MARIGNOLLI, Curzio
MARIGNOLLI, Curzio (Curzio da Marignolle). – Ultimo discendente di una famiglia fiorentina di antica nobiltà, che nel Duecento possedeva un castello a Marignolle (località situata poco fuori le mura della città), nacque a Firenze il 6 giugno 1563 dal cavaliere Zanobi di Francesco e da Maria Lucrezia Ridolfi (Firenze, Arch. di S. Maria del Fiore, Registro de’ battezzati, c. 69v); l’anticipazione dell’anno di nascita intorno al 1546 accolta dal biografo seicentesco A. Cavalcanti e da altri studiosi è dunque errata.
A Firenze i Marignolli possedevano alcune case e botteghe nel tratto iniziale dell’odierna via de’ Cerretani, all’angolo con borgo S. Lorenzo, per questo all’epoca appunto detto Canto de’ Marignolli. Ancor oggi, su due architravi della facciata del palazzo prospiciente via de’ Cerretani, è visibile lo stemma di famiglia, uno scudo attraversato da una fascia orizzontale (che dai repertori araldici risulta dovesse essere nera in campo d’oro). Si ha notizia di altre proprietà dei Marignolli a Calenzano (cui il M. dedicò le ottave Descrizione della sua villetta) e di una villa «a S. Marco Vecchio, poco fuori della porta a S. Gallo», nell’attuale via Faentina (A. Cavalcanti, Notizie…, p. 34), che in seguito appartenne a Girolamo Fedini.
Tale ricchezza, tuttavia, nelle mani del M. si dileguò: tutti i biografi, infatti, a partire da Cavalcanti, imputano al M. una vita dissipata e dedita al gioco, tale da portarlo a dilapidare in breve tempo il cospicuo patrimonio di famiglia e a ridursi vittima dei creditori, sempre in cerca di immunità nelle chiese per sfuggire alla legge. L’assidua frequentazione di bische e osterie è tra gli argomenti principali delle sue rime, nelle quali si presenta come uno dei giovani «scapigliati» fiorentini («son quel Curzio scapigliato», Rime varie, p. 52), utilizzando a più riprese il termine proprio nell’accezione resa famosa nell’Ottocento dal romanzo di C. Arrighi (ma quella colorita accolita di letterati bohémiens e piccoli malviventi attiva a Firenze fra Cinque e Seicento appare già talmente ben definita nei suoi caratteri da dare origine a un vero e proprio personaggio comico, lo scapigliato appunto, ricorrente in testi poetici e teatrali dell’epoca). Il M. confessa apertamente la propria irrimediabile insolvenza pecuniaria (per esempio nel sonetto A’ miei creditori), della quale, peraltro, è traccia anche in un documento conservato nell’archivio privato della famiglia Naldini, da cui risulta che Bernardino Naldini e fratelli nel 1592 avevano intentato contro il M. una causa per debiti, e in un biglietto, sottoscritto nel 1605 e pubblicato da C. Arlia (p. 66), di ricevuta del prestito di una somma abbastanza ingente avuta in Francia da Giambattista Gondi.
Cavalcanti e C.R. Dati accreditarono pure un’immagine del M. protagonista di facezie e beffe, inserendolo così in quel cospicuo drappello di motteggiatori fiorentini che includeva il piovano Arlotto (Mainardi) e poi D. Barlacchi, e soprattutto – più diretti predecessori del M. – poeti burleschi quali il Burchiello (Domenico di Giovanni) o Alfonso de’ Pazzi. Come Barlacchi, anche il M. sembra potesse vantare un rapporto privilegiato con il potere, nella persona del granduca Ferdinando I de’ Medici, dal quale dovette ricevere protezione nelle sue varie disavventure; e come Pazzi (altro rampollo di schiatta insigne) egli non nacque poeta, ma attuò una sorta di conversione alle muse (burlesche), puntualmente celebrata dal suo concittadino A. Allegri in un sonetto con tanto di lettera accompagnatoria, S’un ricco mi dà mai pur un ducato, incluso nella terza parte delle sue Rime (Firenze 1608). Tra gli altri topoi che caratterizzano il personaggio del M. non manca quello della spontaneità e facilità compositiva: la sua vena poetica, principalmente d’occasione, è definita da Cavalcanti «naturale» e senza studio, per quanto aliena dall’estemporaneità («non volle mai, benché molte volte invitato, cantare all’improvviso, parendoli quello veramente un modo di poetare e di comporre pieno di spropositi», p. 29).
