VITERBO, Dario
Nacque a Firenze il 25 novembre 1890 da Umberto, attivo nel settore immobiliare, e da Matilde Levi, pittrice copista di galleria.
A differenza del fratello maggiore Carlo Alberto, in seguito presidente della Federazione sionistica italiana, Dario mantenne un atteggiamento distaccato rispetto alla propria cultura familiare e alla religione ebraica. A quattordici anni rivelò invece un talento artistico fuori dal comune, dando prova di saper ricopiare con estrema precisione un ritratto di mano di Élisabeth Vigée Lebrun (Viterbo, 1981, pp. 10, 12). Per volontà del padre s’iscrisse al liceo classico Michelangiolo di Firenze, dove conseguì la maturità nel 1909. Soltanto l’anno successivo inseguì la propria reale vocazione al Regio istituto di belle arti del capoluogo toscano. Lo finì in soli due anni, ottenendo il diploma del corso speciale di figura già nel 1912. Artista a tutto tondo, sin dal periodo liceale si dedicò anche allo studio del pianoforte, facendo la conoscenza di personalità come il compositore Mario Castelnuovo-Tedesco.
Nel vivace clima secessionista della Firenze di primo Novecento trovò stimoli nei ritratti pittorici di Giovanni Papini, sui quali si esercitò in una serie di disegni del 1913 (Toti, 2019, p. 19). Nel giro di pochi anni, però, comprese di volersi dedicare soprattutto alla scultura: andò quindi a imparare i primi rudimenti del mestiere nello studio di Augusto Rivalta, scultore d’impostazione realistica allora in voga sulla scena fiorentina. Sin da subito sperimentò materiali e tecniche diverse, affinando in particolare una lavorazione finissima del marmo. Distaccatosi presto dagli insegnamenti del maestro di origine piemontese, ricercò altrove spunti per il proprio lavoro. Alla mostra romana Amatori e cultori di belle arti (1915) si ravvisarono i primi sintomi di una rilettura personale della plastica di Medardo Rosso, in opere come la bronzea Maschera che ride e la Bimba in cera, dai contorni delicatamente smussati e dalla vibrante resa delle superfici.
Nello stesso anno venne chiamato alle armi per combattere nella Grande Guerra in seno al reggimento Cavalleggeri, prima di Alessandria, poi di Saluzzo e infine di Treviso, dove raggiunse il grado di tenente mitragliere di cavalleria. Durante un congedo a Milano, conobbe per la prima volta Ada Vera Bernstein, sua cugina di secondo grado allora tredicenne, e in seguito modista di successo. Tra i due nacque una profonda amicizia, mantenuta viva negli anni seguenti grazie a un fitto scambio epistolare.
Nel 1919 Viterbo fece ritorno a Firenze, dove riprese la propria attività artistica, non immemore dell’esperienza bellica (di cui rimane traccia nel Ragazzo prigioniero, 1920, in legno di fico patinato). Iniziò in questo periodo a intessere rapporti col pittore Giovanni Costetti, che divenne per lui una guida spirituale, incitandolo a coltivare l’arte come «armonia emotiva» (Costetti, 1924, p. 113). Sotto il suo influsso Viterbo si avvicinò all’universo delle moderne danze non accademiche, cui rese omaggio raffigurando in pose nervose e scattanti ballerine come Anna Pavlova, nella bronzea Danza del 1914, e Isadora Duncan, nell’omonimo legno di fico del 1920 (A passi di danza, 2019).
Non trascurò però nemmeno la parallela attività di orefice, che inizialmente incontrò soprattutto il gusto di esponenti della ricca borghesia milanese, come l’elegante dama di mondo Jenny Mazloum Barmé (Mannini, 2019). Al contempo fu impegnato in progetti per tombe e cappelle di famiglia all’interno del cimitero ebraico di via di Caciolle a Firenze. Lavori come la tomba dei coniugi Padova Levi (1922) o la cappella Coen (1926-1928) costituirono esercitazioni originali, in bassissimo rilievo, sull’aniconismo ebraico (Francalanci, 2018, pp. 75-84).
