Cuba
In una fortezza assediata, ogni dissidenza è tradimento
(S. Ignazio di Loyola)
Tempo di cambiamenti a Cuba
di
24 febbraio All’Avana, l’Assemblea nazionale cubana, ratificando formalmente il passaggio di consegne tra fratelli già in atto, elegge presidente del Consiglio di Stato Raúl Castro, comandante in capo delle Forze Armate e unico candidato. Il 19 febbraio Fidel Castro aveva annunciato ufficialmente la sua rinuncia alla carica, che ricopriva dall’entrata in vigore della nuova Costituzione, nel 1976.
La rinuncia di un comandante
Martedì 19 febbraio 2008, con un ‘Messaggio del comandante in capo’ pubblicato sul quotidiano dell’Avana Granma, Fidel Castro ha annunciato che avrebbe posto fine alla sua lunga carriera politica, rinunciando a candidarsi alla propria successione alla presidenza di Cuba. Il 31 luglio 2006, dopo aver subito un delicato intervento chirurgico all’addome, aveva già provvisoriamente ceduto le sue funzioni al fratello Raúl, che è stato eletto ufficialmente presidente il 24 febbraio 2008.
Fidel Castro rimane primo segretario del Comitato centrale del Partito comunista cubano (PCC) fino al prossimo congresso, previsto per la fine del 2009 (l’ultimo si è tenuto nel 1997). Verosimilmente in quell’occasione rassegnerà le dimissioni anche da questa carica, che è senz’altro non di poco conto in un sistema politico monopartitico. Fino a oggi, questo ruolo non è mai stato, in nessun paese comunista, dissociato da quello di capo dell’esecutivo. Appare dunque improbabile che Fidel Castro lo mantenga, avendo rinunciato alla presidenza del Consiglio dei ministri e al grado militare di comandante in capo delle Forze Armate.
In ogni modo, la sua influenza sull’opinione pubblica cubana resta enorme. È ancora al centro della lotta, anche se il fronte di azione è cambiato. Come ha annunciato nel messaggio del 19 febbraio, se ha abbandonato la presidenza è per dedicare le sue energie al ‘quarto potere’: scrive infatti su Granma, il giornale con la maggiore tiratura dell’isola e organo ufficiale del Comitato centrale del partito, e su altri media, in particolare su Internet, nel sito Cubadebate. Nel suo nuovo segreto quartier generale, rimane il combattente che è sempre stato. Le sue armi sono adesso le parole e la sua battaglia è più che mai quella delle idee. Il fronte di combattimento – come direbbe Antonio Gramsci – è quello dell’egemonia culturale, sul quale, d’altronde, è sempre stato attivo.
I giornalisti che, all’indomani dell’annuncio dell’abbandono delle funzioni presidenziali, hanno parlato della sua «definitiva ritirata» hanno trascurato l’importanza esercitata dai media sull’opinione pubblica. Fidel, che non ha mai smesso di scrivere durante la lunga convalescenza, ha precisato che avrebbe continuato a pubblicare regolarmente i suoi articoli. Diverso solo il nome della rubrica: al posto di Riflessioni del comandante in capo, si leggono semplicemente le Riflessioni di Fidel e queste non appaiono più in prima pagina di Granma ma, più discretamente, all’interno. I Cubani, e con loro gli osservatori internazionali, continuano a seguirle con attenzione, perché nessuno può sostituire Fidel nel ruolo di guida ideologica della rivoluzione cubana.
Nella storia del suo paese, il suo percorso è unico, non solo in ragione delle sue qualità di leader ma anche per le circostanze storiche irripetibili che l’hanno forgiato. È passato attraverso il tentativo di insurrezione con l’assalto alla caserma Moncada nel 1953, il successo della prima rivoluzione comunista in America nel 1959, le aggressioni degli Stati Uniti e lo sbarco alla Baia dei Porci nel 1961, la crisi missilistica nell’ottobre 1962, il sostegno alle guerriglie in America Latina (tra cui quella di Che Guevara in Bolivia), il crollo dell’Unione Sovietica nel 1991 e 50 anni di confronto con gli USA. A tutto ciò si aggiungono l’impegno per la giustizia sociale e la solidarietà agli oppressi di tutto il mondo. Dice Frei Betto, esponente brasiliano della teologia della liberazione e consigliere del presidente Lula: «Fidel Castro ha riscattato il suo popolo non solo dalla fame, ma anche da analfabetismo, elemosina, criminalità, sottomissione all’imperialismo». La sua rinuncia al potere da vivo consente un’evoluzione pacifica della storia cubana. Raúl tiene le redini del governo dal 31 luglio 2006 e non ci sono stati grandi sconvolgimenti: con pragmatismo, ha messo al centro dell’azione del suo governo le questioni che più preoccupano la gente. Intanto Fidel Castro ha fatto sì che i Cubani avessero il tempo di abituarsi all’idea che non avrebbe più guidato l’esecutivo: la decisione di ritirarsi è stata anticipata in diversi articoli, prima dell’annuncio definitivo del 19 febbraio. Nel dicembre 2007 aveva scritto: «Il mio compito non è quello di rimanere attaccato a degli incarichi, e ancor meno di ostacolare la crescita di persone più giovani, bensì quello di apportare esperienze e idee il cui valore risiede nella fortuna, che ho avuto, di vivere un’epoca eccezionale». Più tardi, dopo la rielezione in Parlamento, aveva ringraziato gli elettori e si era scusato di non aver potuto condurre una campagna elettorale ‘sul campo’, a causa del suo stato di salute, che non gli permette altro che scrivere. Infine, nel suo messaggio del 19 febbraio, ha aggiunto: «Tradirei la mia coscienza se continuassi a occupare una posizione che esige di potersi muovere e dedicarsi a fondo, cosa che mi è attualmente impedita dalle condizioni fisiche». Ha lasciato la presidenza, convinto della stabilità del sistema politico cubano.
L’ultimo dei grandi rivoluzionari
Personaggio di rigorosi principi e grande frugalità, Fidel Castro non è né il mostro descritto da certi media occidentali né il Superman dipinto da quelli cubani. Dotato di incredibile energia nel lavoro, è stato anche uno scaltro stratega, un comandante che ha vissuto un’intera vita di resistenza, senza cedere, né essere sconfitto. È una curiosa mescolanza di idealismo e pragmatismo. Sogna una società perfetta, ma è ben conscio della difficoltà di trasformare le condizioni materiali. Pochi altri hanno conosciuto la gloria di entrare da vivi nella storia e nella leggenda. Fidel Castro è l’ultimo ‘mostro sacro’ della politica internazionale. Appartiene a quella generazione leggendaria di rivoluzionari – Nelson Mandela, Ho Chi Minh, Patrice Lumumba, Amilcar Cabral, Che Guevara, Carlos Marighela, Camilo Torres, Medhi Ben Barka – che dopo la Seconda guerra mondiale si sono lanciati nell’azione politica alla ricerca di un ideale di giustizia, con la speranza di cambiare un mondo di disuguaglianza. Come migliaia di progressisti e di intellettuali in tutto il mondo, questa generazione credeva veramente che il comunismo offrisse la promessa di un avvenire radioso. In quell’epoca, in Vietnam, Algeria, Guinea Bissau e in più della metà del mondo, i popoli, ancora in gran parte oppressi dalla colonizzazione, si sollevavano. Quasi tutta l’Africa e gran parte dell’Asia subivano il giogo dei vecchi imperi occidentali, mentre i paesi dell’America Latina, teoricamente indipendenti da un secolo e mezzo, erano sfruttati da minoranze privilegiate e tiranneggiati da crudeli dittatori (Fulgencio Batista a Cuba, Rafael Leónidas Trujillo a Santo Domingo, François Duvalier a Haiti, Anastasio Somoza in Nicaragua, Miguel Ydígoras Fuentes in Guatemala, Marcos Evangelista Pérez Jimenez in Venezuela, Alfredo Stroessner in Paraguay), insediati o protetti dagli Stati Uniti.
