De Meteoris (Meteorologica)
Titolo con cui nel Medioevo venivano indicati i Meteorologica, opera di Aristotele, in quattro libri, collocata dagli editori, secondo il disegno dell'autore, al quarto e ultimo posto della serie degli scritti fisici, dopo il De Generatione et corruptione.
L'opera fu tradotta per intero dall'arabo in latino da Gherardo da Cremona nella seconda metà del sec. XII, ma sin dalla fine dello stesso secolo fu diffusa in un testo che ai primi tre libri di tale versione univa il quarto nella traduzione dal greco di Enrico Aristippo, compiuta poco tempo prima. Questo testo nel suo complesso venne designato come translatio vetus. A esso seguì, dopo circa un secolo, la translatio nova, eseguita direttamente dal greco per tutti e quattro i libri da Guglielmo di Moerbeke, il quale ne tradusse anche il commento di Alessandro di Afrodisia. Del IV libro esiste anche una traduzione dall'arabo col commento di Averroè, opera di Michele Scoto. L'opera fu commentata, nel Medioevo, da Averroè, Alfredo Anglico, Adamo di Buckfield, Alberto Magno, Tommaso d'Aquino (libri I-II, fino a 363a 20), Sigieri di Brabante (ma l'autenticità del commento attribuitogli è controversa) e Pietro d'Alvernia. Il primo libro di essa, insieme con gli altri libri naturales di Aristotele, fu adottato ufficialmente nella facoltà delle Arti di Parigi a partire dal 1255.
D. cita i De M. di Aristotele col titolo di Metaura (sul quale cfr. Marchesi) due volte, cioè in Quaestio 14 cum mare sit principium omnium aquarum, ut patet per Physolophum in ‛ Metauris ' suis, e 83 aquae generantur ibi [sc. in cacuminibus montium], ut per Phylosophum patet in ‛ Metauris ' suis, ascendente materia in forma vaporis. Mentre la seconda citazione suppone tutto il capitolo Meteor. I 13 (cfr., all'inizio del paragrafo, credunt... vulgares et physicorum documentorum ignari) e riprende quasi alla lettera le parole di Aristotele (I 13, 350a 4-15 " Montana et alta loca... ascendentem vaporem infrigidant et concernunt iterum in aquam "; cfr. anche I 9, 346b 23-31; II 2, 354b 29-30), la prima citazione induce a dubitare che D. avesse direttamente presente l'opera aristotelica. Essa infatti sembra riferirsi, più che a Meteor. II 2, 356a 32-b 1 (cfr. Moore), dove Aristotele dice il contrario di D., a II 2, 354b 2-16, dove Aristotele riporta la sentenza ripresa da D., ma non come propria, bensì attribuendola agli antichi. Probabilmente tra Aristotele e D. c'è la mediazione di Alberto Magno (Meteor. II III 4, 2 11), il quale è molto più risoluto nell'affermare che il mare è principio di tutte le acque.
Ulteriori dubbi circa una lettura diretta dell'opera aristotelica da parte di D. nascono dal noto brano di Cv II XIV 5-7, concernente la Galassia.
Quivi D. dapprima riferisce l'opinione dei pitagorici (cfr. Meteor. I 8, 345a 13-18), che nel testo aristotelico è divisa in due dottrine distinte: di queste D. riporta solo la seconda, come fa Alberto Magno (Meteor. I II 2), il quale però omette il riferimento al mito di Fetonte, presente in Aristotele e in Dante. Indi D. riferisce quella che egli ritiene l'opinione di Anassagora e Democrito (cfr. Meteor. I 8, 345a 25), la quale invece corrisponde a una terza opinione, che Aristotele riporta come distinta da quella dei due presocratici (cfr. 345b 9-12). Tale confusione non compare in nessuno dei commentatori. Inoltre D. parla, a questo proposito, di lume di sole ripercusso in quella parte, mentre i commentatori, interpretando esattamente Aristotele, parlano di riflessione della luce del sole nelle stelle (cfr. Alberto Magno Meteor. I II 3; Tommaso d'Aquino In Meteor. I 12): solo Averroè usa un'espressione (" Galassia est vestigium causatum ex reflexione radii Solis ab aëre ad illum locum ", In Meteor. I 3) da cui sembra derivare quella dantesca. Fino a questo punto dunque sembra che D. legga Aristotele ora attraverso il commento di Alberto Magno, ora attraverso quello di Averroè.