G.V. Rossi attesta una presenza del M. in Spagna, dove sarebbe stato sottoposto a processo, rischiando addirittura la pena capitale perché «improbus amator», ossia verosimilmente sodomita (piuttosto che, come interpreta Spini, p. 303, adultero). Il soggiorno del M. in Spagna parrebbe confermato da un altro esponente della «scapigliata turba» fiorentina, L. Franceschi, che in un sonetto invitava il M. a narrare le gesta «Del grande Ispano e dell’invitto Enrico» (Filippo II ed Enrico IV di Borbone), al rientro a Firenze «dalle guerre esterne». Altro processo avrebbe subito a Firenze da parte del tribunale dell’Inquisizione per avere deriso la religione, correndo nuovamente il rischio di essere giustiziato. Per quanto non confermate né da Cavalcanti né da altre fonti, queste accuse attestano atteggiamenti libertini e anticlericali del M. che emergono chiaramente anche dalle rime, in gran parte oscene (per la pratica omosessuale, eloquente è, fra molti altri, il vivace sonetto Prosuntuosamente un tuo ragazzo, pubblicato con tagli censori da Arlia, il quale evitò prudentemente di dare alle stampe i componimenti più lubrichi del M.), come pure da una novella e da alcuni versi inseriti da Cavalcanti nella biografia.
A Firenze il M. doveva sicuramente trovarsi il 16 marzo 1591, quando fu impiccato Alfonso Piccolomini, duca di Montemarciano, reo di avere compiuto scorrerie nei territori del Granducato: sull’evento egli compose un sonetto-epitaffio (Qui giace Alfonso, e ’l fasto e l’alterezza). E vi era ancora nel 1595, dato che il 26 febbraio di quell’anno corse la quintana organizzata in occasione del carnevale dall’Accademia della Ninchera, assumendo lo pseudonimo di Cavalier Confuso ed esibendo un’impresa raffigurante un cielo nuvoloso da cui traluce un raggio di sole con il motto «Tua forza e mio destino». Se in tale divisa egli voleva alludere a una donna, costei sarà forse quell’attrice di nome Prudenza alla quale si riferisce un aneddoto in cui il M. replica facetamente al padre, che gli rimproverava i suoi debiti: «Anzi, tutto il mio spendo con prudenza» (G. Cinelli Calvoli, p. 319), e alla quale un altro degli «scapigliati» fiorentini, F. Rovai, dedicò un sonetto.
«Intorno all’anno 1600, o poco prima» colloca Cavalcanti (p. 5) la contesa del M. con i frati di Vallombrosa (che Muzzi data al 1596, ma senza fornire spiegazioni).
Trovandosi in villa nel Valdarno, ospite dell’amico Alfonso Altoviti, il M. avrebbe fatto visita al convento, attratto dalla fama del sacro luogo. Dopo avere assistito alla messa, si attendeva di essere invitato a pranzo dai frati, essendo stato da loro riconosciuto e mancando osterie nei paraggi; invece quelli lo ignorarono anche quando suonò alla porta del monastero, data la loro usanza di non rispondere a nessuno mentre si trovavano a tavola. Rimasto digiuno, il M. si vendicò sottraendo i cappucci stesi nel chiostro ad asciugare e mettendoli in testa a degli asini che pascolavano nelle vicinanze. I religiosi, ritenendosi vilipesi, intendevano denunciarlo al tribunale dell’Inquisizione, ma grazie alla mediazione del granduca Ferdinando il M. si riconciliò con loro.
