Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
La dottrina della doppia natura – umana e divina – di Cristo, affermata nei grandi concili di Nicea (325), Costantinopoli (381) ed Efeso (431), fornisce il quadro per l’illustrazione della morte sulla croce del Figlio di Dio, fatto uomo per la redenzione dei peccati dell’umanità. La raffigurazione del Cristo inchiodato alla croce, in cui i Padri della Chiesa vedevano il simbolo dell’universalità della redenzione, diviene centrale nell’arte medievale. Nell’immagine si condensano concetti importanti già dall’epoca paleocristiana: la vittoria di Cristo crocifisso sulla morte, la sua conseguente apoteosi sulla croce, la croce come segno di trionfo e di parusía (il ritorno di Cristo al tempo del Giudizio finale), infine l’analogia fra sacrificio eucaristico e sacrificio sulla croce. Un’importante distinzione riguarda le tipologie figurative, adottate in sequenza e per un certo periodo conviventi, del Christus triumphans e del Christus patiens.
Questa iconografia, che prevede Cristo eretto, inchiodato alla croce, con gli occhi aperti, mantiene uniti i due momenti essenziali e complementari del mistero salvifico pasquale: la morte e la resurrezione di Gesù. Croci di questo tipo (lignee, miniate o su tavola) mettono in primo piano la vittoria sulla morte e la speranza della resurrezione. Tipologicamente alcune raffigurazioni mostrano Cristo con un perizoma a fascia, eretto sulla croce con le mani spalancate nell’atteggiamento dell’orante e con gli occhi aperti (Christus crucifixus vigilans), segno della sua natura divina. In alcuni casi il Cristo triumphans è raffigurato su una croce di luce, secondo una consuetudine iconografica che unisce l’immagine del Cristo inchiodato sulla croce a quella del Redentore che torna nel giorno del Giudizio finale (Reliquiario di Pipino I d’Aquitania, metà del secolo IX, Conques, Trésor de l’Abbaye). Il Christus triumphans trova nell’arte ottoniana una variante quale Cristo sommo sacerdote sulla croce, raffigurato in posizione eretta e vestito di una tunica, a mani aperte e inchiodato con quattro chiodi. Nell’Evangelario della badessa Uta (Monaco, Bayerische Staatsbibliothek) la testa è impreziosita da una corona (Christus rex) e il corpo rivestito dalla stola aurea dell’ufficio sacerdotale. In questo modo Cristo, re e sacerdote, raffigura la Chiesa trionfante sulla Sinagoga.
Sul finire dell’VIII secolo Cristo può apparire su una croce d’oro decorata con perle e gemme preziose (crux gemmata) per rievocare, oltre al sacrificio, la luce della parusía (Matteo 24, 4-31; 25, 31). A partire dal Mille tale tipologia si arricchisce agli estremi della croce con le immagini del Tetramorfo, i “quattro esseri viventi” citati dall’Apocalisse di Giovanni: un esempio, ormai del Duecento, è offerto dalla croce di Berlinghiero, forse figlio di Melanese, attivo nella prima metà del XIII secolo (Lucca, Museo di Villa Guinigi). La tradizione iconografica si precisa attraverso le interpretazioni benedettine che fanno capo all’abate Ruperto di Deutz, vissuto nel momento più drammatico del conflitto tra papato e impero, chiamato lotta alle investiture, per il quale la croce è il simbolo della vittoria di Cristo, e dunque del sacerdotium, purché Cristo sia raffigurato privo di segni di sofferenza e secondo i canoni di una bellezza ideale. A partire dal XII secolo la croce di tipo latino si amplia sia alle estremità per mezzo di tabelloni, sia ai lati del Cristo per ospitare scene dipinte della Passione (Croce n. 432, Firenze, Uffizi).
