HUME, David
Filosofo, storico ed economista inglese, nato a Edimburgo il 26 aprile 1711, ivi morto il 25 agosto 1776. Dopo avere trascorso i primi anni della sua vita nella proprietà di Ninewells, che il padre possedeva nel Berwickshire, studiò dal 1723 al 1726 all'università di Edimburgo, appassionandosi alla filosofia e a quegli autori classici (Cicerone, Seneca) che meglio rispondevano al suo nascente interesse speculativo. Fin da allora meditò di conquistare la gloria letteraria proseguendo l'opera filosofica di Locke e di Berkeley, abbandonando per ciò gli studî di legge, che pure aveva iniziati per desiderio della famiglia. E anche in un'occupazione commerciale, a cui si era dato nel 1734 a Bristol per l'esaurimento fisico provocato dal troppo lavoro mentale, non durò più di qualche mese; e partì per la Francia, dove soggiornò, studiando, tre anni. Qui scrisse l'opera che, se non fu la sua maggiore, fu tuttavia per lui fondamentale in quanto le seguenti non fecero, nella maggior parte dei casi, che ampliarne e approfondirne le singole sezioni: il Treatise of Human Nature, being an Attempt to Introduce the Experimental Method of Reasoning into Moral Subjects, diviso in tre libri (Of the Understanding, Of the Passions, Of Morals), pubblicati a Londra i primi due nel 1739 e il terzo nel 1740. Ma lo scarsissimo successo dell'opera deluse il desiderio di fama del giovane H., tornato allora a vivere a Ninewells. Migliore fortuna ebbero invece gli Essays, moral and political, il primo volume dei quali, pubblicato a Edimburgo nel 1741, uscì l'anno seguente in nuova edizione insieme con il secondo volume. Ciò lo confortò a sperare che, letterariamente rifatto, anche il Treatise avrebbe avuto successo, e intensificò le sue ricerche di una sistemazione pratica, che gli assicurasse la possibilità di tale lavoro. Nel 1744 si adoperò per farsi nominare professore di filosofia morale all'università di Edimburgo: ma gli mancò lo sperato aiuto di F. Hutcheson, e prevalsero i sospetti circa la sua ortodossia religiosa. Diventò allora tutore di uno squilibrato, il marchese di Annandale: e si trovò malissimo. Nel 1746, segretario del generale St Clair, l'accompagnò nella spedizione in Francia; nel 1748 lo seguì presso le corti piemontese e austriaca.
Frattanto era uscita la rielaborazione del primo libro, concernente l'intelligenza umana, del Treatise, con il titolo di Philosophical Essays concerning Human Understanding (Londra 1748; 2a ed., 1751), più tardi cambiato in quello definitivo di An Enquiry concerning Human Understanding. Era la sua maggiore opera filosofica, per quanto dal primo libro del Treatise si distinguesse in realtà solo per la più larga ed elegante veste letteraria e per il particolare sviluppo dato ad argomenti singoli, e gli restasse talora inferiore in vigoria dimostrativa. Il successo fu buono, e incoraggiò H., stabilitosi nel 1751 a Edimburgo, al lavoro: gli anni che seguirono furono i più fecondi per la sua produzione letteraria. Nel 1751 apparve, a Londra, la rielaborazione del terzo libro del Treatise, con il titolo di Enquiry concerning the Principles of Morals: sul principio dell'anno seguente, a Edimburgo, i Political Discourses, d'argomento economico-politico, che furono assai letti in Inghilterra e fuori e ripetutamente tradotti in francese (nel 1753 dal Mauvillon, nel 1754 dal Le Blanc). Frattanto H., dopo avere nuovamente tentato invano di conquistare una cattedra universitaria succedendo a Adamo Smith a Glasgow, era diventato bibliotecario della Advocates Library di Edimburgo. Ciò mise a sua disposizione larghi mezzi bibliografici, e gli rese possibile la composizione della grande History of England from the Invasion of Julius Caesar to the Revolution of 1688, che lo occupò per quasi un decennio. Per prima uscì l'ultima parte, comprendente la storia degli Stuart (voll. 2, con il titolo di The History of Great Britain, Edimburgo e Londra 1754-57); nel 1759 apparve la parte centrale, sui Tudor, e