CRIMINALITÀ
Il fenomeno criminale in generale. - Il fenomeno della c. e della delinquenza (v. delinquenza, XII, p. 537; App. II, i, p. 765; IV, i, p. 581) in questi ultimi venti anni è andato assumendo caratteristiche particolari (sia per il suo andamento generale, sia per il manifestarsi di specifici incrementi per alcune tipologie di reati), sì da mettere sempre più in evidenza che l'evolversi di tali fenomenologie criminali non rappresenta altro che il correlato dello stato dell'evoluzione e dello sviluppo economico e sociale della società nel suo complesso.
È evidente che la complessità della vita sociale attuale, l'incalzante sviluppo tecnologico, l'introduzione di nuovi modi e stili di vita, sia nelle attività lavorative che nell'impiego del tempo libero, non potevano non dar corpo e forma a nuove, a volte imprevedibili, manifestazioni criminali. Ogni nuova attività umana, ogni nuova tecnologia porta in sé un potenziale di abuso criminale che, prima o poi, fatalmente sarà sfruttato.
E così accanto a condotte cosiddette ''convenzionali'', come quelle a sfondo personale, patrimoniale e sessuale, si vengono a evidenziare fenomeni ''nuovi'', prima rari e isolati, ma ben presto allarmanti per la loro diffusione e per l'introduzione di nuove tecnologie criminali. Tipici i casi della c. mediante computer, la c. connessa alla circolazione stradale, la c. delle grandi imprese, le sofisticazioni alimentari e farmaceutiche, le contaminazioni industriali, i furti di opere d'arte, gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali, con i relativi danni alla persona del lavoratore, la c. connessa alle competizioni sportive. Comportamenti tutti che si discostano tangibilmente dal tradizionale stereotipo criminale, sia in ragione della collocazione sociale prevalente dell'autore, sia in conseguenza dell'atipicità del fatto, nel quale, di frequente, vengono a coesistere aspetti socialmente dannosi ed eticamente riprovati con altri francamente connotati da indubbia utilità sociale e anche da piena liceità (Bequai 1978; Parker 1983; Braithwaite 1984; Sieber 1986; Hills 1987; Clinard 1988; Paradiso 1988; Clinard 1990; Roversi 1991).
Al tempo stesso si registrano variazioni in alcune aree della devianza più tradizionale, quali la c. femminile, legata o meno alla variazione del ruolo sociale della donna, la c. degli anziani (di vasto interesse, dato l'invecchiamento della popolazione, specie nei paesi occidentali), la c. militare, i reati classici contro la proprietà (furti, rapine ed estorsioni) nella loro moderna fenomenologia, la c. di nomadi, zingari e di extra-comunitari, i culti e le sette religiose (che hanno a volte assunto connotazioni criminali o criminogene), la c. connessa alla migrazione o alla condizione di minoranza, e infine la violenza, in tutte le sue estrinsecazioni (fisica, psichica e sessuale) sulle donne, i minori e gli anziani (Ferracuti, Bruno e Giannini 1987-90).
Un discorso a parte meritano poi tutte le forme di crimine organizzato, non certo nuove come fenomenologia, ma gravi e preoccupanti per il loro estendersi e il loro eversivo impatto, economico e politico. Tra queste emergono tutte le manifestazioni relative: alla c. economica (erede della White collar criminality di E. H. Sutherland, 1949); alla c. politica, settore ove le esigenze di politica criminale e le tendenze riformatrici e progressiste dell'organizzazione sociale hanno trovato terreno di scontro fin dai classici scritti di Lombroso su Gli anarchici, 1895 (recentemente ristampati, 1983, a riprova del loro valore storico ed euristico); alla c. organizzata, fenomeno di primaria rilevanza sia criminologica che sociale in Italia e in molti paesi sia sviluppati che emergenti, specialmente nel caso del sequestro di persona a scopo di estorsione, una particolare fenomenologia criminale che ha avuto, e ha tuttora, una preoccupante diffusione, e del traffico di sostanze stupefacenti, che sta assumendo proporzioni decisamente allarmanti. Un cenno particolare va fatto anche al terrorismo che, considerato nella sua prospettiva storica e nella sua attuale diffusione, non è altro che il riemergere di alcune forme di violenza politica presenti in alcune parti del mondo da tempo immemorabile. Detto fenomeno, con il suo impatto sociale destabilizzante (anche se a volte - e l'Italia del dopo-Moro ne è uno degli esempi - può rafforzare la stabilità del governo sotto attacco) in tempi molto recenti sta trasformandosi in una particolare modalità criminosa, il narcoterrorismo, vale a dire il collegamento fra terroristi e trafficanti di droghe, per fini sia di finanziamento che di destabilizzazione (Turk 1982; Ianni 1983; Geis 1988; Bruno 1988; Ferracuti e Bruno 1988; Chinnici e Santino 1989; Bassiouni 1990).