Nel 1922 ebbero luogo le prime importanti occasioni espositive di Viterbo, nelle quali presentò una vasta selezione di opere di scultura, oreficeria e grafica. Da aprile a luglio la Primaverile fiorentina mise per la prima volta in luce l’ampiezza della sua cultura visiva, che spaziava dal Quattrocento toscano alla scultura luministica di Auguste Rodin e di Rosso, con una padronanza non comune di diverse materie scultoree (dal legno Finale di danza tragica ai due marmi Riposo tragico e l’Anima tra le dita, fino alle due cere Sorriso e Ritratto di signora). In autunno la personale allestita presso la Bottega di Poesia a Milano fece conoscere il suo nome anche nel capoluogo lombardo, affiancandolo ad artisti di orbita novecentista. Così, la determinante amicizia con Jenny Mazloum Barmé favorì il suo inserimento nei mercoledì organizzati in casa di Margherita Sarfatti. Forte di questi giri di conoscenze, nel 1923 ricevette un invito per partecipare alla prima Biennale d’arte decorativa di Monza, nella sala degli orafi. In una vetrina collocata in un posto d’onore erano visibili gioielli in lamine d’oro sbalzate e traforate, applicate su pietre preziose dai piani lisci, con fantasie di animali o figure umane immortalate in eleganti passi di danza. Ottenne in quell’occasione la medaglia d’oro, che spianò il terreno alla sua piena affermazione soprattutto nel campo delle arti decorative.
Seguirono nel 1924 la partecipazione alla XIV Biennale di Venezia, con il Sogno, marmo soffuso di sottilissimi trapassi chiaroscurali, e la presenza alla Mostra del ritratto femminile di Monza, con due bassorilievi marmorei. L’anno successivo, sull’onda del successo di critica e pubblico ottenuto all’Exposition internationale des arts décoratifs et industriels modernes di Parigi (1925), decise di trasferirsi nella Ville Lumière, dove affittò dapprima uno studio in Avenue de Sade e poi in Boulevard Saint Jacques.
Nel 1926 iniziò a esporre a Parigi al Salon d’Automne e al Salon des Tuileries, rimanendo in quest’ultimo una presenza costante in quasi tutte le successive edizioni fino al 1935. Non meno fortunato fu il rapporto con le gallerie commerciali: già nell’aprile del 1926 la galleria Durand-Ruel riunì in un’unica esposizione i suoi lavori scultorei e le pitture del catalano Joan Colom. Fu un trionfo soprattutto per Viterbo, le cui opere vennero attentamente lette dalla critica parigina attraverso le griglie interpretative di Costetti (Beaux-Arts, 1926; De Bouchaud, 1926).
Lo stesso scultore chiarì la propria poetica in una serie di scritti pubblicati su riviste italiane e francesi (1925; 1927; 1929). Rivendicando l’importanza di un’armonia estetica, interiore e coloristica, osservò come «la seule chose qui serve à l’artiste est la mémoire des lignes et des volumes observés sur le vrai surtout en mouvement […] pour pouvoir ensuite en un second temps transformer la forme selon un idéal personnel» (1927, pp. 38 s.). All’apice della sua popolarità in Francia, nel maggio del 1928 la galleria Bernheim-Jeune gli dedicò una personale, con una prefazione in catalogo scritta dall’eminente critico Paul Fierens. Il simbolismo dei titoli, il personalissimo studio del volume e della luce, e il magistero tecnico, ricondotto alle sue radici toscane, furono i principali elementi che ne assicurarono la fortuna presso il pubblico francese. Appariva ormai evidente come il problema spaziale impostato da Viterbo, teso ad affermare il valore chiaroscurale della forma senza intaccarne il volume, avesse ormai tagliato il cordone ombelicale con le premesse pittoriche di Medardo e di Rodin (Giorio, 2009, p. 209).
Gli anni francesi furono anche un periodo di assestamento nella vita privata dello scultore. L’8 giugno 1930 sposò la cugina Ada Vera Bernstein, con cui si trasferì in una casa-studio in Rue des Plantes a Parigi. La dimora divenne un punto di ritrovo per molti intellettuali ebrei o antifascisti, tra cui l’ex deputato socialista Giuseppe Emanuele Modigliani con la moglie Vera Funaro, lo scrittore romano Paolo Romano, lo storico dell’arte Lionello Venturi e il filosofo pugliese Giuseppe Lanza del Vasto. Sotto la guida di quest’ultimo, Viterbo fu tra gli artisti fiorentini del gruppo L’Arca chiamati a esporre nell’inverno del 1931 alla galleria Porza di Berlino. Si trattava di un’enclave toscana di personalità stilisticamente eterogenee, accomunate dalla tensione verso un’arte intima e spirituale.