La prima immagine del Cristo morto risale all’VIII secolo, come testimonia una tavola del Monte Sinai che raffigura il Nazareno col volto sereno e gli occhi chiusi. Ma è sul finire del XII e agli inizi del XIII secolo, nel momento di passaggio dalla fase tardoromanica al primo gotico, che si comincia a sottolineare la sofferenza fisica di Cristo. I due aspetti della mistica pasquale, morte e resurrezione, sembrano scindersi definitivamente a favore della morte.
Già con Anselmo d’Aosta, teologo e dottore della Chiesa, si hanno i presupposti dogmatici per una rappresentazione del Cristo crocifisso sofferente e morto, ma è soprattutto con Bernardo di Chiaravalle, fondatore della celebre abbazia cistercense di Clairvaux, che il Cristo crocifisso diviene il punto di partenza della meditazione mistica. Bernardo vede nella vita di Cristo una via di dolore che conduce alla croce.
La mistica della sofferenza e della croce diviene, in seguito, un momento centrale della riflessione cristiana, soprattutto per opera dei Francescani. Fautori di una religiosità umanizzata, in cui largo spazio è dato alla componente emotiva, i Francescani ricorrono con frequenza a immagini che, attraverso un linguaggio comprensibile, possano commuovere il fedele avvicinandolo alla Chiesa. Per questo le scene della passio terrena del Nazareno, o l’ampio risalto dato alle ferite, soprattutto a quella del costato, godono di nuova e grande fortuna.
In genere si fa risalire il primo esempio di croce monumentale con il Christus patiens a quella oggi conservata nel Museo di San Matteo a Pisa (inv. 5224). Per l’espressione serena del volto, è stata avanzata l’ipotesi che si tratti di una variante iconografica del Christus dormiens, ovvero in attesa della resurrezione secondo la liturgia del Sabato santo. Il corpo di Cristo è qui circondato da sei scene post mortem che partono con la Deposizione e finiscono con la Discesa agli inferi.
Con ogni probabilità sempre in ambito francescano nasce la variante, poi di notevole divulgazione, del Cristo inchiodato con soli tre chiodi, uno solo per i piedi fra loro sovrapposti. Il Cristo sofferente ha la testa reclinata sulla spalla e gli occhi chiusi, mentre il corpo si abbandona al peso della morte. Forse uno dei primi a recepire questa novità iconografica è Giunta Pisano, del quale le fonti ricordano un esemplare perduto eseguito nel 1236 per la Basilica inferiore di San Francesco di Assisi. Di Giunta resta l’esempio del Crocifisso della Basilica di San Domenico a Bologna (1250 ca.), dove il corpo del Cristo è inarcato contro un tabellone privo di scene figurate. Accanto a questa tipologia persiste quella con quattro chiodi e con ampio spazio dato alle scene della Passione raffigurate lungo il corpo del Cristo (Maestro del San Francesco Bardi, prima metà XIII sec., Firenze, Uffizi).
Il maggior naturalismo nella resa del Cristo porta ad abbandonare, poco alla volta, le scene tratte dalla vita ante e post mortem poste ai lati del corpo, sostituite in un primo momento da una trama simile a un tappeto, come proposto da Cimabue nel Crocifisso di Arezzo (1260-1265) e in quello di Santa Croce a Firenze (1270 ca.), infine eliminate fino a ricondurre la croce alla sola figura del Nazareno.
In questo senso si pongono le croci di Giotto, in cui il Christus patiens trova declinazioni sempre più realistiche, di grande impatto visivo ed emozionale (Firenze, Santa Maria Novella). Con verismo, fino a queste date impensato, Giotto rende con efficacia il momento drammatico della morte riuscendo tuttavia ad alludere, attraverso le proporzioni classiche della figura di Cristo, anche al Salvatore, vero uomo e vero Dio. In epoca moderna il mistero salvifico della croce disperde definitivamente l’unità dei due aspetti originari di morte e resurrezione a favore del primo, secondo scelte di volta in volta legate al contesto e all’artista.