infine, nel 1761, la prima parte, sull'età antica e medievale. Ma anche in questo periodo H. non tralasciò gli studî filosofici, e dopo gli Essays and Treatises on several subjects (4 volumi, Londra 1753-54, comprendenti la massima parte degli scritti anteriori) uscirono le Four dissertations (Londra 1757) comprendenti The natural history of religion; of the passions; Of tragedy; Of the standard of taste (sostituendo quest'ultima le due dissertazioni Of suicide e Of the immortality of the soul che ne tenevano il luogo in una prima stampa di quello stesso anno, e che poi apparvero anonime nel 1777). Nel 1763 accompagnò lord Hertford a Parigi, dove gli enciclopedisti e la società intellettuale lo accolsero con grandi onori: e qui strinse amicizia con il Rousseau, che lo accompagnò in Inghilterra, ma con cui venne presto in clamoroso dissidio (v. l'Exposé succinct de la contestation qui s'est élévée entre M. Hume et M. Rousseau, avec les pièces justificatives, pubblicata da H. stesso nel 1767). Tornato nel 1766 a Edimburgo, dovette ancora soggiornare per due anni a Londra, come sottosegretario di stato del generale H. S. Conway al Foreign Office. Ma nel 1769, tornato a Edimburgo, non se ne mosse più, trascorrendo in tranquilla agiatezza gli ultimi anni.
L'opera. - Secondo il piano già delineato chiaramente nel Treatise, la filosofia di H. mira a un'analisi della natura umana, la quale, determinando le sue facoltà, chiarisca i fondamenti delle scienze particolari che da quelle derivano. Il primo posto è occupato dall'indagine circa la facoltà conoscitiva: in essa H. porta all'estremo limite la critica empiristica iniziata da Locke e proseguita da Berkeley. Nel campo generale dei contenuti di conoscenza, complessivamente detti perceptions, H. distingue le impressioni (impressions) dalle rappresentazioni o pensieri (ideas, thoughts), classificando tra le prime non soltanto le sensazioni propriamente dette, riferentisi ai sensi esterni, ma anche i varî sentimenti e affetti che si avvertono come immediatamente dati, e tra le seconde tutto ciò che da quelle deriva nella nostra interiore esperienza. Di qui la riduzione di ogni conoscenza all'unica fonte dell'esperienza sensibile, non esercitando lo spirito altra attività che quella di associare e generalizzare i dati di tale esperienza. Né a questa estrema risoluzione empiristica può dirsi sfugga, nella sua logica assolutezza, la matematica: perché, se anche non è ripetuta nell'Enquiry quell'estensione del giudizio di empiricità anche alla geometria, che era compiuta dal Treatise (per cui dimostrabili razionalmente erano soltanto l'aritmetica e l'algebra), la più rigorosa distinzione, che vi è fatta, fra matematica pura e matematica applicata toglie alla prima ogni capacità di asserzione esistenziale, quale può ricavarsi soltanto dall'esperienza sensibile. D'altronde, questa riduzione della realtà alla pura esperienza è, in quanto prosecuzione di quella già operata dal Berkeley, dissoluzione del suo valore oggettivo: al percipi si riduce quindi, intanto, l'esse di ogni oggetto della coscienza. Ma mentre per il Berkeley a fondamento degli atti di percezione, in cui si risolveva ogni presunta realtà esterna, restava la sostanza spirituale, a cui quegli atti inerivano come attributi, H. estende la sua critica anche a quel presupposto della sostanzialità dello spirito. Di sostanza non si può mai parlare in generale, perché quel carattere d'indipendente esistenza e di costanza obiettiva che costituisce il suo concetto si riduce in realtà alla semplice constatazione empirica di un dato nesso di percezioni, che si presume continui a presentarsi come tale: e non se ne può parlare neanche nel caso specifico della sostanza spirituale, perché noi sappiamo di esistere come pensanti soltanto nell'atto del nostro pensiero, e l'idea di un'identità spirituale durante nel tempo non contiene più di un complesso di esperienze interiori, che solo in quella presente coscienza hanno il loro fondamento.