Fidel Castro ha tenuto testa a dieci presidenti americani (David Eisenhower, John Kennedy, Lyndon Johnson, Richard Nixon, Gerald Ford, Jimmy Carter, Ronald Reagan, George Bush padre, Bill Clinton, George Bush figlio). Ha intrattenuto relazioni personali, spesso di amicizia, con molte personalità che dal 1945 hanno pesato sulla scena politica mondiale: Jawaharlal Nehru, Nasser, Tito, Nikita Chruscev, Olof Palme, Willy Brandt, Ben Bella, Boumedienne, Yasser Arafat, Indira Gandhi, Salvador Allende, Leonid Breznev, Michail Gorbaciov, François Mitterrand, Jiang Zemin, Giovanni Paolo II, re Juan Carlos, Nelson Mandela.
Sotto la sua guida, un piccolo paese di 100.000 km2 e 11 milioni di abitanti ha sviluppato un grande peso politico mondiale e continua da cinquant’anni a sfidare gli Stati Uniti, che non hanno potuto rovesciare, eliminare, né minimamente modificare la rotta della rivoluzione cubana.
Cuba e Stati Uniti
Dal 1960, gli Stati Uniti conducono una guerra economica contro Cuba e le impongono, nonostante l’opposizione sempre più ferma delle Nazioni Unite, un pesante embargo commerciale unilaterale (accentuato negli anni 1990 dalle leggi Torricelli e Helms-Burton e ulteriormente rinforzato dall’amministrazione Bush nel maggio 2004), che mina la crescita economica dell’isola, con pesanti conseguenze sulla popolazione. Gli USA perseguono anche una battaglia mediatica permanente contro L’Avana attraverso Radio Martí e TV Martí, che hanno sede in Florida. Uffici ‘ombra’ come la NED (National Endowment for Democracy), una ONG creata da Ronald Reagan nel 1983, sovvenzionano all’estero gruppi che diffondono propaganda anticubana. Secondo l’agenzia di stampa Associated Press, nel 2005 la NED avrebbe finanziato con 2,4 milioni di dollari organizzazioni attive in Europa che militano per un cambiamento di regime a Cuba. L’USAID (United States Agency for International Development), che dipende direttamente dal governo degli Stati Uniti, ha versato dal 1996 più di 65 milioni di dollari a gruppi anticubani basati principalmente in Florida. Nel maggio 2004, l’amministrazione Bush ha deciso la creazione di un fondo supplementare di 80 milioni di dollari da destinare all’aiuto a questi stessi gruppi. Organizzazioni paramilitari ostili al regime cubano, tra cui Alpha 66 e Omega 7, hanno base in Florida, dove possiedono campi di esercitazione e da dove inviano regolarmente commandos incaricati di commettere sabotaggi e attacchi armati. Cuba infatti nei passati quarant’anni è stata uno dei paesi del mondo che ha più sofferto del terrorismo, con un alto tasso di vittime per attentati (quasi 3500 morti e 2000 invalidi permanenti). A disprezzo della sovranità di Cuba e considerando l’isola come un «affare interno», Washington ha nominato nel 2005 un coordinatore per la transizione a Cuba. Il 10 luglio 2006, un rapporto della Commission for Assistance to a Free Cuba, copresieduta dal segretario di Stato Condoleezza Rice e dal segretario al Commercio Carlos Gutierrez, ha dichiarato di voler fare in modo che «la strategia di successione del regime di Castro non vada a buon fine». Fissando l’ammontare degli aiuti statunitensi agli alleati all’interno dell’isola a 62,8 milioni di euro, il documento precisa che la somma sarà distribuita direttamente «ai dissidenti», che verranno addestrati e riceveranno equipaggiamento e materiale. Si tratta di un’evidente ingerenza da parte di una grande potenza per destabilizzare un paese straniero. Come ha sottolineato il presidente del Parlamento cubano Ricardo Alarcón: «Finché sopravvivrà questa linea politica, ci saranno dei Cubani che cospirano con gli Americani e accettano il loro denaro. Non conosco paese dove questa attività non venga considerata criminale».
Malgrado un tale accanimento da parte americana e i circa 600 tentativi di assassinio ai danni di Fidel Castro, Cuba non ha mai risposto con la violenza. Dal 1960, non si è registrato negli Stati Uniti neanche un atto violento ascrivibile al governo dell’Avana. Al contrario, l’indomani degli attentati dell’11 settembre 2001, Fidel Castro ha dichiarato: «Il loro comportamento verso di noi non sminuisce affatto il dolore profondo che proviamo per le vittime degli attacchi terroristici. Abbiamo più volte dichiarato che, malgrado le visioni discordi tra noi e il governo di Washington, nessuno muoverebbe mai da Cuba un attentato contro gli Stati Uniti». E ha aggiunto: «Metterei la mano sul fuoco, che non c’è nei miei discorsi una singola frase di astio nei confronti del popolo americano. Non saremmo che dei volgari fanatici se considerassimo il popolo responsabile dei contrasti tra i due governi».
Dissidenza e indici di sviluppo umano
In reazione alle costanti aggressioni dall’esterno, le autorità cubane hanno sempre preteso un’unione totale all’interno del paese. Hanno conservato il principio del partito unico e sanzionato severamente le divergenze di opinione, applicando a loro modo l’antico motto di Ignazio di Loyola: «in una fortezza assediata, ogni dissidenza è tradimento».