Il fenomeno criminale e delinquenziale in Italia. - Per quanto riguarda la situazione italiana, essa consente di trarre un giudizio sommario, ma comunque indicativo, del rapporto esistente tra evoluzione sociale e c.: sotto l'aspetto meramente quantitativo, infatti, la crescita a ritmi sostenuti della c. dall'inizio degli anni Cinquanta (e soprattutto dall'inizio degli anni Sessanta) viene in buona parte a coincidere con la trasformazione dell'Italia da paese prevalentemente agricolo in paese industriale-agricolo, poi industriale e infine post-industriale.
Nel nostro paese - così come in molti altri - numerosi sono i fenomeni di rilevanza sociale, quali l'espandersi dell'istruzione come fenomeno di massa, il crescere del livello di istruzione generale, i tassi di occupazione e di disoccupazione (soprattutto giovanile), il livello e la distribuzione del reddito, ecc., ai quali si suole tradizionalmente far riferimento per controllare e raffrontare l'andamento del fenomeno criminoso.
In particolare − quale nostra caratteristica peculiare − sono da tener presenti le grandi migrazioni interne nel periodo successivo al secondo conflitto mondiale, che hanno prodotto rilevanti modificazioni nel tessuto sociale e nel patrimonio umano nazionale, con lo spopolamento di intere regioni meridionali, con una diversa dislocazione della popolazione sia in tali regioni che in quelle del centro-nord, nell'ambito di una tendenza verso l'urbanizzazione che sembrava inarrestabile, ma che ha cominciato a mostrare un'inversione di tendenza in base ai dati dell'ultimo censimento della popolazione (1981) rispetto al precedente, con una diversa distribuzione interna degli insediamenti, in base alla composizione per sesso, età, ecc.; il che non poteva non avere ripercussioni − dirette e indirette − oltre che sui livelli di c. in sé, sulla loro concentrazione in determinate ''aree calde'' del nostro paese.
Venendo alla specifica fenomenologia criminale in termini quantitativi e qualitativi vediamo che il furto al 1989 è ancora il principale dei delitti, anche se negli ultimi vent'anni sono aumentati del 50% gli omicidi, sono raddoppiati i sequestri di persona, sono più che triplicate le estorsioni. Imprevedibilmente, invece, sono diminuiti i reati di violenza carnale.
Lo studio comparato della c. anno per anno, regione per regione, città per città, di questi ultimi due decenni offre il seguente quadro: è praticamente aumentato di oltre i 2/3 il quoziente complessivo dei delitti (+70%) raggiungendo il record storico del secolo: i reati denunciati erano più di un milione nel 1970 e sono nel 1989 oltre due milioni. Un aumento progressivo, anche se tendente alla stabilizzazione nel triennio 1987-89. Gli autori, tuttavia, nella stragrande maggioranza restano ignoti: nel 1989 i delitti impuniti sono stati il 69%, l'8% in più rispetto al 1971.
Geograficamente si può rilevare come alla Lombardia e al Lazio spetti il ''consumo'' di reati più alto in assoluto, anche rispetto a regioni a forte allarme sociale come Campania, Calabria, Sicilia e Puglia, per quanto alla Sicilia resti sempre il primato degli omicidi volontari (682 nel 1989), circa il doppio (323) o poco meno (376 e 355) di quelli registrati nelle altre tre regioni. In termini di quozienti regionali il primato della c. nel 1989 spetta al Lazio: 7722 delitti ogni 100.000 abitanti, seguito dalla Puglia (4356), dalla Lombardia (4157). In Sicilia e Campania il numero di delitti complessivo oscilla invece tra i 3500-3600 ogni 100.000 abitanti.
