ricordi e biografie livornesi, I, Livorno 1867, pp. 205 ss., e passim; L. A. Muratori, Epistolario, a cura di M. Campori, Elenco alfabetico dei corrispondenti, Modena 1898, p. 23; G. Gentile, Contributo alla storia del metodo storico, in Studi sul Rinascimento, Firenze 1936, rist. in History and Theory, IV (1965), 3, pp. 315-327; S. Rotta, Idee di riforma nella Genova settecentesca e la diffusione del pensiero di Montesquieu, in IlMovim. operaio e socialista in Liguria, VII (1961), 3-4, pp. 209-231; W. Risse, Die Logik der Neuzeit, Stuttgart-Bad Connstatt 1964, II, p. 358; C. Beccaria, Dei delitti e delle pene, a cura di F. Venturi, Torino 1965, pp. 198-205; F. Venturi, in Illuministi ital., VII, Milano-Napoli 1965, ad Indicem; Id., Settecento riformatore. Da Muratori a Beccaria, Torino 1969, pp. 346-354 e passim; P. Zambelli, La formazione filosofica di A. Genovesi, Napoli 1972, pp. 175 s.; N. Carranza, Monsignor G. Cerati provveditore dell'università di Pisa nel Settecento delle riforme, Pisa 1974, pp. 188 s., 278 ss., 362; E. Cochrane, in Dal Muratori al Cesarotti, V, Politici ed economisti del primo Settecento, Milano-Napoli 1978, pp. 459 s.; D. Puncuh, I manoscritti della raccolta Durazzo, Genova 1979, pp. 233 s.; V. Ferrone, Scienza natura religione. Mondo newtoniano e cultura ital. nel primo Settecento, Napoli 1982, pp. 651-667; P. Casini, Newton e la coscienza europea, Bologna 1983, pp. 199 s.; A. Rotondò, Il pensiero polit. di G. G. D., in L'età dei lumi. St. stor. sul Settecento europeo in on. di F. Venturi, I, Napoli 1985, pp. 987-1044.