Per questo motivo i recenti rapporti di Amnesty International criticano il comportamento del governo cubano in materia di libertà (di associazione, di opinione, di movimento) e ricordano come a Cuba diverse decine di prigionieri d’opinione sono ancora in carcere. Qualunque ne sia la causa, questi arresti non sono giustificabili. Così come non si giustifica il mantenimento della pena di morte, ormai abolita nella quasi totalità dei paesi civilizzati. Nessun democratico accetterebbe, per nessun motivo, la detenzione per reati di opinione non violenti né il mantenimento della pena capitale. I rapporti critici di Amnesty International, tuttavia, non segnalano nessun caso di torture fisiche, di sequestri, di assassini di giornalisti, di omicidi politici o di manifestazioni represse dalla forza pubblica (dal 1959 in effetti non c’è stata nessuna sommossa popolare). Gli stessi rapporti evidenziano invece come in molti Stati dell’area, meno considerati dai grandi media, come Guatemala, Honduras, El Salvador, Repubblica Dominicana, Messico, per non parlare della Colombia, donne, sindacalisti, oppositori, giornalisti, preti, magistrati, sindaci, dirigenti della società civile continuano a essere assassinati. A questo si aggiungono, in questi paesi come nella gran parte degli Stati poveri del mondo, la violazione costante dei diritti economici, sociali e culturali di milioni di persone, l’altissima mortalità infantile, la bassa aspettativa di vita, l’analfabetismo, la disoccupazione, l’esclusione di molti dal sistema sanitario, il problema dei senza tetto, dei mendicanti, dei bambini di strada, delle bidonvilles, la droga, la criminalità e la delinquenza di ogni tipo, fenomeni questi praticamente sconosciuti a Cuba. Di fatto Cuba ha ottenuto dei risultati eccezionali in termini di sviluppo umano: abolizione del razzismo, emancipazione della donna, riduzione dell’analfabetismo, della mortalità infantile, innalzamento del livello culturale generale. Nel campo dell’educazione, della sanità, della ricerca medica e dello sport, ha conseguito standard che molti paesi sviluppati le possono invidiare.
Inesistente è inoltre il culto ufficiale della personalità. Anche se le immagini di Fidel e Raúl Castro sono molto presenti nella stampa, alla televisione e nei manifesti affissi in strada, non esiste nessun loro ritratto ufficiale, né statua, né moneta, né strada, edificio o monumento che porti il nome di Fidel, Raúl, né di nessun altro dei dirigenti della rivoluzione ancora viventi.
A sinistra della sinistra
La diplomazia cubana è una delle più attive al mondo. L’Avana, negli anni 1960 e 1970, ha sostenuto la guerriglia in molti paesi dell’America Centrale (El Salvador, Guatemala, Nicaragua) e Meridionale (Colombia, Venezuela, Bolivia, Argentina). Le sue Forze Armate hanno partecipato a campagne in tutto il mondo, anche di grande ampiezza, in particolare alle guerre in Etiopia e in Angola. L’intervento cubano, risoltosi nella disfatta delle divisioni scelte della Repubblica Sudafricana, ha sicuramente accelerato il processo di indipendenza della Namibia e la caduta del regime razzista dell’apartheid e permesso la liberazione di Nelson Mandela, il quale non perde occasione per ricordare la sua amicizia con Fidel Castro e il debito nei confronti della rivoluzione cubana. Negli anni 1980, Cuba ha guidato il fronte dei non allineati e condotto un’intensa campagna per la cancellazione del debito dei paesi latino-americani. Dopo il crollo del regime socialista in Europa e la fine dell’Unione Sovietica nel 1991, la rivoluzione cubana ha conosciuto anni difficili, ma è riuscita a sopravvivere, con sorpresa dei suoi avversari. Da allora, per la prima volta nella sua storia, Cuba non dipende più da nessun impero, né Spagna, né Stati Uniti, né URSS. Ha intrapreso una nuova strada politica, a sinistra della sinistra internazionale, guidando la vasta offensiva contro il neoliberismo e la mondializzazione economica.
In questo nuovo contesto geopolitico, la rivoluzione cubana rimane, grazie ai suoi successi e malgrado le sue pur gravi carenze (difficoltà economiche, penuria alimentare, grandi incompetenze burocratiche, piccola corruzione generalizzata, vita quotidiana dura, razionamenti, restrizione di alcune libertà), un riferimento importante per molti paesi in via di sviluppo. In molte parti del mondo uomini e donne lottano e muoiono per ottenere alcuni dei diritti acquisiti del modello cubano.
Questo è particolarmente vero in America Latina, dove la solidarietà con Cuba e la stima per la figura di Fidel Castro sono particolarmente forti. Dopo la vittoria di Hugo Chávez in Venezuela nel 1998, consultazioni democratiche hanno portato all’elezione o rielezione dei candidati di sinistra in molti Stati: Néstor Kirchner e Cristina Fernández de Kirchner in Argentina, Ignacio Lula da Silva in Brasile, Tabaré Vasquez in Uruguay, René Préval a Haiti, Michelle Bachelet in Cile, Evo Morales in Bolivia, Daniel Ortega in Nicaragua, Rafael Correa in Ecuador e Fernando Lugo in Paraguay. Questa situazione è del tutto nuova in America Latina, dove fino a poco tempo fa colpi di Stato militari (il più recente, quello dell’aprile 2002 contro Chávez) o l’intervento militare diretto degli Stati Uniti (l’ultimo contro il presidente Manuel Noriega a Panama nel 1989) avevano posto fine a ogni progetto di riforma economica e sociale, pur auspicato dagli elettori locali. In quel contesto geopolitico, la sola esperienza di sinistra che è riuscita a sopravvivere è stata quella cubana. Il prezzo è stato alto. Le pressioni l’hanno costretta a irrigidirsi più del necessario e, per sfuggire all’isolamento politico ed economico propiziato dagli Stati Uniti, a privilegiare per più di vent’anni un’innaturale alleanza con la lontana Unione Sovietica, la cui improvvisa sparizione, nel 1991, ha portato a grandi difficoltà. Che cosa è cambiato adesso? Sicuramente, a partire dalla Guerra del Golfo del 1991, gli Stati Uniti hanno spostato le loro attenzioni verso il Medio Oriente, dove si trovano i principali nemici attuali (Al Qaida, i Talebani, l’Iran). Questo cambio di prospettive ha senz’altro favorito la fioritura, in America Latina, delle molte esperienze politiche di sinistra e ha evitato che queste venissero soffocate sul nascere. Una grande occasione per L’Avana, che ha visto aumentare il numero dei suoi alleati nel continente (Venezuela, Brasile, Argentina, Uruguay, Bolivia, Ecuador, Nicaragua, Paraguay), con i quali ha moltiplicato gli accordi politici, economici e commerciali.
Una fase di transizione
È in questo nuovo scenario geopolitico e geoeconomico che Fidel Castro ha provvisoriamente rassegnato le dimissioni, il 31 luglio 2006. Da allora, e ancor più dall’elezione di Raúl alla presidenza, il 24 febbraio 2008, gli analisti continuano a domandarsi se il paese si trovi o meno in una fase di transizione politica. I cambiamenti sono di certo inevitabili perché nessuno, tra i politici cubani, gode di un’autorità pari a quella conferita a Fidel Castro dalle quattro facce della sua personalità: il teorico della rivoluzione, il capo militare vittorioso, il fondatore dello Stato e lo stratega, per più di 50 anni, della politica cubana.