La cronologia dell’episodio, dato il suo contesto novellistico e considerata la premessa cavalcantiana (il caso era avvenuto prima della nascita del biografo, che dichiara di non «averne avuti minutamente tutti i particolari»), è approssimativa, ma quella sorta di terminus ante quem al 1600, peraltro riportato nei titoli di alcuni manoscritti della Vita («vendetta seguita l’anno 1600»), non sembra casuale. Il 17 dic. 1600, infatti, il re di Francia Enrico IV sposò Maria de’ Medici, figlia del granduca Francesco I, morto nel 1587. Intorno alla data del matrimonio (poco dopo le nozze regali per Cavalcanti) il M., come tanti altri fiorentini in cerca di fortuna, riparò in Francia, probabilmente anche per sfuggire all’assedio dei creditori. La cronologia è qui tuttavia assai incerta. Lo stesso M. in un capitolo in terzine scritto in Francia fa risalire la sua partenza a sette anni addietro, quindi non dopo il 1599, assumendo come termine estremo il 1606, presunto anno della morte. Si può aggiungere che in un manoscritto della Bibliothèque nationale di Parigi, datato 13 maggio 1601, appartenuto a un membro della famiglia Gondi (verosimilmente Giambattista, gentiluomo della corte di Francia), si leggono fra le altre alcune poesie del M., il che, ovviamente, non è una prova della presenza in loco dell’autore. È invece molto probabile che il M. fosse a Firenze nel settembre 1604, in tempo per assistere allo scoprimento della nuova facciata del palazzo di Baccio Valori, sulla quale compose i suoi versi forse più celebri, e per sostenere una tenzone poetica con i paladini del senatore.
Un soggiorno in Francia (e forse anche qualche dimora precedente, almeno per brevi periodi) è comunque sicuro, come dimostrano le sue rime. Con qualche compagno dovette arruolarsi nell’esercito di Enrico IV, come risulta dal sonetto scritto appunto Quando andò in Francia col capitano Niccolò Nasi. Anche dal sonetto-preghiera Sommo Signor, che d’innocente e pura sembra si possa dedurre una militanza contro i nemici del re cristianissimo, convertito al cattolicesimo nel 1593 («turba perfida e rea di gente ostile» che «niega e persegue la tua fede santa», contro la quale «io là pugnai, mercè di Cristo, e vinsi», Rime varie, p. 78). Continuò comunque a contrarre debiti, come risulta dal citato biglietto sottoscritto a Parigi il 20 maggio 1605, in cui dichiara di avere ricevuto 132 scudi da Giambattista di Girolamo Gondi.
Il M. non avrebbe più fatto ritorno a Firenze: morì a Parigi, probabilmente nel 1606 (dopo la primavera, se il capitolo poc’anzi menzionato fu scritto in quell’anno stesso: vi si legge, infatti, che stava approssimandosi l’estate).
La data della morte, a detta di Cavalcanti, era incisa sulla lapide della sua tomba, non giunta fino a noi, che si trovava in Notre-Dame. Né sono sopravvissuti alla Rivoluzione documenti d’archivio che possano confermare l’anno, peraltro concordemente attestato da tutte le fonti. L’altrettanto concorde notizia che passasse di questa vita povero e negletto – quasi un cliché per un poeta, per di più dissipatore – parrebbe confermata dal prestito chiesto a G.B. Gondi «per sovvenire alle sue necessità», la cui ricevuta firmò con mano tremolante; il luogo della sepoltura sembra tuttavia attestare, se non altro, un certo prestigio. Cavalcanti fornisce anche una sommaria descrizione fisica del M., dicendolo di bassa statura e precocemente canuto, e dà notizia di un suo figlio naturale, Ottaviano, che si fece frate nel monastero degli Angeli di Firenze e morì intorno al 1640.
La maggior parte delle rime conosciute del M. sono burlesche; fanno eccezione un gruppetto di versi d’intonazione religiosa (le sette ottave spirituali intitolate Il penitente o Il peccator pentito che Cavalcanti assegna all’ultimo scorcio della vita), il citato sonetto Sommo Signor, che d’innocente e pura e il sonetto-epicedio per la morte di Alessandro Buondelmonti (di dubbia attribuzione). Si hanno inoltre alcune rime d’argomento amoroso in chiave petrarchesca (tre sonetti, cinque madrigali, sette stanze dedicate a una «Cara donna gentil»), tutte concentrate nel manoscritto parigino di Gondi. Le forme metriche che egli praticò sono quelle tipiche dei poeti burleschi: sonetti e sonettesse, quartine epigrammatiche, epitaffi