D'altra parte, non solo si riduce alla sintesi empirica dell'esperienza ogni idea di realtà sostanziale, esterna o interna; ma anche le norme presiedenti a tale sintesi non hanno maggior valore di quello che volta per volta è loro conferito dalla validità particolare delle sintesi stesse. È qui che H. svolge quella critica del concetto di causalità, che ha dato massima fama alla sua scepsi. Si pensa di conoscere realmente la natura quando si stabiliscono in essa rapporti irreversibili di causa e di effetto, vedendo in date realtà la condizione necessaria e sufficiente di altre realtà. Ma di fatto tali connessioni causali non hanno rigore razionale: giacché non derivano né da una deduzione logica, non essendo nel concetto della causa implicito quello dell'effetto, né da un'induzione dell'esperienza la quale non chiarisce mai, in ultima analisi, la ragione onde a un fatto segue un altro, ma soltanto mostra tale successione. Ogni collegamento causale è con ciò costituito dalla sostituzione di un propter hoc a quel post hoc che solamente è noto: non si sa mai davvero che un effetto debba necessariamente derivare da una causa, ma soltanto che, essendosi un certo numero di volte constatato tale costante susseguirsi di fatti di quella specie, è presumibile che esso debba essere constatato anche nell'avvenire. In conclusione, quindi, la connessione causale è un prodotto di abitudine soggettiva, trasferito obiettivamente nella realtà. Il che non toglie, d'altronde, che questo processo di attribuzione della causalità al reale abbia tutta la sua utilità: giacché soltanto in tal modo è possibile orientarsi nella varietà dei fenomeni, dirigendo le azioni secondo i prevedibili eventi. A tale ultima ragione pratica attingono quindi la loro giustificazione tutte le scienze sperimentali, che dalla negazione del principio oggettivo della causalità appaiono colpite nel loro essenziale momento teoretico. Insieme, la negazione della necessità causale dell'accadere risolve l'antitesi intrinseca al secolare problema della libertà del volere, giacché una causalità concepita come semplice previsione del probabile può ben essere riferita anche alla sfera delle azioni umane.
In questa critica dei concetti di sostanza e di causa è il portato maggiore della filosofia di H. Se l'analisi di Berkeley aveva tolto dal campo una delle due sostanze cartesiane, risolvendo così da un lato le difficoltà risultanti dal dualismo di pensiero ed estensione, H. dissolve anche l'altra sostanza e torna a quello stesso punto di partenza da cui era mossa la ricostruzione cartesiana del sapere. Dal cogito, con cui si vinceva lo scetticismo oggettivistico degli antichi, Cartesio aveva infatti derivato anzitutto il sum della sostanza pensante e poi anche l'esse della sostanza estesa; H. mostra la precarietà di entrambe quelle deduzioni, traducendo anche il cogito ergo sum in un mero cogito ergo cogito.Così la stessa formula di vittoria sullo scetticismo antico diventa base di un più capitale scetticismo: al di là del punto di partenza non essendoci alcuna via che propriamente si possa percorrere. Si comprende quindi come la critica di H., segnando la fine di ogni dottrina sostanzialistica dello spirito, abbia costituito la necessaria condizione negativa della posteriore concezione dello spirito come funzione e attività, e cioè del trascendentalismo del Kant, strappato appunto dalla critica humiana al suo "sonno dogmatico". E si può anche dire che in qualche punto la critica avesse più salde basi della stessa dottrina che la superò: ché, quanto al problema della natura dello spirito, la concezione di esso come funzione trascendentale serbò da un certo lato un aspetto di oggettivismo, da cui restava invece immune, nel suo motivo attualistico, l'empirismo di H.; e quanto al problema della causalità, la rivendicazione kantiana di tale categoria superava certo la critica di H. quando dimostrava universalmente la necessità della connessione causale per ogni conoscenza teoretica dei fenomeni, ma le rimaneva inferiore quando pensava (dal particolare punto di vista della scienza fisico-matematica della natura) che tale necessità avesse potuto oggettivamente determinarsi nei casi singoli.