Apprezzato all’estero, rimase invece profeta inascoltato in patria: nel 1932, grazie al sostegno di Romano Romanelli e Antonio Maraini, ottenne una sala personale alla Biennale di Venezia. Rimase però scontento delle dimensioni ridotte e della posizione decentrata della stanza, oltre che del mancato acquisto di sue opere per le collezioni statali. Incompreso dalla critica ufficiale e osteggiato da Ugo Ojetti, trovò un appoggio determinante nell’amico Mario Tinti (1932), che lo difese sul Giornale di Genova e gli scrisse il testo di presentazione nel catalogo dell’esposizione lagunare. La delusione non gli impedì di portare avanti le proprie ricerche formali, che nel quarto decennio del secolo si orientarono in nuove direzioni, dall’astratta fissità di sapore egizio della Regina (marmo nero del 1934, poi acquistato dalla Galleria civica d’arte moderna di Milano), al gusto per la ripresa archeologica del marmo giallo antico nella Cinese mistica (1933, Parigi, Musée national d’art moderne). Rimase una costante la scelta di «materiali duri, cristallini, lucidissimi», atti a ottenere una «netta, scandita, lucida definizione della superficie quasi speculare» (Masini, 1973, s.n.p.).
Neanche il ritmo delle esposizioni sembrò conoscere una battuta d’arresto: tenne in questi anni, ad esempio, una personale alla galerie Hébrard (aprile 1934) e partecipò all’Esposizione d’arte italiana dell’Ottocento e Novecento nelle sale del Jeu de Paume (1935). Segnali di un primo riconoscimento in Italia si ebbero nel 1935: Viterbo ebbe l’onore di ricevere una voce biografica all’interno dell’Enciclopedia Italiana grazie a Mario Tinti, che scrisse personalmente a Giovanni Gentile (Firenze, Biblioteca Marucelliana, Fondo Viterbo, 1.1.150).
Nel frattempo, a seguito della vendita di un terreno fiorentino in via Gerolamo Benivieni, lo scultore acquistò un nuovo studio tra via degli Artisti e piazzale Donatello, dove ogni anno andò a trascorrere il periodo estivo. A Parigi continuò a partecipare a mostre collettive e ad approfondire alcuni temi di ricerca, mettendo progressivamente a punto la tecnica del «rilievo schiacciatissimo», regolato da «sottili rapporti di volumi» anziché da «linee incise», come avrebbe precisato in alcuni scritti, editi postumi col titolo Meditazioni sull’arte (1962, pp. 50 s.). Parallelamente, si ravvisarono importanti segnali di avvicinamento alla plastica di Aristide Maillol e di Paul Gauguin, specie nella tendenza agli aggetti dai tagli netti e nella precisione lineare delle superfici.
Sotto la pressione delle leggi razziali, nel febbraio del 1939 Viterbo e Ada Vera ottennero la naturalizzazione francese direttamente dal ministro della Giustizia (Viterbo, 1981, p. 39). Il 13 giugno dell’anno seguente, tuttavia, alla vigilia dell’occupazione tedesca di Parigi, la coppia fu costretta ad abbandonare precipitosamente la città, lasciando nello studio parigino più di quaranta sculture dell’artista, in seguito andate disperse.
Dopo una serie di peripezie e una lunga permanenza a Marsiglia, i due raggiunsero New York il 3 aprile 1941. Lì trovarono inizialmente ospitalità presso Arrigo Bernstein, fratello di Ada Vera e a sua volta rifugiato. Desiderosi però di autonomia, affittarono un fondo che adibirono per metà ad atelier e per metà a negozio di moda, e dove ripresero le rispettive attività. Già nel 1942 lo scultore iniziò a lavorare al prestigioso progetto di decorazione per il Woodmere Cemetery di Detroit, che però rimase irrealizzato. Fallito anche il tentativo di conquistare un posto come insegnante di scultura, dal primo aprile del 1943 ottenne il sussidio economico dell’Emergency Committee in Aid of Displaced Foreign Scholars, che gli garantì una borsa di durata annuale (Firenze, Biblioteca Marucelliana, Fondo Viterbo, 2.1.9). In seguito, pur con qualche difficoltà nel reperimento delle materie prime, allestì una personale alla Wildenstein Gallery (dicembre 1944 - gennaio 1945) e dal 1946 fu presente a quasi tutte le edizioni della rassegna annuale dello Sculptors Guild. Infelice fu invece l’esito del progetto per l’American Memorial to Six Million Jews of Europe destinato a New York (1950). Ideato in collaborazione con l’architetto Erich Mendelsohn, non venne mai portato a compimento. In compenso, grazie alla mediazione di Giovanni Poggi, nel 1950 andò a buon fine la donazione di un autoritratto di Viterbo alla Galleria degli Uffizi.
