Rebus pistoriensibus, De
Rapporto amministrativo del 1502 sui recenti scontri che hanno opposto a Pistoia le due famiglie rivali dei Cancellieri e dei Panciatichi, sulle disposizioni che sono state prese per fronteggiarli e ristabilire l’autorità di Firenze, e sulle misure da prendere per riportare nella cittadina un ordine duraturo. L’autografo è conservato alla BNCF con la segnatura CM I 11. Proviene dalle carte machiavelliane della famiglia Ricci, depositate nei primi decenni dell’Ottocento presso la Biblioteca Palatina, poi nazionale centrale. È vergato su un bifolio di carta di cancelleria di mm 291 × 440. A c. 2v, si legge di mano di M. De rebus pistoriensibus, scritto con l’inchiostro color ruggine, usato in occasione del riordinamento delle sue carte.
Firenze aveva sempre usato le rivalità fra Panciatichi e Cancellieri per imporre la sua autorità su Pistoia; ma questa politica poteva essere rischiosa nei momenti di debolezza politica e militare, come appunto avvenne a partire dall’estate 1500 dopo il disastroso tentativo di riconquistare Pisa, che aveva lasciato Firenze esausta e sfiduciata. Nell’agosto di quell’anno i Panciatichi erano stati cacciati dalla città e i loro tentativi per rientrarvi avevano creato un vero e proprio clima di guerra civile, che avrebbe potuto estendersi ad altre città suddite, come Arezzo.
Il rischio era aggravato dalle amicizie di cui godevano le due famiglie: i Panciatichi erano filomedicei e sostenuti dai Vitelli e dagli Orsini, allora vicini al potente Cesare Borgia, mentre i Cancellieri erano antimedicei e sostenuti dai Bentivoglio di Bologna. Di fronte al dilagare dei disordini nel contado, M. era stato inviato per un intervento urgente. Rimessi i Panciatichi a Pistoia con la forza nel mese di aprile 1501, ne erano stati di nuovo cacciati quando i fiorentini avevano dovuto ritirare le truppe per difendere la città dalle minacce del Valentino. A luglio corse la voce che le due parti avrebbero potuto riconciliarsi per proclamare la secessione della città, e M. venne inviato due volte a Pistoia per fronteggiare il pericolo. In ottobre vi si recò una quarta volta per assistere al ritorno dei Panciatichi, a conclusione di una pace imposta da Firenze. Nel febbraio 1502, ritirate le truppe fiorentine, i Panciatichi furono ancora una volta cacciati dalla città in un clima di grave guerra civile che costrinse Firenze a un nuovo intervento armato. Ma questa volta le autorità fiorentine considerarono indispensabile trovare soluzioni durature per la convivenza delle due famiglie e il ritorno stabile della pace. A questo scopo, il 22 e il 23 marzo 1502, vennero convocati in Consulta dei rappresentanti dei cittadini fiorentini fra i più autorevoli per consigliare le autorità sulle riforme da attuare a Pistoia.
Dai dati cronologici interni si può dedurre che il De r. p. venne scritto fra il 17 marzo 1502, data di una lettera ai commissari di Pistoia che viene citata come già ricevuta dai destinatari, e il 24 marzo 1502, ultimo giorno dell’anno (si legge nel testo «questo anno 1501», § 10) nel calendario fiorentino ab incarnatione Christi. Il testo potrebbe essere stato redatto per i nuovi Signori, i nuovi Dieci o più probabilmente per essere letto dal gonfaloniere (Giovanni di Corrado Berardi) all’apertura della Consulta del 22 marzo dedicata a questo argomento e il cui verbale concorda pienamente con il contenuto dello scritto.
Il testo si articola in tre parti. La narrazione degli eventi dall’estate del 1500 al febbraio 1502 (§§ 1-15); la descrizione della pacificazione attuata dalla nuova Signoria nel bimestre marzo-aprile 1502 (§§ 16-20); la richiesta di consiglio sulle misure da prendere per «riformare» la città, dopo l’espulsione manu militari di tutti i Panciatichi e della maggior parte dei Cancellieri (§ 21). Come richiesto in un rapporto ufficiale, lo stile è strettamente cancelleresco. Mira a una descrizione imparziale dei fatti priva di ogni giudizio personale o di parte. L’alternarsi di ribellioni e di repressioni viene narrato in modo asettico, senza la minima ricerca delle cause di tale ostilità, sia fra le due parti sia verso Firenze. In un avvenimento in cui la causa è controversa, l’autore si limita addirittura ad affermare che: «la cagione di questi tumulti si è referita variamente» (§ 14), senza citarne le diverse interpretazioni. Tale prudenza si spiega non solo per l’esigenza di imparzialità richiesta dal rapporto, ma anche per i nessi d’interesse che legavano le due parti pistoiesi con famiglie fiorentine e signori stranieri. In questa totale assenza di giudizio e in questa voluta mancanza di ornatus o di citazione erudita, compare una sola reminiscenza classica. Il periodo conclusivo, infatti, nel suo concetto, nella sua struttura e nel suo lessico («Resta ora come si abbia a procedere avanti [...] la quale cosa è tutta [...] posta nello arbitrio vostro [...] non è per aversi difficultà alcuna ad esequire tutto quello che per voi sarà deliberato», § 21), sembra echeggiare la clausola finale del discorso al senato romano di Lucio Furio Camillo, narrato da Livio, e citato dallo stesso M. pochi mesi dopo nello scritto Del modo di trattare i popoli della Valdichiana ribellati, §§ 8-9: «L’offizio mio è suto operare in modo che sia in vostro arbitrio: il che è fatto. A voi sta ora il diliberarne quello che torni commodità e utile della repubblica».
Bibliografia: Relazione di Pistoia, in N. Machiavelli, Opere, a cura di L. Passerini, G. Milanesi, 3° vol., Firenze-Roma 1875, pp. 352-55; L’Arte della guerra. Scritti politici minori, a cura di J.-J. Marchand, D. Fachard, G. Masi, Roma 2001, pp. 435-42.
Per gli studi critici si vedano: N. Machiavelli, Arte della guerra e scritti politici minori, a cura di S. Bertelli, Milano 1961, pp. 21-23; J.-J. Marchand, Niccolò Machiavelli. I primi scritti politici (1499-1512). Nascita di un pensiero e di uno stile, Padova 1975, pp. 41-51.