Considerando i dati disaggregati, crimine per crimine, risulta che i soli furti costituiscono più della metà di tutti i delitti, con scarse oscillazioni (59,5% nel 1971; 60,1% nel 1989) e presentano un aumento complessivo pari all'83%. Gli omicidi sono aumentati dell'87,3% e sono ormai più di 2000 l'anno, anche se in termini assoluti hanno presentato un andamento quasi costante nel corso degli anni Ottanta, salvo la sensibilissima ascesa registrata nel 1989. Da notare che dei delitti contro la persona, terza voce in ordine d'importanza quantitativa sul totale della criminalità, la fattispecie sempre più numerosa, ma con una costante diminuzione, è rappresentata dalle lesioni personali colpose, causate per lo più da incidenti nella circolazione stradale (il 49,2% nel 1971; il 43,1% nel 1976; il 43,6% nel 1981; il 30,4% nel 1986; il 24,9% nel 1987; il 24,3% nel 1988; il 22,55% nel 1989). I sequestri di persona hanno subito un incremento dell'82%, anche se l'impennata maggiore risale al 1972-73 (+164,6%). Le violenze carnali, contrariamente a quanto si è portati a credere per la maggiore disponibilità delle donne a denunciare gli stupratori, sono diminuite del 12,2%.
La tesi che fa coincidere il fenomeno della c. con l'urbanizzazione è confortata dal fatto che nelle città ''capoluogo'' i delitti ogni 100.000 abitanti sono pressoché il doppio rispetto alla media nazionale. Negli anni Settanta la lettura attenta dei diagrammi rivela l'impennata del terrorismo (mai menzionato come dato a sé stante) e negli anni Ottanta quello della c. organizzata, messa in evidenza da un nuovo macroscopico crimine, lo spaccio e il consumo di droghe. Un dato impressionante è l'incremento delle rapine che dal 1971 al 1989 sono aumentate del 1405,3%, passando in valori assoluti dalle 3100 circa dei primi anni Settanta a 46.830 nel 1989; per le estorsioni si registra un analogo incremento, anche se non così considerevole, ma tuttavia sempre pari a una variazione percentuale del 239,5% cioè, in valori assoluti, da 1460 nel 1971 a 4957 nel 1989.
Accanto alla prevalenza della c. patrimoniale, non va sottovalutato il fenomeno delle emissioni di assegni a vuoto, che presenta un'incidenza del 13,41%, pari alla quasi totalità dei delitti contro l'economia pubblica, seconda voce in ordine d'importanza quantitativa nella scalizzazione dei fenomeni criminosi.
La fig. 1 illustra in termini percentuali, per vari anni, la composizione e il rapporto quantitativo tra furti, emissione di assegni a vuoto, altri delitti, a partire dall'anno 1971. La fig. 2 presenta − divisi per classe, categoria e singola fattispecie − le fenomenologie criminali più rappresentative. La tabella 1 offre infine i dati assoluti di alcuni delitti più significativi con le relative variazioni percentuali per gli anni 1971 - 1989 (i dati relativi al 1988 e 1989 sono ricavati dalla Relazione sull'amministrazione della giustizia nell'anno 1990, presentata a Roma dal Procuratore generale della repubblica presso la Corte suprema di cassazione, all'inaugurazione dell'anno giudiziario 1991).
Un'ultima puntualizzazione in merito al 1988 e al 1989: i furti sono sempre in aumento e un incremento subiscono anche le violenze carnali (rispettivamente +1,8% e +5,5%), e altrettanto preoccupanti incrementi si registrano nelle rapine (+18,5%), nelle estorsioni (+20,3%), nei sequestri di persona (+27,6%), e negli omicidi (+25,0%).
Benché i risultati possano sembrare poco confortanti, la nascita di nuovi tipi di c., propri delle società industrializzate, non cambia nel suo complesso l'identikit del criminale italiano, che nel corso di questo secolo mantiene alcune caratteristiche costanti. Se infatti si osservano le variazioni percentuali dei quozienti di criminalità ogni 100.000 abitanti, l'aumento complessivo tra il 1901 e il 1987 è pari al 133,6%. Questo aumento tuttavia non è stato continuo e, tranne variazioni occasionali dovute a eventi bellici, si può dire che in realtà i veri mutamenti sono stati di scarso rilievo. È pur sempre l'Italia dei reati contro il patrimonio, anche se l'abigeato è stato sostituito dal furto d'auto; delle cambiali non onorate e degli assegni a vuoto; delle violenze in famiglia; dei delitti contro la moralità e il buoncostume (pur se in regresso rispetto al passato). Gli omicidi continuano, e se non costituivano un dato di rilievo, in questi ultimi anni sono aumentati in maniera preoccupante.