Negli anni Cinquanta lo scultore perfezionò una tecnica di impressione grafica con matrici in bronzo, da lui chiamata «stampa a cesello». L’esito più degno di nota furono le illustrazioni del Libro di Tobia, volume edito nel 1952 per i Cento Amici del Libro di Firenze (Lambroni, 2019). L’anno seguente, con i ricavi della vendita del bronzo L’incantamento (1956) alla mecenate Marie Wilson Howells per l’University of Arkansas, i coniugi Viterbo poterono acquistare un terreno in via del Gignoro a Firenze. Lì progettarono di trasferirsi portando con loro le sculture custodite in America e quelle lasciate a Parigi nel 1940.
L’artista morì tuttavia l’11 novembre 1961 nella casa di New York, senza realizzare l’agognato trasferimento delle opere. Esso sarebbe stato completato dalla moglie l’anno successivo.
I principali scritti teorici dello scultore sono pubblicati su riviste francesi e italiane: L’arte in tutti i tempi, in l’Eroica, XIII (1925), 86, pp. 30 s.; Le sacerdoce de l’Esprit, in Idéal et réalité, V (1927), 36, gennaio 1927, pp. 32-41; L’art, émotion harmonieuse, in Le Point, I (1929), 5, pp. 86 s.; Lettere a Quadrante, in Quadrante, XII (1934), 10, pp. 47 s. Parte di essi è stata inclusa nel volume: Meditazioni sull’arte, Firenze 1962.
L’archivio di D. V. e della moglie si trova custodito dal 1987 presso la Biblioteca Marucelliana di Firenze. Delle carte dell’artista esiste un inventario, edito in Il Fondo D. V. della Biblioteca Marucelliana, a cura di G. Lambroni - A. Camarlinghi, in D. V., un artista tra Firenze, Parigi e New York. Opere e documenti (catal.), a cura di G. Lambroni - L. Mannini, Firenze 2019, pp. 123-185.
U.F., La LXXXIV Esposizione degli Amatori e Cultori. La scultura, in L’Idea nazionale, 20 marzo 1915; G. Costetti, Uno scultore spirituale: D. V., in Fantastica, 1° settembre 1924, p. 113; Id., Lettera a Benedetto Croce, in Il Nuovo Giornale, 3 novembre 1925; Beaux-Arts. Le sculptures de D. V., in Comoedia, 15 aprile 1926; P. de Bouchaud, Exposition de D. V., in Il risveglio italiano, 24 aprile 1926; M. Tinti, La XVIII Biennale veneziana. Romano Romanelli e D. V., in Il Giornale di Genova, 5 luglio 1932; L.V. Masini, D. V., Firenze 1973; D. V.: scultura e grafica (catal.), Firenze 1977; A. Nocentini, D. V., in Scultura toscana del Novecento, a cura di U. Baldini, Firenze 1980, pp. 353-363; A.V. Viterbo, La mia vita con D. Appunti richiestimi da Giorgio Nicodemi 1964-1980, Firenze 1981; M.B. Giorio, Prime note sull’attività e le fonti parigine di D. V., in Arte in Friuli, Arte a Trieste, XXVIII (2009), pp. 207-222; Y. Francalanci, I monumenti funebri di D. V. nel Cimitero Ebraico di Caciolle, in L’arte dell’eternità. Iconografia, storia e tradizione nei cimiteri ebraici dell’emancipazione, a cura di D. Liscia - G. Lambroni, Firenze 2018, pp. 73-91; D. V., un artista tra Firenze, Parigi e New York. Opere e documenti (catal.), a cura di G. Lambroni - L. Mannini, Firenze 2019; G. Lambroni, D. V. e il Libro di Tobia per i Cento Amici del Libro di Firenze, ibid., pp. 31-45; L. Mannini, «Nel gioiello io mi mantengo scultore». L’oreficeria di D. V., ibid., pp. 47-64; C. Toti, V. e Firenze: tracce per una ricerca, ibid., pp. 17-29; A passi di danza. Isadora Duncan e le arti figurative in Italia tra Ottocento e avanguardia (catal.), a cura di M.F. Giubilei - C. Sisi, Firenze 2019.