De Sensu et sensato
Titolo con cui viene talora indicata l'opera di Aristotele De Sensu et sensibilibus, in un libro, collocata dagli editori subito dopo il De Anima, all'inizio della serie dei cosiddetti Parva Naturalia, gruppo di brevi scritti concernenti problemi di psicologia e di biologia umana e animale.
Di essa esistono due traduzioni latine medievali, entrambe dal greco: l'una, detta translatio vetus, fa parte di una versione di tutti i Parva Naturalia, risalente al sec. XII e opera di anonimo; la seconda, detta translatio nova, è una revisione della vetus, eseguita un secolo più tardi da Guglielmo di Moerbeke, il quale ne tradusse anche il commento di Alessandro di Afrodisia. L'opera fu inoltre compendiata da Averroè e commentata da Adamo di Buckfield, Alberto Magno, Tommaso d'Aquino, Pietro d'Alvernia ed Egidio Romano. La sua lettura fu resa obbligatoria nella facoltà delle Arti di Parigi a partire dal 1255.
La presenza del De S. in D. è rivelata da due citazioni esplicite, entrambe contenute nel medesimo capitolo del Convivio ed entrambe relative allo stesso capitolo dell'opera aristotelica. La prima, in Cv III IX 6 propriamente, è visibile lo colore e la luce, sì come Aristotile vuole nel secondo de l'Anima, e nel libro del Senso e Sensato, rinvia alla distinzione tra sensibili propri e comuni, fondata soprattutto su Anima II 6, 418a 19-20, ma ripresa anche in Sensu et sens. 1, 437a 7-9, dove compaiono gli stessi sensibili comuni (grandezza, quiete, moto, figura e numero) ricordati da Dante. La seconda, Cv III IX 10 Veramente Plato e altri filosofi dissero... e questa opinione è riprovata per falsa dal Filosofo in quello del Senso e Sensato, si riferisce a Sensu et sens. 2, 437a 11-13, 438a 25-27. Ma tutto il passo compreso tra le due citazioni (§§ 7-10), ossia la teoria della visione, è fondato, sia pure indirettamente, sul testo aristotelico. D. infatti afferma che le forme delle cose visibili entrano nell'occhio non realmente ma ‛ intenzionalmente ', attraverso il diafano, come in vetro trasparente, e questo processo si conclude nella pupilla, che è d'acqua. La pupilla infatti, essendo terminata, come specchio che è vetro terminato con piombo, fa arrestare le forme nello stesso modo in cui si ferma una palla, e lo spirito visivo le ripresenta immediatamente alla parte anteriore del cervello, producendo in tal modo la visione. Ora nel secondo capitolo del De S. Aristotele afferma che la visione si produce per il moto attraverso il mezzo trasparente (438b 3-8) e per il fatto che l'occhio è formato di acqua (437b 12-15). Alberto Magno, nel suo De Sensu et sensato, afferma che le forme delle cose viste, secondo il loro essere intenzionale, si muovono verso l'interno dell'occhio; introduce il paragone con lo specchio e con la palla, e infine spiega la relazione dell'occhio col cervello (I 5, 8, 13 e 14). Tommaso d'Aquino, pure nel commento al De S., parla a sua volta dello specchio, della palla, del carattere intenzionale del processo, della pupilla che è ‛ terminata ' e del rapporto tra questa e il cervello (IV 48-49, V 59 e 64). Si può pertanto concludere che gli elementi aggiunti da D. all'esposizione aristotelica rivelano la mediazione di Alberto e probabilmente anche di Tommaso.
Bibl. - G. Lacombe, Mediaeval Versions of the Parva Naturalia, in " The New Scholasticism " V (1931) 292 ss.; ID., Aristoteles Latinus, Codices, I, Roma 1939, 59-60; II, Cambridge 1955, 784; G. Boffito, La teoria della visione in D. e Cecco d'Ascoli, in " Rivista di Fisica, Matematica e Scienze naturali " (1924) 67 ss.