Alcuni avevano predetto un rapido crollo del sistema politico cubano, simile a quello avvenuto nell’Europa dell’Est dopo la caduta del muro di Berlino nel novembre 1989. Si sono sbagliati, cadendo vittime del medesimo abbaglio dei neoconservatori americani, convinti che tutti i regimi autoritari non siano che una facciata vuota, pronta a disfarsi al primo colpo. È poco probabile che si assisterà a Cuba a una transizione simile a quella avvenuta nell’Europa dell’Est, dove un sistema autoritario imposto dall’esterno e rifiutato da gran parte della popolazione si è dissolto rapidamente. La maggior parte dei Cubani non auspica affatto un cambiamento radicale di rotta. Non vogliono perdere molti dei vantaggi che il socialismo offre loro: educazione anche superiore, sistema sanitario e alloggio gratuiti, impiego sicuro, forniture di acqua, elettricità e telefono a basso costo, un’esistenza sicura in un paese pacifico e con poca delinquenza.
C’è da chiedersi semmai se Raúl Castro e la sua squadra stiano apportando modifiche sostanziali alla linea della rivoluzione cubana. Essi hanno posto l’accento su tre priorità maggiori: alimentazione, trasporti e habitat, tre ambiti nei quali le carenze e i malfunzionamenti strutturali danno luogo a un malcontento permanente e diffuso nella popolazione. Raúl mira ad apportare soluzioni concrete a problemi precisi. Nei tre settori, si possono già constatare dei progressi. È stato lanciato un dibattito generale, al quale ha partecipato più di un milione di Cubani, sulla maniera di rendere più efficace l’economia e di lottare contro l’assenteismo e le falle burocratiche. Sono state avanzate critiche a dirigenti e istituzioni dello Stato socialista. Da questo dibattito, secondo molti osservatori, è scaturita un’agenda di riforme auspicate dai Cubani, che Raúl ha cominciato a mettere in opera. Alcune misure sono gia state adottate. I trasporti pubblici, per esempio, sono stati incrementati fortemente, con l’importazione di centinaia di autobus dalla Cina. Centrale è il tema dell’agricoltura. L’indipendenza alimentare è una conquista politica fondamentale, senza di essa non c’è sovranità possibile. Cuba importa circa l’80% delle derrate alimentari consumate. Nel 2007 il paese ha speso circa 1,6 miliardi di dollari per l’importazione dei generi alimentari, somma che nel 2008 si innalzerà a 1,9 miliardi di dollari a causa dell’impennata dei prezzi sul mercato internazionale. Questa spesa è tanto più ingiustificabile se si pensa che sull’isola più della metà delle terre fertili è incolta e improduttiva. Raúl ha dunque lanciato il motto: «La terra a chi la valorizza e produce per il bene di tutti». Questa è la priorità: le terre andranno distribuite tra coloro che ne faranno domanda, con il solo obbligo di produrre, contribuendo all’indipendenza alimentare dell’isola. Altre misure in diversi campi, da tempo invocate dalla popolazione e naturali per i paesi più avanzati, sono state prese: ogni cittadino cubano che ne abbia i mezzi può adesso alloggiare negli alberghi, prima riservati agli stranieri. Sono in vendita libera lettori DVD, computer, forni a microonde, moto e telefoni cellulari. Presto, i Cubani potranno vendere e acquistare anche le auto e gli alloggi. Il visto, ora indispensabile a varcare la frontiera, è destinato a essere abolito. Si snelliranno molte procedure amministrative complicate da un’eccessiva burocratizzazione. L’amministrazione dello Stato ne sarà alleggerita, ci saranno meno ministeri, meno ostacoli, per rendere la vita dei Cubani più libera e semplice. Non c’è alcun dubbio che il socialismo cubano sia in evoluzione. Lo farà alla maniera della Cina o del Vietnam? I dirigenti cubani hanno studiato a fondo l’esempio di questi due paesi, traendone probabilmente un’ispirazione. Ma Cuba seguirà la sua propria strada. Si continuerà ad attuare riforme sul piano economico, ma non assisteremo probabilmente a nessuna perestroika cubana, né ad aperture politiche, né a elezioni multipartitiche. Le autorità sono convinte che questo genere di transizione aprirebbe la porta all’ingerenza americana e a forme più o meno palesi di annessione. Considerano il socialismo, anche se perfettibile, la scelta migliore. A breve e medio termine, l’obiettivo primario sarà senz’altro mantenere la coesione sociale.
La sfida più difficile che attende gli eredi di Fidel Castro è quella delle relazioni con gli Stati Uniti. È un capitolo determinante. Raúl Castro ha annunciato pubblicamente di essere pronto a sedersi a un tavolo di trattative con la Casa Bianca, per definire l’insieme degli aspetti del contenzioso tra i due paesi. È proprio dagli Stati Uniti che potrebbe venire un gesto determinante per l’evoluzione di Cuba. Il candidato democratico alla presidenza Barack Obama – che nel 2003 da candidato al Senato aveva fatto pressioni per cancellare l’embargo e reclamato la riduzione delle restrizioni a viaggiare e inviare fondi a Cuba – ha annunciato l’intenzione di intraprendere il dialogo con tutti i paesi considerati ‘nemici’ o ‘avversari’ dell’America. Il 22 febbraio 2008, ha reclamato la necessità di una transition negli Stati Uniti sulla questione cubana, dichiarando che se ci sono i segni di un cambiamento «gli Stati Uniti devono essere pronti ad avanzare verso la normalizzazione dei rapporti e l’addolcimento dell’embargo». Sarebbe una rivoluzione copernicana per la politica estera degli Stati Uniti dopo il 1961. Le elezioni americane del novembre 2008 potrebbero dunque modificare il clima delle relazioni tra i due paesi. Se il nuovo presidente decidesse di porre fine all’embargo, risponderebbe alle speranze attuali dei Cubani insediati negli Stati Uniti, come testimonia un sondaggio dell’Università internazionale della Florida, secondo cui il 65% dei cubano-americani è favorevole al dialogo politico con L’Avana. La fine del mandato di Bush dovrebbe indurre la Casa Bianca – alla luce delle dure lezioni dell’Iraq e del Medio Oriente – a rivedere la propria politica estera e senz’altro a reinvestirsi in America Latina. Gli Stati Uniti scopriranno qui una situazione drasticamente diversa da quella alla quale avevano lavorato dagli anni 1960 ai 1990. Cuba non è più isolata. In politica internazionale, il governo cubano è convinto della necessità di intrattenere buone relazioni diplomatiche con tutti i paesi, qualsiasi siano la natura dei loro regimi e il loro orientamento politico. I Cubani hanno rinforzato molto, come si è detto, i legami con la totalità degli Stati latino-americani. Hanno particolarmente intensificato gli scambi con i paesi dell’organizzazione economica e politica ALBA (ALternativa Bolivariana para la América) e siglato accordi di scambio economico con gli Stati del Mercosur. Per la prima volta L’Avana ha dei veri sostenitori al potere, in Venezuela ma anche in Brasile, Argentina, Uruguay, Nicaragua, Panama, Haiti, Ecuador, Bolivia e Paraguay. Alcuni dei governi di questi paesi non sono particolarmente filo-americani; sarà dunque interesse di Washington ridefinire i rapporti con ciascuno di essi, rapporti che non potranno essere neocolonialisti né basati sullo sfruttamento, ma fondati sul mutuo rispetto. L’evoluzione interna di Cuba dipenderà largamente dall’atteggiamento che il prossimo presidente degli Stati Uniti adotterà nei confronti dell’isola.
