LASCARIS, Costantino
Nacque a Costantinopoli in una data collocabile tra il 14 giugno 1433 e lo stesso giorno dell'anno successivo. Poco si conosce dei diciannove anni che il L. trascorse nella città natale, se non che tra il 1444 e il 1453 frequentò le lezioni di Giovanni Argiropulo, al quale fa riferimento in molte occasioni come suo maestro. Qualche memoria dello stesso L. aiuta a ricostruire questo periodo giovanile: egli ricorda una sua visita alla Biblioteca imperiale di Costantinopoli, nella quale dice di aver visto tutti i libri della Biblioteca storica di Diodoro Siculo, testimonianza importante perché attesta che l'opera si trovava completa a Costantinopoli, mentre oggi dei quaranta libri originali ne sono sopravvissuti solo cinque. Nel codice della Biblioteca Ambrosiana di Milano (Ambros., N.87 sup.) egli descrive edifici e reliquie di Costantinopoli: in modo molto dettagliato S. Sofia; il monastero di Cristo Pantocrator (oggi Zeyrek Camii); la chiesa dei Ss. Apostoli, dove erano la tombe di Costantino e di tutti gli imperatori, compreso Giuliano l'Apostata, dalla tomba del quale, dice il L., scorreva "una terribile umidità e una resina crepitante"; il palazzo dell'imperatore e le varie reliquie lì conservate, tra le quali un chiodo e la corona di spine ritenute della crocifissione di Gesù.
Quando i Turchi presero Costantinopoli, il 29 maggio 1453, il L. fu fatto prigioniero, come testimonia egli stesso più volte e in particolare in un breve e drammatico resoconto della presa della città (Madrid, Bibl. nacional, Matr., 4621, c. 176); non è noto se riuscì a liberarsi fuggendo o pagando un riscatto. Tra il 1453 e il suo arrivo a Milano nel 1458, compì, come tanti altri esuli, una lunga peregrinazione per acque e terre greche, di cui si conoscono con certezza almeno tre tappe: la città tessalica di Fere (o Feras o Velestinon) e le isole di Rodi e Creta. Della sua sosta a Fere il L. parla nella sottoscrizione del manoscritto Matr. 4677, dove dice che acquistò il codice nella città tessalica, lo prestò a un amico e lo recuperò soltanto diciotto anni più tardi, a Messina.
Del suo passaggio a Rodi costituiscono una testimonianza le sottoscrizioni di otto manoscritti provenienti dall'isola, privi di indicazioni di data. A Rodi il L. mantenne legami, probabilmente proprietà terriere, perché in una lettera del 1494 all'allievo Giorgio Valla (infra), a proposito della sua situazione economica dichiara di avere ancora "buone condizioni" nell'isola.
L'ultima tappa del L. prima di giungere in Italia fu Creta, riparo per molti greci che sfuggivano all'occupazione turca. Tra il 15 novembre e il 14 dic. 1458 si stabilì a Milano, dove restò fino al 1465, godendo della protezione del duca Francesco I Sforza, che il 24 luglio 1463 lo nominò insegnante di greco della figlia Ippolita. La nomina non fu senza problemi, per la concorrenza di un altro insegnante greco, Demetrio Castreno, appoggiato da Francesco Filelfo. A sostenere il L. intervennero, con un documento del 14 dic. 1462, quarantasette personalità milanesi, membri della Cancelleria del duca, tra le quali Pier Candido Decembrio e Lodrisio Crivelli.
Il 15 nov. 1464 il L. ottenne un visto, valido due anni per quattro persone, per visitare a Creta sua madre e altri familiari. Non è noto se il L. intraprese il viaggio, ma la notizia testimonia la presenza della famiglia del L. a Creta.