Rispetto ai primi anni del secolo punte più alte di delittuosità si sono registrate nel decennio 1921-30 (1587,9) e nel periodo bellico e post-bellico 1941-50 (1838,8), mentre il vero salto in avanti è di quest'ultimo ventennio. In pochissimi anni, infatti, tra il 1970 e il 1976 si è avuta un'impennata che ha raggiunto la punta più alta proprio nel 1976 (con 3819 denunciati), superata ben presto nell'anno 1987 (con 3845), di oltre 40 unità nel 1988 (con 3888,3) per raggiungere le 3952,2 nel 1989.
Risulta evidente che, finora, sono stati proprio questi gli anni più violenti del secolo, con l'incremento maggiore dato dalle rapine, estorsioni e sequestri (+479%) e dai furti (+445%), delitti da sempre più frequenti, che hanno trascinato verso l'alto il quoziente complessivo della criminalità.
Le fig. 3 e 4 illustrano con grafici la situazione, mentre le tabelle 2 e 3 presentano, per i principali gruppi di delitti, i relativi quozienti per 100.000 abitanti, con le corrispettive medie decennali e le variazioni percentuali.
Per quanto concerne la delinquenza minorile, dalle statistiche pubblicate, che riguardano il triennio 1984-86, risulta un andamento globalmente quasi costante, con una lieve flessione che prosegue una tendenza già presente negli anni immediatamente precedenti.
In particolare i minorenni denunciati negli anni 1984, 1985 e 1986 sono stati rispettivamente 21.603, 20.731 e 20.229; rispetto all'anno immediatamente precedente sono diminuiti del 4,4% nel 1985, e del 2,4% nel 1986. Confrontando tuttavia i dati dei minorenni denunciati con quelli relativi al totale della popolazione minorile, per gli stessi anni considerati e per la stessa fascia d'età, risulta che i giovani devianti oscillano sempre intorno allo 0,6%.
Per quanto attiene alla qualificazione criminosa, risultano decisamente preponderanti i minorenni denunciati per furto (53,2%); seguono, con notevole differenza, quelli denunciati per rapina, estorsione e sequestro di persona (5,6%); per danni a cose, animali e terreni (4,7%); per lesioni personali volontarie (4,4%); e per lesioni personali colpose (3,7%).
Nel settore dello smercio di droga, risulta considerevole l'apporto dei minori nord-africani impiegati come bassa manovalanza dalla c. organizzata. Esponenziale è l'aumento della delinquenza dei minori nomadi, posto che il furto e la piccola rapina sono inseriti nella loro subcultura. Fenomeno in costante e preoccupante aumento, in particolare nel mezzogiorno e nelle grandi aree metropolitane, è quello dei minori che delinquono ancor prima dei 14 anni. Notevole e allarmante è l'emergere di una loro ''autonomia'' delinquenziale costituita da reati, anche gravi, commessi senza il concorso di autori maggiorenni.
Nel triennio successivo, 1987-89, l'andamento della delinquenza giovanile registra l'accentuarsi di quei tre aspetti già delineatisi negli anni precedenti e cioè l'aumento dei reati commessi da infraquattordicenni; la connessione fra microcriminalità minorile e tossicodipendenza; il diffondersi della violenza come strumento di autoaffermazione, come reazione alla violenza altrui impunita o come impiego del tempo libero. In questo periodo si deve però registrare una tendenza delinquenziale decisamente ascensionale e preoccupante: infatti i minori denunciati, nel 1987 pari a 20.386 unità, salgono nel 1988 a 22.862 e nel 1989 a 26.364, con una variazione percentuale del +12,1% nel 1988/87 e del +15,3% nel 1989/88.
Né va sottovalutato l'apporto criminoso degli stranieri, per lo più extra-comunitari, spesso reclutati dalla c. autoctona, che si indirizzano verso lo spaccio di stupefacenti e la prostituzione con il connesso suo sfruttamento; come continua ad essere incisiva la presenza dei nomadi (soprattutto di origine slava) nel settore della c. patrimoniale.
Incidenza criminosa e ricerca criminologica. - Data la portata quantitativa e la gravità delle varie condotte criminali e devianti, sia a livello nazionale che internazionale, la ricerca criminologica, come nel passato e in base ai risultati ottenuti a livello sperimentale, si preoccupa di proporre piani di intervento che possano contenere il fenomeno o, per lo meno, ridurlo in termini socialmente accettabili.