repertorio
Dalla conquista spagnola a Castro
La colonia spagnola
Nel corso del suo primo viaggio nel Nuovo Mondo, il 28 ottobre 1492 Cristoforo Colombo sbarcò a Cuba, percorrendone la costa verso nord-ovest. Incerto se fosse approdato a Cipango (Giappone) o al vero e proprio continente asiatico, mandò un’ambasceria nell’interno alla ricerca del Gran Khan; la missione penetrò per 12 leghe entro terra, ben accolta dai nativi, senza trovare però né l’oro né le grandi città che si sperava di scoprire. Tornato nell’isola durante il secondo viaggio (1494) Colombo ne percorse la costa meridionale, abbandonandola poco dopo per non farvi più ritorno. Forse già Colombo ebbe conoscenza della forma insulare di Cuba, da lui battezzata Juana in onore dell’erede al trono di Spagna, ma la prima circumnavigazione fu compiuta solo nel 1508 da Sebastiano de Ocampo. La colonizzazione seguì rapida a opera di Diego Velasquez che, partito da Hispaniola (Santo Domingo) con 300 volontari, tra i quali il futuro conquistatore del Messico Hernán Cortés, s’impadronì dell’isola nel 1511. Le popolazioni locali, costituite dai Ciboney, stanziati nella parte occidentale dell’isola, e dal gruppo più consistente e più diffuso dei Taino, appartenenti alla famiglia etno-linguistica aruaca, non si opposero sistematicamente all’invasione, se si eccettua il tentativo capeggiato dal cacicco Hatuey, che in fuga da Santo Domingo conquistata dagli Spagnoli si era rifugiato a Cuba. Catturato, bruciato sul rogo, anche per aver rifiutato di convertirsi al cristianesimo, Hatuey divenne il simbolo della resistenza antispagnola. Le limitate risorse minerarie, specie di oro e argento, scoraggiarono in un primo tempo consistenti insediamenti di coloni. L’isola fu utilizzata soprattutto come base di spedizioni per l’esplorazione e l’occupazione dello Yucatan, della Florida e della costa del Golfo. Come tutto il nuovo continente conquistato dalle armi spagnole, l’isola apparteneva di pieno diritto al patrimonio della corona e l’opera di colonizzazione fu organizzata in origine secondo il sistema dell’encomienda, un’istituzione adottata in Spagna fin dal Medioevo nei territori riconquistati ai Mori. In base a questo sistema gli abitanti di un villaggio, o gruppo di villaggi, venivano affidati a un colono spagnolo (encomendero) cui spettava il compito di proteggerli e provvedere alla loro cristianizzazione. Gli encomenderos, nella maggior parte dei casi militari che avevano partecipato alla conquista, erano autorizzati a riscuotere dagli indigeni a loro sottoposti tributi in natura o in forma di lavoro obbligatorio non retribuito; la concessione dell’encomienda non comportava comunque la cessione di terre da parte della corona, e, giuridicamente, gli indigeni rimanevano uomini liberi. Nonostante le leggi emanate dalla corona a difesa degli indigeni e per riportare l’encomienda al suo originario intento di cristianizzazione, a Cuba, come in tutto il resto del Nuovo Mondo in cui fu adottata, il diritto degli encomenderos alle prestazioni di lavoro degli indigeni degenerò in clamorosi episodi di maltrattamento, torture e riduzione in schiavitù, della cui denuncia il domenicano Bartolomé de Las Casas si fece portavoce presso Carlo V. Gli indigeni che sopravvissero alle malversazioni e alle malattie epidemiche introdotte nell’isola dai conquistatori cercarono rifugio nelle zone montagnose e più impervie. Alla metà del 16° secolo la popolazione indigena, che al momento della conquista era di circa 500.000 individui, si era ridotta a 5000, circostanza che ebbe conseguenze anche sul piano economico, segnando il fallimento dell’encomienda.
La mancanza di manodopera fu superata mediante l’importazione di schiavi neri dall’Africa da impiegare nelle prime piantagioni di tabacco e di canna da zucchero impiantate dai coloni. Ma per i primi due secoli dopo la conquista Cuba, costituita in governatorato nell’ambito del vicereame della Nuova Spagna, mantenne un’importanza economica relativamente modesta, mentre di gran lunga più rilevante era il suo ruolo strategico e commerciale, come ‘porta delle Antille’ e scalo nei traffici tra la madre patria e il Nuovo Mondo; di qui le frequenti incursioni dei corsari, soprattutto francesi, fino alla fine del Seicento, e l’ingente commercio di contrabbando, più o meno tollerato dalle autorità di Madrid. I pirati, che avevano le loro basi lungo le coste dell’isola, poterono essere allontanati definitivamente grazie al trattato concluso nel 1697 tra Francia, Spagna e Inghilterra. Dalla seconda metà del 18° secolo l’attività commerciale, tradizionalmente fondata sulla coltivazione della canna da zucchero e del tabacco, sull’allevamento brado e sullo sfruttamento delle foreste, si andò sviluppando grazie soprattutto a una crescita delle esportazioni dello zucchero. Il forte impulso in questa direzione fu una delle conseguenze dell’occupazione britannica dell’isola avvenuta durante la Guerra dei Sette anni e protrattasi dall’agosto 1762 fino al luglio dell’anno successivo, quando i Britannici se ne andarono avendo ottenuto in cambio, nella pace di Versailles, la cessione della Florida. L’occupazione valse ad aprire a nuove reti commerciali un’economia fino allora chiusa dalle restrittive leggi spagnole, mentre anche la produzione si avvantaggiava grazie agli innovativi metodi di lavorazione della canna sperimentati nelle colonie inglesi delle Barbados. L’espansione della coltura della canna da zucchero si accompagnò a un forte aumento della popolazione. Tra la metà del Settecento e la metà dell’Ottocento la popolazione cubana quasi decuplicò, passando da meno di 150.000 a più di un milione e 300.000 abitanti, grazie all’accentuato flusso migratorio dalla madrepatria e soprattutto all’ingente importazione di schiavi. Alla metà dell’Ottocento il numero degli schiavi ammontava a 400.000 unità e nel corso del secolo Cuba importò più di 600.000 africani. La crescita della manodopera servile andò di pari passo con l’espansione delle piantagioni e la progressiva riduzione delle aree forestali. Grazie anche alla crescente meccanizzazione dei processi di lavorazione, alla metà dell’Ottocento la produzione cubana di zucchero copriva un terzo di quella mondiale e forniva l’83% delle esportazioni dell’isola. Nel 1865 la tratta degli schiavi ebbe fine; il rifornimento di mano d’opera fu allora affidato all’immigrazione dal Messico, dall’India e dalla Cina. Sul piano sociale, l’enorme sviluppo dell’economia dello zucchero ebbe come conseguenza la progressiva affermazione di una ristretta classe di proprietari terrieri e di proprietari di schiavi; sul piano politico, l’inefficienza e la corruzione del sistema amministrativo spagnolo provocarono frizioni tra la colonia e la madrepatria, mentre cresceva l’interesse per l’isola da parte degli Stati Uniti, il principale partner commerciale di Cuba.