Da questo fondamentale empirismo discendono le altre dottrine di H. La sua etica (3° libro del Treatise e Enquiry conc. the princ. of morals), basata su una dottrina delle passioni (2° libro del Treatise e saggio Of the passions), riduce il problema del bene al problema del sentimento pratico, riportando al gusto della benevolenza verso gli altri anche la virtù dell'altruismo; e si riconnette così da una parte ai teorici inglesi del "sentimento morale", quali F. Shaftesbury e A. di Hutcheson, mentre dall'altra apre la via all'utilitarismo di Adamo Smith. La sua filosofia della religione, che formalmente si ricollega all'illuminismo deistico, lo supera di fatto nell'intenzione, portando, in fondo, al dissolvimenyo dello stesso problema religioso-teologico. I Dialogues concerning natural religion (editi postumi da A. Smith, a cui H. ne aveva affidato l'incarico, a Londra nel 1779) non discutono l'esistenza di Dio e mirano soltanto a determinarne la natura; ma in questa determinazione criticano tutte le deduzioni della perfezione divina dall'organizzazione del mondo e derivano quest'ultimo da un'intelligenza non molto dissimile da quella umana. E più decisa è la Natural history of religion (una delle Four dissertations pubblicate nel 1757), che, combattendo l'idea, illuministica di un'originaria religione razionale di natura, dimostra la priorità del politeismo rispetto al monoteismo e cerca di chiarirne la genesi in funzione di esigenze pratiche e sentimentali dell'uomo: saggio che ebbe grande influsso per lo sviluppo della ricerca storico-religiosa.
Notevole è anche l'importanza di H. 1iel campo dell'economia e della storiografia. Nei suoi saggi di economia (contenuti nei Political Discourses, e negli Essays and treatises on several subjects) egli, discutendo specialmente circa la natura della moneta, dell'interesse, del commercio e circa il problema dell'antitesi fra liberismo e protezionismo e indagando i rapporti intercorrenti tra vita sociale e vita economica, precorse molte delle dottrine poi organizzate in sistema dal suo amico Adamo Smith. Come storico, H. fu in fondo uno scolaro del Voltaire, e se non partecipò del suo interesse cosmopolitico e teorico, contribuì (specialmente quanto al periodo della rivoluzione inglese) all'approfondimento della conoscenza della più recente storia del suo paese, iniziandovi, insieme con W. Robertson, la tradizione della storiografia liberale.
Edizioni e traduzioni: La migliore edizione delle opere filosofiche è quella curata da T. H. Green e T. H. Grose, volumi 4, Londra I874; n. ed., 1882. In italiano è stata tradotta l'Enquiry concerning human unterstanding, da G. Prezzolini (Bari 1910) e il primo libro del Treatise, con il titolo di Trattato sull'intelligenza umana, da A. Carlini (Bari 1926).
Bibl.: Per la biografia v. oltre all'autobiografia pubblicata da A. Smith, Londra 1737, e alle Letters to W. Strahan, pubblicate da G. B. Hill, Oxford 1888; J. H. Burton, Life and Correspondence of D. H., voll. 2, Edimburgo 1846-50; C. J. W. Francke, D. H., Haarlem 1907. Per l'opera filosofica e scientifica in generale, v. principalmente: F. Jodl, Leben u. Philosophie D. H.s, Halle 1872; G. Compavré, La philosophie de D. H., Tolosa 1873; T. Huxley, H., Londra 1879; W. Knight, H., Londra 1886; H. Calderwood, D. H., Edimburgo 1898; A. Thomsen, D. H., Copenaghen 1911 (in danese; in tedesco, Berlino 1912); J. Didier, H., Parigi 1912; C. W. Hendel, Studies in the philosophy of H., Princeton 1925; A. Carlini, nella cit. versione. Sulle dottrine economiche: A. Schalz, L'oeuvre économ. de D. H., Parigi 1902. Sul H. storiografo, vedi specialmente E. Fueter, Geschichte d. neueren Historiographie, 2a ed., Monaco 1925, pp. 364-67 (con la bibliografia relativa). Per la ricca letteratura speciale, v. Ueberweg, Grundr. d. Gesch. d. Philos., III, 12a ed., Berlino 1924, pp. 692-94.