Ma subito dopo egli dichiara che, per quanto concerne l'opinione dello stesso Aristotele intorno alla Galassia, essa si trova esposta in modo diverso ne l'una traslazione e ne l'altra (§ 6), e attribuisce ciò a un errore de li traslatori. Precisamente ne la Nuova pare dicere che ciò sia uno ragunamento di vapori sotto le stelle di quella parte, che sempre traggono quelli (§ 7), il che corrisponde esattamente a quanto dice Aristotele (Meteor. I 8, 345b 31 - 346a 11), secondo la traduzione di Guglielmo di Moerbeke, interpretata probabilmente attraverso il commento di Tommaso d'Aquino (I 13). Invece ne la Vecchia dice che la Galassia non è altro che moltitudine di stelle fisse in quella parte (§ 7), il che in Aristotele non si trova, ma si trova quasi alla lettera in Alberto Magno (Meteor. I II 5 " nihil aliud autem est Galaxia nisi multae stellae parvae "), il quale usava la traduzione arabo-latina di Gherardo da Cremona. Forse la versione araba da cui dipende quella di Gherardo fraintendeva il testo aristotelico a causa dell'influsso di Tolomeo e di Avicenna, ricordati dallo stesso Alberto (I II 6) e da D. quali sostenitori della dottrina in questione. È singolare inoltre che Averroè (In Meteor. I 3), pur attribuendo ad Aristotele una dottrina simile a quella risultante dalla translatio nova (il che significa che la versione araba di cui egli disponeva era diversa da quella a cui si rifaceva Gherardo), insinua il dubbio che essa sia dovuta solo alla traduzione e propende per la tesi corrispondente a quella della translatio vetus, osservando che essa era sostenuta anche da Alessandro (il quale non aveva bisogno di traduzioni). È probabile dunque che D. sia stato indotto a sospettare un errore nella translatio nova proprio dalla lettura di Averroè.
In conclusione risulta che D. normalmente si basava sui commenti di Alberto Magno e di Averroè, ma a proposito di questo passo, forse indotto dall'osservazione di Averroè, volle consultare anche la translatio nova e il commento tomistico e finì col giudicarli errati.
A questa conclusione non si oppongono gli altri numerosi echi dell'opera aristotelica presenti in D., i quali attestano la sua continua dipendenza da Aristotele, sia pure attraverso la mediazione albertina, a proposito dei vari fenomeni meteorologici. Si veda, ad esempio, a proposito del fulmine, Pg XXXII 109-111 (cfr. Meteor. II 9, 369a 16-24), del terremoto Pg XXI 55-57 (cfr. Meteor. II 8, 366b 14-22), dell'evaporazione terrestre Pg XXVIII 97-99 (cfr. Meteor. II 4, 360b 30-35), del lampo Pg V 37-39 (cfr. Meteor. II 9, 369b 4-7), del tifone Pd VIII 22-23 (cfr. Meteor. III 1, 370b 31-371a 3), della pioggia Pg V 109-111 (cfr. Meteor. II 4, 360b 32-35 e I 9, 346b 29-31), delle sorgenti Pg XXVIII 121-123 (cfr. Meteor. I 13, 349b 21-27), dell'alone e dell'arcobaleno Pd XXVIII 22-24, 32-33 (cfr. Meteor. III 3, 372b 15-18, 23-24; III 2, 371b 18-20, 23-26). Altre dipendenze dai De M. di Aristotele, sempre mediate da Alberto Magno, sono state scorte dal Nardi in Cv II I 10 la materia... digesta, che deriverebbe da Meteor. IV 2, 379b 12 (" digestio ") e Alberto Magno Meteor. IV I 12 ss., nonché Averroè In Meteor. IV 14; e in Mn III IV 2 ss. (i duo luminaria), che deriverebbe da Meteor. III 6, 377b 15-23 (fenomeni di perielio), e da Albeto Magno Meteor. III IV 29. Per quanto concerne la mediazione di Alberto, non si deve dimenticare che D. aveva ben presente i suoi Meteorologica, come appare dalla duplice citazione di questi in Cv II XIII 21 e IV XXIII 13.
Bibl. - C. Marchesi, La " Metaura " di Aristotile nel volgare toscano del Trecento, in " Studi romanzi " V (1907) 123-157; F.H. Fobes, Mediaeval Versions of Aristotle's Meteorologica, in " Classical Review " X (1915) 297-314; G. Lacombe, Aristoteles Latinus, Codices, I, Roma 1939, 56-57; II, Cambridge 1955, 784; R. Edgren, Mahieu le Vilain, Les Methéores d'Aristote: traduction du XIII siècle publiée pour la première fois, Uppsala 1945; L. Minio-Paluello, Henry Aristippe, Guillaume de Moerbeke et les traduction latines médiévales des " Météorologiques " et du " De generatione et corruptione " d'Aristote, in " Revue Philos. de Louvain " XLV (1947) 206-235; E. Moore, Studies in D., I, Oxford 1896, 127-135 e 314-318; B. Nardi, Nel mondo di D., Roma 1944, 61-65 e 159.