L’indipendenza
A partire dai primi decenni dell’Ottocento, lo sviluppo del movimento indipendentista si intrecciò con le spinte, tra loro contrastanti, delle diverse componenti della popolazione cubana. Nel periodo tra il 1850 e il 1868 vi furono continue lotte fra il partito conservatore, che si componeva soprattutto di Spagnoli e si opponeva all’indipendenza, e il partito riformista, specialmente reclutato tra i creoli. Per di più l’oligarchia creola avversava le istanze di liberazione degli schiavi, temendo l’avvento di una repubblica di neri, come era accaduto nella vicina Haiti, e una parte di essa aspirava a un’annessione di Cuba agli Stati Uniti, cercando di indirizzare in tal senso la lotta contro la Spagna. Gli Stati Uniti, d’altro canto, erano interessati ad acquisire il controllo dell’isola e, dopo aver tentato più volte, fin dal 1825, di acquistarla da Madrid, interferirono apertamente nel processo indipendentista. La mancata risposta della Spagna alle richieste di autonomia dei Cubani, nel momento in cui crescevano le tasse imposte dalla madrepatria, portò nel 1868 alla prima insurrezione per l’indipendenza, detta per la sua durata ‘guerra dei dieci anni’. Le contraddizioni interne al movimento nazionalista, diviso fra autonomisti, indipendentisti e sostenitori dell’annessione agli Stati Uniti, portarono all’esaurimento della prima sollevazione antispagnola, che si concluse con l’arrivo da Madrid di un nuovo governatore, il quale promise l’amnistia politica ai ribelli, riforme del sistema politico ed economico e la graduale abolizione della schiavitù. Una nuova rivolta, detta ‘piccola guerra’ (1879-80), fu repressa senza difficoltà. La schiavitù fu abolita nel 1886, e nel 1893 fu proclamata l’uguaglianza civile tra bianchi e neri; la Spagna concesse a Cuba la rappresentanza nelle Cortes, ma la sua composizione fu sempre dominata da coloni spagnoli; le altre riforme che erano state promesse non furono mantenute. Nel 1894 la Spagna cancellò il patto doganale tra Cuba e gli Stati Uniti, che si era dimostrato assai vantaggioso per l’isola, e la misura incise negativamente su un’economia già provata dall’aumento delle tasse e dall’imposizione di nuovi dazi sulle merci cubane in partenza per la madrepatria. Il malcontento sfociò nella ripresa del movimento insurrezionale, presto trasformatosi in guerra d’indipendenza. Alla guida degli insorti si posero i protagonisti della rivolta del 1879, tra i quali spicca la figura di José Martí, scrittore e patriota che si era rifugiato negli Stati Uniti dove aveva fondato il Partido revolucionario cubano e il suo organo di stampa Patria. A un mese dallo sbarco nell’isola, Martí morì in battaglia nel maggio 1895. Dopo aver preso il controllo della parte orientale dell’isola, adottando tattiche di guerriglia, i rivoltosi proclamarono la Repubblica. In risposta la Spagna inviò ingenti truppe e inasprì l’azione repressiva, nella quale si distinse il generale Valeriano Weyler, noto col sopranome di el carnicero («il macellaio»). Per impedire aiuti ai rivoltosi da parte della popolazione civile, Weyler procedette a rinchiudere centinaia di migliaia di Cubani in campi di concentramento, dove molti morirono di fame e di malattie. La dura azione repressiva della Spagna suscitò grande indignazione, che fu sfruttata negli Stati Uniti da quanti desideravano l’annessione di Cuba. Il 15 febbraio 1898 l’esplosione, per cause rimaste misteriose, della corazzata Maine, ancorata nel porto dell’Avana, fornì il pretesto al governo di Washington per presentare un ultimatum con cui si chiedevano a Madrid la rinunzia ai diritti su Cuba e lo sgombero dell’isola. La breve guerra che ne seguì si concluse con la completa distruzione della flotta spagnola; con il trattato di Parigi (10 dicembre 1898) la Spagna rinunciò a Cuba, accettando che l’isola fosse occupata dagli Stati Uniti. L’occupazione militare si protrasse per circa tre anni, durante i quali un’assemblea costituente elaborò una costituzione ispirata al modello americano e nella quale Washington fece inserire il cosiddetto ‘emendamento Platt’ (dal nome del senatore Orville H. Platt), che istituiva una sorta di protettorato sull’isola: agli Stati Uniti erano riconosciuti il diritto di intervento nell’isola e la possibilità di installarvi basi, mentre a Cuba si ponevano limitazioni nella politica estera. Dopo il ritiro delle truppe americane, la nuova Repubblica di Cuba, proclamata il 20 maggio 1902, stipulò con Washington un trattato che recepiva le disposizioni dell’emendamento Platt e nel 1903 gli Stati Uniti stabilivano l’importante base navale di Guantánamo, assumendo il pieno controllo dell’omonima baia dietro il pagamento di un affitto simbolico al governo dell’Avana.
Dalla Repubblica alla dittatura di Batista
I primi decenni dopo l’indipendenza furono caratterizzati da una notevole instabilità politica, sia per i ricorrenti conflitti fra i diversi gruppi dell’oligarchia dominante, spesso in occasione delle elezioni presidenziali, sia per i moti di protesta sociale delle classi subalterne, come accadde per esempio con la rivolta nera del 1912, duramente repressa. In conformità con l’emendamento Platt, si ripeterono gli interventi di Washington, a partire dalla nuova occupazione militare del 1906-09, mentre lo sviluppo dell’economia cubana proseguiva lungo le direttrici, già delineatesi nel secolo precedente, di centralità dell’industria dello zucchero e di crescenti legami con gli Stati Uniti, in termini sia di dipendenza commerciale sia di penetrazione del capitale americano nell’isola.
La depressione degli anni 1930 ebbe gravi ripercussioni a Cuba e fu accompagnata da una serie di agitazioni e rivolte che segnarono la crisi del sistema politico inaugurato nel 1902. Nel 1933 un sergente che aveva acquistato un notevole seguito tra i militari, Fulgencio Batista, guidò la ribellione contro il presidente Carlos Manuel de Céspedes e assunse il controllo del paese come comandante supremo dell’esercito. L’ascesa al potere di Batista fu anche la conseguenza della crescita delle istanze nazionaliste tra i quadri inferiori dell’esercito; questa trovò riscontro nel nuovo trattato tra Cuba e gli Stati Uniti del maggio 1934, che abrogava l’emendamento Platt. Batista, d’altra parte, che aveva ottenuto l’appoggio di Washington per contrapporsi alle tendenze più radicali presenti nel moto del 1933, riconfermò i tradizionali rapporti con gli Stati Uniti e lo stesso trattato del 1934 riproponeva i termini dell’accordo del 1903 sulla base di Guantánamo.