Le analisi criminologiche sono state condotte con prospettive che hanno coinvolto molteplici discipline interessate, andando dagli approcci biologici e psicologici a quelli di orientamento sociologico, culturale e interculturale. Solo recentemente si comincia a riconsiderare l'opportunità di un approccio integrato che cerchi di armonizzare in una ricerca congiunta le diverse discipline che si occupano del fenomeno criminale nei suoi vari aspetti, da quello eziologico a quelli della prevenzione e del trattamento (Ferracuti 1987).
Non a caso il dialogo e il dibattito sulla violenza criminale hanno spesso degenerato in un'accesa controversia dovuta a diversità di convinzioni scientifiche nell'interpretazione dei dati. Basta ricordare come le spiegazioni biologiche siano state periodicamente rifiutate dai sociologi perché troppo deterministiche, come implicanti un insieme di fattori organici che guiderebbero o controllerebbero in modo esclusivo il sorgere e l'andamento del comportamento criminale; teorie che, conseguentemente, avrebbero potuto o, se riprese, potrebbero condurre a ''etiche predatorie'', giustificanti tecniche mediche, quali l'eugenetica, la psicochirurgia, e così via, come strategia generale della prevenzione e del controllo di condotte ritenute pericolose.
D'altra parte, anche le teorizzazioni realizzate in base ai soli ed esclusivi contributi sociologici, pur offrendo grande possibilità operativa sul piano della prevenzione generale, si sono dovute confrontare con gli alti tassi di recidività registrati sia in Europa che negli Stati Uniti.
Attualmente prevale una posizione più moderata e ragionevole. Si ritiene infatti che fattori biologici e sociologici (come pure altri non organici e ambientali) interagiscano fra loro nel causare, con maggiore o minore probabilità, un comportamento violento. Certe caratteristiche biologiche, per es., dotano l'organismo di una gamma di comportamenti potenziali, e non di tratti comportamentali immutabili e di esito certo.
Attributi somatici innati interagiscono con le influenze ambientali e sociali in un processo di sviluppo e di maturazione che si estrinseca in manifestazioni comportamentali di varia forma, una delle quali può essere la condotta criminale. Entro linee biologicamente predisponenti a un comportamento potenziale, il soggetto può operare una scelta e perseguirla in una vasta gamma di condotte, in base a vari tipi di considerazioni sociali quali le convinzioni morali o gli interessi pragmatici. In breve, i fattori biologici, psicologici, sociologici, o di altro genere, determinano schemi e opzioni comportamentali, ma la probabilità che si verifichi una condotta violenta dipenderà dalla consistenza e dalla forza dei fattori coinvolti in ogni caso particolare.
Volendo ricordare i principali contributi che la ricerca ha evidenziato nel corso di questi ultimi venti anni, secondo linee e parametri ancora monodirezionali, si possono considerare rilevanti gli studi relativi all'influenza biologica sull'aggressività e la violenza, che hanno palesato il ruolo svolto dai deficit neuropsicologici di sviluppo o acquisiti, e dai disturbi metabolici sul comportamento patologicamente violento. È così emersa l'importanza eziologica delle invalidità neurologiche più evidenti; dei disturbi organici sottili e spesso sfuggenti a individuazione, con le conseguenti sindromi più significative del discontrollo episodico e delle personalità antisociali (le vecchie personalità psicopatiche); dei deficit cerebrali, spesso definiti ''danno minimo cerebrale'', tra cui emergono i deficit dell'attenzione, l'iperattività, ecc.; delle lesioni cerebrali per tumori o altri processi distruttivi o infiammatori del sistema limbico; dei vari casi di epilessia; dei danni cerebrali da complicazioni prenatali e perinatali; dei fattori genetici con anomalie cromosomiche e ormonali differentemente operanti in relazione all'età e al sesso; del tipo corporeo o costituzionale con le relative prove sulla crescita fisica e lo sviluppo; dei disturbi metabolici con le varie problematiche ipoglicemiche collegate; dei fattori biochimici e farmacologici; della dieta e della nutrizione; e infine, si stanno affacciando recenti e importanti ipotesi postulate dalla neuropsicofarmacologia e dalla neuropsicoendocrinologia, che attendono conferma o meno dal progresso della ricerca (Mark e Ervin 1970; Shah e Roth 1974; Hippchen 1978; Mednick e Valovka 1980; Farrington e Gunn 1985; Bruno 1987; Mednick, Moffit e Stack 1987; Elliot 1988; Moffit e Mednick 1988).
