Custodia cautelare
Le Sezioni Unite hanno affermato che i termini di durata massima della custodia cautelare per la fase del giudizio abbreviato, anche non condizionato ad integrazione probatoria e disposto a seguito di richiesta di giudizio immediato, decorrono dall’ordinanza con cui è disposto il giudizio abbreviato e non dal precedente provvedimento di fissazione della relativa udienza (Cass., S.U., 28.4.2011, n. 30200, p.m. in proc. Ohonba, inedita).
Le Sezioni Unite hanno qualificato come illegittimo il provvedimento di revoca della custodia cautelare motivato esclusivamente in riferimento alla sopravvenuta carenza di proporzionalità della misura in ragione della corrispondenza della durata della stessa ad una percentuale, rigidamente predeterminata ricorrendo ad un criterio aritmetico, della pena irroganda nel giudizio di merito e prescindendo da ogni valutazione della persistenza e della consistenza delle esigenze cautelari che ne avevano originariamente giustificato l’applicazione (Cass., S.U., 31.3.2011, n. 16085, p.m. in proc. Khalil, Rv. 249323; sulla pronuncia, in dottrina, v. Gaeta, Solo un giudizio sull’attualità delle esigenze riesce a garantire veramente l’imputato, in Guida dir., 2011, n. 21, 54).
Le Sezioni Unite hanno chiarito che è legittimo il provvedimento di sospensione dei termini di durata della custodia cautelare, in pendenza dei termini per la redazione della sentenza, assunto d’ufficio, senza previo contraddittorio delle parti (Cass., S.U., 31.3.2011, n. 27361, Ez Zyane, Rv. 249969, su cui, in dottrina, Gaeta, Esclusa per le parti la possibilità di interloquire quando subentra la fase dello ius dicere, in Guida dir., 2011, 36, 83).
Le Sezioni Unite hanno affermato che il passaggio in giudicato di una sentenza di condanna a pena detentiva suscettibile di esecuzione, comporta la caducazione immediata della misura coercitiva non custodiale già applicata al condannato (nella specie, obbligo di dimora). Il Supremo Collegio ha puntualizzato, inoltre, che in tal caso l’estinzione della misura opera di diritto, senza che sia necessario alcun provvedimento che la dichiari. Infine, per il caso in cui insorgano questioni nel periodo intercorrente tra il passaggio in giudicato della sentenza ed il concreto avvio della fase di esecuzione della pena, le Sezioni Unite hanno stabilito che la competenza a decidere spetta al giudice dell’esecuzione (Cass., S.U., 31.3.2011, n. 18353, Confl. comp. in proc. Maida, Rv. 249480).
È probabile che i principi espressi nella sentenza n. 265/2010 abbiano influenzato anche la risoluzione di una ulteriore questione posta dall’ampliamento dei casi di c.d. custodia cautelare obbligatoria operato dalla novella del 2009. In particolare, una volta presunta l’adeguatezza della custodia cautelare in carcere per reati contemplati ex novo nell’art. 275, co. 3, c.p.p., occorreva stabilire se le misure cautelari in corso di esecuzione, applicate prima della riforma, potessero subire modifiche per effetto del nuovo e più sfavorevole trattamento normativo. Nel contrasto che si registrava sul punto, a fronte di due pronunce che escludevano la sussistenza di margini per la trasformazione delle misure già applicate1, si contrapponeva un pressoché ventennale indirizzo maggioritario che, al contrario, riconosceva piena applicabilità alla disciplina più severa anche rispetto alle misure cautelari che, pur se adottate sulla scorta della previgente normativa, erano da considerarsi pendenti e non esaurite fino alla scadenza dei relativi termini di fase o massimi2. In tale contesto, e a partire da risalenti arresti delle Sezioni Unite3, la retroattività della norma sfavorevole era chiamata ad operare attraverso il doppio passaggio dato, prima dalla revoca della misura più favorevole in corso, ex art. 299, co. 1, c.p.p. e, successivamente, dall’applicazione della misura più severa. Con un vistoso revirement, la soluzione del contrasto offerta dalle Sezioni Unite4 si diversifica rispetto al passato, sia negli esiti che nell’approccio, centrato sui tratti essenziali della disciplina delle misure cautelari personali. In particolare, è l’aspetto dinamico della restrizione della libertà personale che funge da chiave di volta. Il Supremo Collegio, infatti, critica il ricorso ad una revoca «virtuale» del provvedimento, per procedere all’applicazione della misura più severa, perché si tratta di una soluzione che «snatura artificiosamente» un istituto che, in quanto destinato ad operare laddove risultino carenti, «anche per fatti sopravvenuti», i presupposti di cui agli artt. 273 e 274 c.p.p., definisce in modo inequivoco «una situazione in cui la limitazione della libertà personale deve cessare del tutto». Si evidenzia in tal modo che procedere all’applicazione della più severa disciplina alle misure già in corso, significherebbe travalicare l’apprezzamento compiuto dal giudice nel momento genetico attraverso un’operazione che, in assenza di una disposizione transitoria, sarebbe condotta in violazione del principio del tempus regit actum.
1 Cfr. Cass., sez. VI, 6.10.2009, n. 45012, Di Blasi, CED Cass. 245474; Cass., sez. VI, 8.7.2009, n. 31778, Turelli, CED Cass. 244264.
2 Cfr., tra le più recenti, Cass., sez. II, 16.2.2011, n. 11749, Armens, CED Cass. 249686; Cass., sez. V, 12.5.2010, n. 18090, Mondini, in Dir. pen. e processo, 2011, 342, con nota di Cherchi, Modifiche normative peggiorative dello status libertatis e principio del tempus regit actum.
3 Il riferimento attiene a Cass., S.U., 27.3.1992, n. 8, Di Marco, CED Cass. 190246; sul punto cfr., inoltre, Cass., S.U., 1.10.1991, n. 20, Alleruzzo, in Cass. pen., 1992, 278.
4 Cass. pen., S.U., 31.3.2011, n. 27919, Ambrogio, inedita.