Sul piano interno, l’autoritarismo di Batista, che fino al 1939 impose il proprio potere a una serie di presidenti puramente nominali, si accompagnò a una politica di modernizzazione del paese. Mentre arricchiva sé stesso, Batista promuoveva lo sviluppo dell’economia, sostenendo anche vasti programmi di lavori pubblici e favorendo l’estensione del sistema educativo. La tendenza modernizzatrice si accentuò dopo il ritorno alla legalità costituzionale nel 1940. La nuova Costituzione, seguita dall’elezione di Batista alla presidenza della Repubblica (1940-44), consentì un certo sviluppo della vita democratica, mentre cresceva l’influenza del partito comunista (dal 1943 Partido socialista popular, PSP) e delle organizzazioni sindacali. I problemi economici e politici del dopoguerra misero tuttavia in gravi difficoltà le due successive amministrazioni di Ramón Grau San Martín (1944-48) e Carlos Prío Socarrá (1948-52), screditate per giunta da numerosi episodi di corruzione. Nel marzo 1952 un colpo di Stato militare riportava al potere Batista che, nel 1944, allo scadere del mandato presidenziale, si era allontanato da Cuba e aveva risieduto per qualche tempo in Florida, dove aveva investito parte delle ricchezze accumulate. Nella condizione di caos in cui era precipitata l’isola il ritorno di Batista non fu visto sfavorevolmente, ma il regime cui dette vita si manifestò subito come una brutale dittatura. Il controllo sulla stampa, l’università e il congresso, la dura repressione degli oppositori si accompagnarono a una politica di rigida conservazione sociale e di stretto allineamento agli Stati Uniti. Verso la fine degli anni 1950 sembrava essersi ancor più approfondita la divaricazione fra l’oligarchia dominante, in gran parte legata al capitale straniero (circa il 75% della terra coltivabile era in mano a gruppi stranieri), e le masse popolari, soprattutto contadine.
La rivoluzione e l’organizzazione del nuovo Stato
Fidel Castro era fra coloro che si sarebbero candidati alle elezioni parlamentari del 1952, se non fossero state cancellate dal colpo di Stato di Batista. Nato nel 1926, si era avvicinato alla politica durante gli studi di legge all’Università dell’Avana e nel 1947 aveva aderito al cosiddetto Partido ortodoxo, il Partido del pueblo cubano allora fondato per reazione alla dilagante corruzione e all’assenza di riforme. Avvocato, denunciò Batista in tribunale per violazione della Costituzione, ma la denuncia venne rifiutata. Deciso a combattere la dittatura, a capo di un piccolo gruppo di insorti il 26 luglio 1953 Castro guidò l’attacco alla caserma Moncada di Santiago de Cuba. L’attacco fallì; Castro fu catturato e processato; in aula pronunciò un discorso (pubblicato con il titolo La storia mi assolverà) di aperta denuncia del carattere anticostituzionale e repressivo del governo Batista e delle sue pratiche corrotte; condannato a 15 anni di carcere, fu amnistiato nel 1955. In Messico, dove si era rifugiato, fondò, insieme con il fratello Raúl e il medico argentino Ernesto (Che) Guevara, il Movimiento 26 de julio (data dell’assalto alla Moncada), ispirato alla figura di José Martí e finalizzato a suscitare la rivoluzione nell’isola secondo il modello delle insurrezioni antispagnole. Il gruppo guidato da Castro, formato da poche decine di uomini imbarcati sul battello Granma, approdò a Cuba nel dicembre 1956. Subite gravissime perdite al primo attacco, i superstiti raggiunsero la Sierra Madre da dove cominciarono a organizzare azioni di guerriglia contro l’esercito di Batista, riuscendo ben presto a conquistarsi un ampio sostegno popolare, soprattutto nelle campagne. L’8 gennaio 1959 Castro fece il suo ingresso all’Avana; sconfitto, pochi giorni prima Batista aveva lasciato l’isola.
Sciolte le istituzioni del passato regime, sospesa la costituzione del 1940 e varata nel febbraio 1959 una Ley fundamental, fu costituito, come organo di governo provvisorio, un Consiglio dei ministri che assunse i pieni poteri. Castro, che aveva l’effettivo controllo del paese in quanto comandante dell’esercito ribelle e leader carismatico della rivoluzione, assunse la carica di primo ministro e avviò una politica di radicali riforme, prima fra tutte quella agraria. La reazione degli Stati Uniti, che vedevano colpiti i propri interessi nell’isola, provocò crescenti contrasti con il governo dell’Avana, che nel 1960 ristabilì le relazioni diplomatiche con l’URSS e varò un ampio programma di nazionalizzazioni, a partire dalle imprese statunitensi. Il rifiuto di Washington di restituire la base di Guantánamo aggravò la situazione e, dopo la rottura delle relazioni diplomatiche tra i due Stati e la fallita invasione della Baia dei Porci (aprile 1961) a opera di esuli cubani appoggiati dalla CIA, il processo rivoluzionario assunse un carattere decisamente socialista, mentre l’embargo decretato nel 1960 dagli Stati Uniti e l’isolamento dal contesto continentale inducevano L’Avana a stabilire rapporti sempre più stretti con l’URSS, dal cui sostegno economico, politico e militare era ormai dipendente. Dopo la crisi internazionale dell’ottobre 1962, provocata dall’installazione di basi missilistiche da parte dei Sovietici, cui Washington rispose con il blocco navale dell’isola, e che si concluse con il ritiro dei missili e l’impegno statunitense a non invadere Cuba, il tentativo da parte di Castro di rompere l’accerchiamento, radicalizzando il processo rivoluzionario e cercando di estenderlo ad altri paesi dell’America Latina, non ebbe successo. Alla morte di Che Guevara in Bolivia (ottobre 1967), che sembrava porre termine alle speranze di una propagazione del castrismo su scala continentale, facevano seguito le serie difficoltà economiche della fine degli anni 1960 e, con l’inizio del nuovo decennio, Cuba dovette riconfermare la propria dipendenza dall’URSS. Contemporaneamente fu avviato un processo di istituzionalizzazione del sistema politico, che dopo il 1959 aveva mantenuto un carattere provvisorio: al potere del Consiglio dei ministri, e in particolare del leader carismatico, faceva riscontro un ampio ricorso alla mobilitazione popolare, mentre un ruolo centrale nella gestione del paese continuava a svolgere l’esercito rivoluzionario. Lo stesso Partito comunista cubano (PCC; nato a partire dal 1961 dalla fusione del Movimiento 26 de julio con il PSP e un altro gruppo minore) era rimasto assai debole, anche per le tradizionali divergenze fra il movimento castrista e la vecchia guardia del PSP (ostile fino al 1958 alla guerriglia contro Batista), che nel corso degli anni 1960 era stata più volte epurata. A partire dal 1970 fu avviata l’effettiva costruzione del partito che aumentò rapidamente i propri iscritti e nel dicembre 1975 tenne il suo primo congresso, adottando statuto e programma e confermando Castro primo segretario. Nel febbraio 1976 un referendum popolare approvò la nuova Costituzione e nell’ottobre successivo furono eletti gli organi di base del Potere popolare, le Assemblee municipali, che a loro volta elessero l’Assemblea nazionale; dopo l’inaugurazione di quest’ultima Castro fu eletto presidente del Consiglio di Stato e del nuovo Consiglio dei ministri, cioè capo dello Stato e del governo. A tali cariche il lider máximo continuò ad affiancare la direzione del PCC e il comando supremo delle Forze Armate.