o «tumuli», ottave, madrigali, capitoli in terzine. La sua poesia pone in primo piano una estesa rete di amicizie di varia estrazione sociale: dalla schiera degli infimi frequentatori di bettole – dai coloriti soprannomi (Finocchino, Sermollino, Stivalone, Buricchi, Sonno, Rondinino) e altri nominati nel sonetto Se fuor d’ogni dovere io troppo scorsi – a Iacopo Corsi, grande mecenate fiorentino di musicisti e letterati, ai due Altoviti, Lorenzo detto il conte di Vacciano (forse il figlio di Piero, morto nel 1593) e Alfonso detto il Massiccio, destinatario di un capitolo e citato nella novella vallombrosana da Cavalcanti. Diverse sono poi le corrispondenze poetiche di ambito cittadino (con L. Franceschi, con A. Allegri, forse con A. Ginori). Quanto ai temi, il M. segue il tradizionale filone burlesco toscano: ostenta i propri vizi (gioco, vino, debiti, lussuria, confessati tutti insieme, per esempio, nell’emblematica quartina-epigramma Il mal mio cresce più quanto più invetera), augura la morte ai nemici e gli aneddoti lo ritraggono in conflitto con il padre a causa della sua vita sregolata. Non mancano componimenti legati a occasioni alimentari: inviti a pranzo, richieste di forniture di vino, furti di cibarie. Notevoli sono gli spunti satirici, come quelli della sonettessa Quindici molto egregi cittadini, critica sulla facciata di palazzo Valori, ornata da quindici erme (o «termini») di marmo e pietra di illustri fiorentini: versi che, come scrisse A. Magliabechi (c. 302v), erano «per le bocche di tutti». A pendant di questo componimento il M. compose quella sorta di pasquinata che è il Dialogo sopra le figure della facciata della Casa Valori nel borgo degli Albizzi, protagoniste le erme di P. Vettori e M. Ficino, in cui apparve per la prima volta il nome spregiativo con il quale è tuttora popolarmente noto il palazzo, detto appunto «dei Visacci». Le rime satiriche del M. dettero avvio a una lunga querelle con i Valori e con i loro clienti-apologeti. Il primo a elogiare la facciata dileggiata e a tacciarne i detrattori di invidiosi fu G. Libri; fu poi la volta di G. Cervoni, che in età molto avanzata compose in terzine un prolisso Dialogo sopra li venti termini di marmo di mezzo rilievo… posti dentro e fuori a la Casa de’ Valori in Fiorenza, a cui prendono parte Arno, Pasquino e Momo, alter ego del Marignolli. Il dialogo di Cervoni, apparso anonimo per volontà (prudenziale) dell’autore, conteneva fra l’altro una risposta per le rime alla sonettessa del M.; quest’ultimo replicò con un sonetto (Ch’àn che far gli Arni, pasquinate e Momi), in cui minacciava di prendere a pugni il suo riprensore. Pure il figlio di B. Valori, Filippo, volle intervenire nella disputa, anche perché il M. lo aveva sarcasticamente chiamato in causa, esortandolo a far aggiungere alle altre erme anche quella del padre, in modo da potere condividere l’onta causata a quei personaggi. Nel settembre 1604, poco dopo lo scoprimento della facciata, F. Valori dette alle stampe un’opera esplicativa, finalizzata a chiudere la questione: Termini di mezzo rilievo e d’intera dottrina fra gl’archi di Casa Valori in Firenze (la versione manoscritta, in Firenze, Biblioteca nazionale, Magl., IX.95). La disputa tuttavia non si placò, visto che ancora Libri compose un altro singolare sonetto di sette distici a rima baciata più una coda regolare, La befana dei buoni e de’ mali, per elogiare l’opera di Filippo e attaccare nuovamente i denigratori della facciata.
Da un punto di vista stilistico il M. si mostra – come altri fiorentini contemporanei – quasi del tutto immune non solo dall’incipiente contagio marinista, ma anche dalle influenze della maniera di fine Cinquecento, rifacendosi piuttosto, per la poesia burlesca, alla tradizione municipale di F. Berni e di Lasca (A. Grazzini; a Burchiello forse solo per il sonetto Indovinello), per quella seria, direttamente a Petrarca. Fu perciò apprezzato dall’Accademia della Crusca, che lo incluse nei testi canonici del Vocabolario a partire dalla terza edizione (Firenze 1691), ma riuscì sgradito a P. Verri, che, in uno dei Pensieri sullo spirito della letteratura d’Italia, lo menzionò all’interno di un elenco di scrittori «oscurissimi […] dei quali l’Europa colta non legge neppur un solo» (p. 157).
