MANIN, Daniele
Patriota, nato a Venezia il 13 maggio 1804 da un modesto avvocato d'origine ebraica, il cui padre, essendo stato tenuto a battesimo da quegli che fu poi l'ultimo doge, Ludovico Manin, aveva abbandonato il suo cognome, Medina, per assumere quello del padrino. Daniele si laureò in legge a Padova nel 1825, e due anni dopo sposò Teresa Perissinotti, dalla quale ebbe due figli: Emilia e Giorgio (v.). Per parecchi anni concentrò tutta l'opera sua nell'esercizio dell'avvocatura e negli studî. Ancora nel 1848 pubblicava un suo discorso Della veneta giurisprudenza civile; mercantile e criminale. Solo dal 1840 s'occupò di argomenti interessanti la vita pubblica a proposito della ferrovia Venezia-Milano, facendo prevalere l'interesse nazionale del più breve percorso su quello dei banchieri viennesi, che preferivano la via di Bergamo.
Avverso alle sette e alle cospirazioni, dopo l'elezione di Pio IX egli iniziò, con Nicolò Tommaseo, la cosiddetta "lotta legale", promovendo un'agitazione per ottenere il malcontento. E il M. ebbe gran parte nelle manifestazioni del IX Congresso degli scienziati italiani, tenutosi a Venezia nel settembre 1847, nel quale la discussione scientifica servì di copertura a una sia pur temperata opera politica. Il governo non tardò a stancarsi delle molestie che gli venivano dai due patrioti e nel gennaio 1848 li fece arrestare. Ma due mesi dopo, il 17 marzo, alla notizia dell'insurrezione di Vienna, il popolo veneziano si levò a tumulto e li liberò.
Il tempo della lotta legale è finito; incomincia la rivoluzione. Il M. però comprende che l'affrontare subito le truppe austriache avrebbe portato alla disfatta del popolo ancora senz'armi e senza organizzazione; perciò, d'accordo con il municipio, domanda al governatore il permesso d'istituire la guardia civica. Intanto arrivava da Vienna la notizia che l'imperatore aveva dato la costituzione: una parte dei patrioti veneziani accolse l'idea di adattarsi a un govemo austriaco costituzionale. Ma il M. vide chiaro che le concessioni date in mezzo alla rivoluzione sarebbero state col tempo ritirate e che perciò l'unica soluzione possibile era di scacciare gli Austriaci. Senza l'approvazione e senza l'aiuto degli altri capi veneziani, continuò la preparazione della seconda e decisiva rivolta, organizzandola per il 22 marzo e portandola al trionfo. Il governatore rassegnò i suoi poteri alla municipalità, che istituì un governo. provvisorio. Il M., invitato a farne parte, rifiutò perché comprendeva che con quegli uomini deboli e incerti non avrebbe potuto fare grandi cose. Anche la cittadinanza dimostrò di non volerne sapere del governo provvisorio municipale, per modo che quella notte stessa del 22 marzo esso rassegnò le dimissioni: l'indomani il M. fu acclamato presidente della Repubblica ch'egli fece proclamare col proposito di stringerla poi in lega con gli altri stati d'Italia nella grande federazione allora sognata.
Ordine e disciplina diventano la caratteristica del governo di Venezia per modo che si assistette alla completa fusione di tutte le forze per assicurare l'indipendenza del paese. Così, quando nel giugno la terraferma veneta ritornò sotto il dominio austriaco e a Venezia il pericolo imminente fece prevalere l'idea della fusiorne col Piemonte, M. per mantenere l'unità degli animi invitò il suo partito a fare sacrifizio dell'idea repubblicana per il trionfo dell'indipendenza; e la fusione col Piemonte fu approvata (4 luglio). Purtroppo, un mese dopo, il Piemonte sconfitto fu costretto a sottoscrivere l'armistizio e a Venezia i commissarî piemontesi dovettero lasciare l'ufficio. M. allora riassume il potere (11 agosto) e con un'intuizione precisa della realtà non ristabilisce la repubblica, ma organizza un governo provvisorio, che egli vuole superiore ai partiti politici, solo animato dal pensiero di cacciare lo straniero. E questa concordia fu conservata anche in mezzo ai disastri per l'energia sapiente di M che, confortato dalla completa fiducia in lui riposta dal popolo, seppe frenare i temperamenti più accesi e nei momenti difficili non esitò a cacciare via dallo stato chi poteva far nascere disordini.
La diplomazia europea lavorava intensamente per pacificare Venezia con l'Austria; ma M. vide chiaramente che soltanto dalla guerra si poteva sperare la salvezza di Venezia e d'Italia; e i difensori di Venezia vollero dare agli altri Italiani il segnale della nuova presa d'armi con la sortita del 27 ottobre dal forte di Marghera su Mestre, sede del comando in capo austriaco.
Quando poi nel marzo del '49 il Piemonte rinnovò la guerra, Venezia ne accolse l'annuncio con liete speranze. Invece, pochi giorni dopo, il generale Haynau comunicava la notizia della sconfitta piemontese a Novara, invitando Venezia a sottomettersi. Allora Venezia, sotto la guida del M., scrisse una delle pagine più gloriose della sua storia: la deliberazione della resistenza a ogni costo con i pieni poteri al M. (2 aprile 1849). Quando poi il bombardamento e la fame, il colera e il mutare delle circostanze politiche ebbero soffocata ogni speranza, solo allora Venezia capitolò (22 agosto 1849): Venezia era riconquistata dall'Austria materialmente, ma moralmente era perduta per sempre; perché il saggio governo di M. aveva fatto sì che tutti i cittadini di ogni tendenza si erano poi trovati concordi nella resistenza e, dopo la caduta, nella persuasione che ciò che non si era potuto raggiungere in una prima prova avrebbe certamente trionfato a breve scadenza.
Nelle sue funzioni di governo M. non aveva accettato alcuna retribuzione per non gravare sulle stremate finanze dello stato: solo al momento di partire per l'esilio con la moglie e i figli, accettò quelle ventimila lire a lui offerte dal municipio quasi a testimoniargli, con questo atto coraggioso, la perenne riconoscenza della città.
Appena sbarcato a Marsiglia, gli morì di colera la moglie; stabilitosi a Parigi, fu costretto per vivere a impartire lezioni di lingua italiana, mentre la figlia Emilia si veniva lentamente estinguendo.
Quando, nel marzo del 1854, il ministro inglese Russell disse nel Parlamento inglese che se gl'Italiani fossero stati più tranquilli avrebbero potuto ottenere che il governo austriaco diventasse più umano e concedesse ordinamenti particolari, il M. scrisse nella Presse di Parigi del 22 marzo: "Noi non domandiamo all'Austria di diventare umana e liberale...: noi le domandiamo che se ne vada". E quando Cavour lanciò il Piemonte nella corrente dei grandi interessi europei facendolo partecipare alla guerra di Crimea, il M. fu uno dei pochi che videro chiaramente le lontane ma felici conseguenze di quella mossa ardita; egli scrisse allora la famosa dichiarazione: "Convinto che anzitutto bisogna fare l'Italia, che questa è la questione precedente e prevalente, il partito repubblicano dice alla Casa di Savoia: Fate l'Italia e sono con voi; se no, no". E così formulò il programma unitario-monarchico; e a questa propaganda consacrò gli ultimi anni della vita, che si chiuse a Parigi il 22 settembre 1857. Dopo la liberazione di Venezia, le sue ceneri furono trasportate in patria e sepolte a fianco della basilica di S. Marco (1868).
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