Sul piano interno, i risultati migliori furono ottenuti nel campo dell’organizzazione sanitaria e della lotta all’analfabetismo, mentre sul piano economico il paese pagava con grandi difficoltà la mancanza di una diversificazione produttiva e la forte dipendenza dall’URSS per le materie prime e i beni alimentari. Sul piano internazionale, nel corso degli anni 1970 e 1980 numerosi paesi latino-americani ristabilirono le relazioni diplomatiche e commerciali con L’Avana, mentre l’invio di truppe in Angola (1975) e in Etiopia (1977), a sostegno dei rispettivi governi, segnava un ampliamento della proiezione internazionale di Cuba, nel quadro dei rafforzati legami con l’URSS, confermato anche dalla presidenza del movimento dei paesi non allineati, che Castro ricoprì negli anni 1979-82 facendosi sostenitore della tesi di una «naturale alleanza» con i paesi socialisti. I rapporti con gli Stati Uniti, che erano sembrati avviarsi verso un processo di disgelo dopo l’elezione di Jimmy Carter alla Casa Bianca, tornarono a farsi tesi a causa delle tensioni crescenti nell’area caraibica e per il protrarsi della presenza cubana in Africa e furono ulteriormente peggiorati dal massiccio esodo di esuli cubani in Florida.
Dal período especial alla visita di papa Giovanni Paolo II
La dissoluzione dell’URSS ebbe conseguenze disastrose per la già debole economia dell’isola caraibica; la mancata applicazione da parte di Mosca degli accordi relativi alle forniture di petrolio siglate nel 1990 creò problemi di approvvigionamento di combustibile con effetti paralizzanti sul sistema dei trasporti e sulle attività industriali. Nuove restrizioni all’erogazione di energia elettrica per usi domestici e ulteriori drastici razionamenti dei generi di prima necessità vennero ad aggiungersi a quelli imposti dal governo a partire dal settembre 1990, quando era stato proclamato l’inizio di un período especial en tiempos de paz. La risposta di Castro all’aggravarsi della crisi si limitò inizialmente a poche riforme di portata alquanto limitata, volte a diversificare un’economia ancora troppo dipendente dalla monocoltura dello zucchero e a inserirla gradualmente nel mercato mondiale, senza però intaccare la natura socialista del regime. Ancora meno significative furono le iniziative assunte dal regime sul piano politico per contenere il crescente malcontento popolare dovuto alla drammatica situazione economica.
Condannato per il mancato rispetto dei diritti dell’uomo da una risoluzione delle Nazioni Unite (marzo 1992), il regime continuò a reprimere ogni forma di dissenso. Il ricorso alla mobilitazione nazionalista e l’appello alla difesa delle conquiste sociali della rivoluzione dalle interferenze straniere rappresentavano tuttavia parole d’ordine ancora in grado di garantire al governo un consenso relativamente elevato. In questo il regime fu aiutato dall’ostinazione di Washington nel mantenere contro l’isola un rigido embargo commerciale, ulteriormente rafforzato a partire dall’ottobre 1992, quando il Congresso statunitense adottò il Cuban democracy act, progetto di legge presentato dal deputato Robert Torricelli che estendeva il divieto di commerciare con l’isola alle imprese estere consociate ad aziende statunitensi. Mentre veniva avviata la ristrutturazione del settore pubblico, nuove riforme economiche furono annunciate dal lider máximo nel luglio 1993: al fine di attrarre valuta pregiata, favorire l’aumento delle rimesse degli emigrati e arginare la diffusione del mercato nero, Castro annunciò la fine del trentennale divieto di detenere valuta estera; successivamente il governo legalizzò la costituzione di imprese individuali per alcune categorie di lavoratori e dispose la trasformazione in cooperative delle fattorie di Stato. Tali aperture economiche favorirono la crescita di ineguaglianze e differenze sociali, senza che le condizioni di vita della maggioranza della popolazione mutassero in misura significativa. A testimonianza del deterioramento del clima sociale stavano inoltre la crescita della disoccupazione, in passato pressoché sconosciuta, e l’assurgere a livelli di emergenza sociale di fenomeni quali prostituzione e criminalità comune. Contemporaneamente un numero sempre maggiore di Cubani si avvicinava alla Chiesa cattolica e alle Chiese evangeliche, oltre che ai già diffusissimi culti di origine africana legati alla Santería.
Indisponibile a qualsiasi ipotesi di riforma del sistema politico, nonostante le pressioni internazionali e quelle esercitate all’interno da organizzazioni di dissidenti, il regime castrista proseguì lungo la strada della liberalizzazione dell’economia con il varo, nel settembre 1995, di una legge sugli investimenti esteri che apriva quasi tutti i settori dell’economia anche alle imprese a capitale totalmente straniero. I timidi segnali di ripresa fatti registrare dall’economia a partire dal 1995 passarono in secondo piano di fronte a un ulteriore rafforzamento dell’embargo. Nel marzo 1996 il Congresso statunitense approvò la cosiddetta legge Helms-Burton, che prevedeva tra l’altro l’imposizione di sanzioni ai paesi che commerciavano con l’isola, ma le reazioni negative suscitate a livello internazionale dal provvedimento indussero il presidente Bill Clinton a differire l’entrata in vigore degli articoli più controversi. Nell’estate dello stesso anno L’Avana fu scossa da una serie di attentati dinamitardi contro alberghi e ritrovi pubblici, finalizzati a minare l’industria turistica, il settore dell’economia cubana in più rapida espansione, e a creare difficoltà in vista dell’imminente visita di Giovanni Paolo II, programmata per il gennaio 1998.
Nei voti del governo cubano il viaggio papale, oltre a migliorare l’immagine del regime, doveva contribuire a spezzare l’isolamento internazionale e a favorire la riconciliazione con gli esuli, grazie anche ai buoni uffici dell’episcopato statunitense, già espressosi contro l’embargo. La mobilitazione del PCC e lo sforzo organizzativo dell’episcopato locale assicurarono un’enorme partecipazione popolare alla visita pontificia (21-25 gennaio 1998), nel corso della quale il papa, oltre a rinnovare la sua condanna dell’embargo statunitense, criticò il governo su temi quali l’aborto e il divorzio, e chiese maggiori libertà per il popolo cubano. Accogliendo parzialmente le richieste di clemenza di Giovanni Paolo II, il governo dispose la scarcerazione di 299 detenuti, una settantina dei quali in carcere per motivi politici; il mese seguente Washington compì un gesto distensivo alleggerendo le sanzioni. Sul piano diplomatico, le conseguenze del viaggio papale non tardarono a farsi sentire. Mentre nell’aprile 1998 la Commissione delle Nazioni Unite sui diritti umani respingeva la risoluzione di condanna di Cuba, nel gennaio successivo ulteriori provvedimenti di Washington confermavano la linea di apertura, culminata nell’ottobre 2000 nella votazione del Senato a favore della sospensione dell’embargo sulla vendita di medicinali e generi alimentari.