Quanto agli approcci psichiatrici, psicoanalitici e psicologici sulla violenza criminale, emergenti sono quelli relativi alle dinamiche psicologiche individuali; agli sviluppi patologici; ai disturbi psicologici; ai conflitti psicologici e allo stress, che possono sfociare nella psicopatologia. Da ricordare, inoltre, i contributi della ''psicologia dell'io'' come evoluzione della teoria psicoanalitica; la riformulazione dell'ipotesi frustrazione-aggressione; gli studi sull'apprendimento sociale e sul condizionamento (Dollard 1939; Berkowitz 1962; Eysenck 1970; McGrath 1970; Halleck 1971; Bandura 1973; Mawson 1987; Akers 1985).
Infine, in relazione alle molteplici prospettive sociologiche, culturali e politiche che fra gli anni Settanta e Ottanta hanno cercato di interpretare e spiegare la violenza criminale, si possono ricordare gli effetti dei processi di socializzazione o tramite l'apprendimento di motivazioni, atteggiamenti e tecniche criminali, o tramite l'identificazione differenziale, riformulazioni in termini di ''teoria degli insiemi'' e di ''teoria dei ruoli'' delle associazioni differenziali di Sutherland (De Fleur e Quinney 1966; Glaser 1973); le sottoculture criminali, con la creazione, diffusione e perpetuazione di regole cosiddette ''culturali'' in una popolazione delimitata (Wolfgang e Ferracuti 1982) o in ambito giovanile (Matza 1964); i teorici del controllo sociale che, spostando completamente l'ottica di indagine, focalizzano l'attenzione sul perché non si ricorra al crimine per ottenere più facilmente e rapidamente quelle gratificazioni verso le quali le aspirazioni umane sono indirizzate (Hirschi 1969). E infine le ipotesi situazionaliinterazioniste che cercano di studiare i rapporti dinamici tra individui e tra individui e ambiente fisico circostante (Magnusson 1981).
Come si vede la diversità delle prospettive scientifiche e dei metodi usati nel condurre le analisi del comportamento violento hanno certo prodotto una messe di conoscenze che, però, non hanno il conforto di un approccio interdisciplinare e integrato, come invece sarebbe auspicabile (Mednick e Christiansen 1977; Wolfgang e Ferracuti 1982; Balloni 1983; Wolfgang e Weiner 1987; Eysenck e Gudjonsson 1989). L'interesse per le iniziative interdisciplinari, non del tutto nuovo, dovrebbe essere sempre più suscitato e incoraggiato, in modo che dalla comunicazione e dalla collaborazione tra discipline diverse, tutte rivolte allo studio dello stesso fenomeno criminale, possa stabilirsi una comune base teorica e pratica, con proposte, ipotesi e prove empiriche incrociate, che aiuti, in un sempre più prossimo futuro, a comprendere e, nei limiti del possibile, a prevenire, la criminalità.
Un valido esempio di approccio comportamentale integrato è stato proposto (1979) da Buikhuisen con una ''formula'' che indica come qualsiasi comportamento, in questo caso quello criminale, sia funzione tanto delle caratteristiche personali del soggetto, quanto delle situazioni in cui viene a trovarsi:
C(Pi, Si)
in cui C = comportamento criminale; Pi = l'espressione collettiva di tutte le caratteristiche della personalità individuale relative alla spiegazione del comportamento criminale (e cioè: P1 = fattori genetici; P2 = variabili endocrine; P3 = fattori biologici relativi al funzionamento cerebrale; P4 = variabili neurofisiologiche; P5 = fattori biochimici; P6 = fattori psicofisiologici; P7 = fattori organici; P8 = fattori psichiatrici; P9 = fattori psicologici; P10 = variabili sociologiche; P11 = atteggiamenti, norme e valori) e Si = le situazioni o le circostanze, sia passate che presenti, concernenti il singolo individuo (che possono a loro volta suddistinguersi in: S1 = situazioni a micro-livello, cioè quelle in cui si esteriorizza il comportamento criminale; S2 = situazioni a medio-livello, cioè quelle relative alla fondamentale interazione tra il soggetto criminale e gli altri; S3 = situazioni a macro-livello, cioè il sistema sociale, politico, economico, in cui il soggetto criminale vive).
Tale modello comportamentale è chiaramente interattivo, nel senso che, se una sola variabile viene modificata, può a sua volta modificare tutte le altre componenti del sistema.
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