Inedita, come si è detto, è l’ampia porzione oscena delle sue rime: A. Magliabechi ne apprezzava il valore formale, ma ne paventava il contenuto, tanto da evitare accuratamente di diffonderle (come scrisse ad A. Aprosio); così anche Cavalcanti che, proprio a causa di questa straordinaria licenziosità, ne pronosticava la dispersione, pur contrapponendo la presunta «licenza» e «libertà» dei tempi del M. all’«ipocrisia» regnante nei propri. In effetti, alcuni dei manoscritti contenenti le rime marignolliane sono scomparsi o risultano essere mutili per carte strappate – come scrisse Arlia, p. 99 – da «ostrogoti o collitorti». Per scagionare il suo beniamino, comunque, Cavalcanti riferì la voce secondo cui le poesie oscene che gli vengono attribuite nei codici sarebbero in realtà state scritte dal concittadino e contemporaneo A. Ginori, che effettivamente nei suoi versi condivise lo stile e i temi del Marignolli. Comunque sia, i componimenti di questo genere che recano l’attribuzione al M. denotano una certa arguzia spregiudicata, come il sonetto Ite lungi da me potte e forami, apparente resipiscenza dei propri vizi, costruita in forma di exemplum vitandum, ma consistente in un compiaciuto elenco di oscenità; in altri casi predomina un efficace realismo descrittivo, con punte espressionistiche non di maniera, come nella lunga Monneide, una sonettessa che descrive particolareggiatamente un rapporto sessuale dell’autore con una sordida prostituta.
L’unico autografo certo del M. è la sottoscrizione del citato biglietto di ricevuta a G. Gondi (Firenze, Biblioteca nazionale, Autografi Gonnelli, cass. 24, cart. 27), dal quale risulta anche quale forma del proprio cognome egli adottasse: «Io, Curtio Marignolli, affermo quanto di sopra si contiene». Degli innumerevoli manoscritti che contengono le sue rime (quasi sempre insieme con quelle di altri autori), la maggior parte è in Biblioteca nazionale di Firenze, Fondo nazionale, II.I.398, cc. 194r-195r; II.I.448; II.II.109, c. 104r; II.IV.16, cc. 171-172; II.IV.252, cc. 107v-110r, 118r, 120r, 122r-124r, 161v, 164v, 174-180; II.IV.253; II.IV.458; II.X.60; Filze Rinuccini, 27, cass. A-L, ins. VI, c. 232r; Magl., VI.242, cc. 117v-118v; VII.244, cc. 13-15; VII.346, c. 318v; VII.349, cc. 33-58; VII.357, p. 474; VII.359, pp. 30, 656, 951; VII.364; VII.668; VII.870; VII.872, c. 766v; VII.873, p. 255; VII.1178, cc. 396r-397r; VIII.16, cc. 34r-36r; VIII.47, cc. 206r, 209v-211r; Palat., 274, I, pp. 142-148; Panciat., 327, c. 105r. Inoltre: Firenze, Biblioteca Marucelliana, Mss., C.212, cc. 187-188; Ibid., Biblioteca Medicea Laurenziana, Ashb., 749; Ibid., Biblioteca Riccardiana, Ricc., 2977; 2980, III, cc. 120-123, 128-132bis; 3490; Moren., 256; Lucca, Biblioteca governativa, Mss., 528, p. 342; Biblioteca apostolica Vaticana, Ferrajoli, 502, cc. 58v-62v; Roma, Biblioteca dell’Accademia nazionale dei Lincei e Corsiniana, Mss., 43.C.15, c. 176; Parigi, Bibliothèque nationale, Fonds Ital., 575 (raccolta Gondi, 1601). Lo stampatore fiorentino settecentesco F. Moücke, che possedeva vari codici con rime del M., progettava di pubblicarle, ma la prima edizione complessiva delle poesie del M. apparve solo a fine Ottocento: Rime varie, raccolte da C. Arlia, Bologna 1885; alcuni componimenti erano già apparsi nelle note ad A. Cavalcanti, Novellette intorno a C. M. poeta fiorentino, a cura di G. Piccini, Bologna 1870, pp. 73-77, 85 s.; i versi sul palazzo dei Visacci in C. Arlia, Mescolanze letterarie, in Letture di famiglia, XXXIV (1882), pp. 225 s., 304-306. La sonettessa Sopra le statue della facciata di B. Valori si legge anche in D. Heikamp, Rapporti fra accademici ed artisti nella Firenze del ’500, in Il Vasari, XV (1957), pp. 156-158, 162 s.
Fonti e Bibl.: Arch. di Stato di Firenze, Mss., 142: F. Settimanni, Diario, VI, p. 509; Firenze, Arch. dell’Opera di S. Maria del Fiore, Registro de’ battezzati dal 1561 al 1571, c. 69v; Ibid., Biblioteca nazionale, Magl., VII.1169, p. 95: L. Franceschi, sonetto Curzio gentil, che dalle guerre esterne; IX.66: G. Cinelli Calvoli, Toscana letterata, I, pp. 319 s.; IX.72: A.M. Biscioni, Giunte alla «Toscana letterata» del Cinelli, p. 237; Fondo naz., II.II.109: A. Magliabechi, Notizie di varia letteratura, c. 302v; Ibid., Biblioteca Riccardiana, Mss., 2111, p. 509; Genova, Biblioteca universitaria, Mss., E.VI.15 (lett. di A. Magliabechi ad A. Aprosio); A. Allegri, Rime e prose, III, Amsterdam [ma Napoli] 1754, pp. 132-135; La Ninchera, capriccio carnevalesco del secolo XVI, Firenze 1875, p. 20; N. Villani, Ragionamento dello academico Aldeano sopra la poesia giocosa de’ greci, de’ latini, e de’ toscani con alcune poesie piacevoli del medesimo autore, Venezia 1634, p. 72; G.V. Rossi (Ianus Nicius Erythraeus), Pinacotheca virorum illustrium, I, Coloniae Agrippinae 1643, pp. 179-181; G. Negri, Istoria degli scrittori fiorentini, Ferrara 1722, p. 139; G.B. Fagiuoli, Prose, Firenze 1737, p. 58; F.S. Quadrio, Della storia e della ragione di ogni poesia, II, Milano 1741, p. 562; D.M. Manni, Le veglie piacevoli, VIII, Firenze 1816, pp. 34-47; C.R. Dati, Lepidezze di spiriti bizzarri e curiosissimi avvenimenti, Firenze 1829, p. 15; F. Zambrini, Cenni biografici intorno ai letterati illustri italiani, Faenza 1837, p. 135; S. Muzzi, Leggende e narrazioni tratte da soggetti italiani, Firenze 1875, pp. 143-148; A. Cavalcanti, Notizie intorno alla vita e costumi di C. da Marignolle 1600, in C. da Marignolle, Rime varie, cit., pp. 1-46; G. Marchesi, Per la storia della novella italiana nel secolo XVII, Roma 1897, pp. 128, 130-132; G. Belloni, Il Seicento, Milano 1899, pp. 236, 379, 490 n. 40; E. Benvenuti, Aneddoti danteschi, I, I «Visacci» e una satira d’intonazione dantesca, in Il Giornale dantesco, XXII (1914), pp. 88-94; L. Di Francia, Novellistica, II, Milano 1925, pp. 418 s., 429; A. Belloni, Marignolle, C., in Enc. Italiana, XXII, Roma 1934, p. 321; G. Spini, Ricerca dei libertini. La teoria dell’impostura delle religioni nel Seicento italiano, Firenze 1950, pp. 301, 303-305; P. Verri, Pensieri sullo spirito della letteratura d’Italia, in «Il Caffè», ossia brevi e vari discorsi distribuiti in fogli periodici, a cura di S. Romagnoli, Milano 1960, pp. 156-159; C. Jannaco - M. Capucci, Il Seicento, Padova-Milano 1986, p. 615 e n. 47; D. Pegazzano, I «visacci» di Borgo degli Albizi: uomini illustri e virtù umanistiche nella Firenze di tardo Cinquecento, in Paragone-Arte, XLIII (1992), 509-511, pp. 64, 71 n. 89; R. Williams, The façade of the palazzo dei «Visacci», in I Tatti studies, V (1993), pp. 224 s., 238; A. Marsand, I manoscritti italiani della Regia Biblioteca parigina, II, Parigi 1838, p. 152 n. 824; A. Bartoli, I manoscritti italiani della Biblioteca nazionale di Firenze, III, Firenze 1883, pp. 338 s.; L. Gentile, I codici palatini, I, Roma 1889, p. 479; F.A. Berra, Codices Ferrajoli, II, Città del Vaticano 1948, p. 83; Inventari dei manoscritti delle biblioteche italiane, VIII, pp. 91, 128; X, pp. 92 s.; XI, pp. 16, 18, 59; XII, pp. 49, 172; XIII, pp. 50, 66-68, 71, 162, 182 s.