Dopo avere lasciato Milano, il L. visse in varie città, sempre insegnando greco. Forse a Ferrara, sicuramente a Firenze, dove egli stesso, nelle sue Vitae illustrium philosophorum Siculorum et Calabrorum, testimonia di avere letto tre discorsi di Gorgia di Leontini, nella Biblioteca di S. Marco. Il 1° giugno 1465 era a Napoli, dove il re Ferdinando I d'Aragona lo nominò professore di retorica; la sua attività di docente continuò fino al giugno 1466. Tra le ragioni del suo trasferimento a Napoli vi potrebbe essere stata l'intenzione di rimanere al seguito della sua alunna, Ippolita Sforza, che nel 1465 aveva sposato il duca di Calabria, Alfonso d'Aragona. Ad Alfonso il L. dedicò le sue 35 biografie di filosofi calabresi, raccolte nelle Vitae. Sono ignote anche le ragioni dell'improvvisa partenza da Napoli e dello scontento nei riguardi della città, imputabile forse alla scarsa simpatia con la quale gli umanisti italiani accoglievano quelli bizantini. Di certo il suo passaggio segnò un risveglio e uno sviluppo notevole degli studi greci nella città.
Dopo tali peregrinazioni, era intenzione del L. tornare in Grecia, e per questo si recò, forse nel 1466, a Messina. Le insistenze delle personalità di quella città, e in particolare dell'umanista Ludovico Saccano, lo portarono tuttavia alla decisione di trattenervisi. In una lettera del 1581 di Teodosio Zigomalás all'umanista tedesco Martino Crusius, si afferma che il L. risiedeva a Messina con la famiglia; come narra egli stesso nella prefazione delle Vitae illustrium philosophorum Siculorum et Calabrorum, gli fu promesso da parte dei monasteri greci uno stipendio che gli avrebbe consentito di vivere dignitosamente. Messina era l'ultima città siciliana dove ancora si insegnava il greco, nel monastero basiliano di S. Salvatore al Faro, e l'insegnamento era tenuto dal 1461 da Andrónico Galesiotes, dopo la morte del quale, nel 1467, il cardinale Bessarione, già archimandrita del monastero, affidò al L. la cattedra, fondata dallo stesso Bessarione.
Il L. insegnò, dal 4 febbr. 1468 almeno fino al 1481, greco e latino.
Nei primi anni a Messina molte furono per lui le preoccupazioni, per lo più riconducibili al ritardo nei pagamenti da parte dei monaci basiliani e al poco interesse che costoro nutrivano verso il suo insegnamento. Ciononostante, lentamente il L. si inserì nella vita locale e finì per restare a Messina fino alla sua morte, con l'eccezione di due viaggi a Napoli, nel 1477-78 e nel 1481. Stabilì eccellenti relazioni con i viceré Jacobo Jiménez Muriel, definito "filoellenico" nella dedica del riassunto del Manuale degli accenti di Erodiano, e Fernando de Acuña; mantenne inoltre stretti contatti con alcune personalità ecclesiastiche dell'isola, in particolare Atanasio Calceopulo, vescovo di Gerace dal 1461 al 1497, e Giovanni Gatto, vescovo di Catania dal 1475 al 1479 e di Cefalù dal 1479 al 1484.
Per quanto il L. subisse una certa emarginazione dai grandi circuiti culturali umanistici, come risulta da una sua lettera a Juan Pardo, poteva dedicarsi all'attività filologica e soprattutto sfruttare per le sue ricerche l'enorme miniera di codici greci rappresentata dalle raccolte librarie pubbliche e private dell'Italia meridionale e da manoscritti, pur se consunti e in cattive condizioni, che vi circolavano attraverso vari canali.
La ricerca di opere classiche e il lavoro di trascrizione furono instancabili, e ne resta traccia nella sua feconda produzione manoscritta. La scoperta che gli dette maggior gloria fu il ritrovamento della Gigantomachia, opera greca del poeta latino Claudiano. Il L. ne rintracciò e ne copiò 77 versi, inframmezzati da una lacuna di 68 versi, che si riprometteva di colmare (Matr., 4691, cc. 144v-146). A questo proposito, da una lettera, del 14 dic. 1493, di Pietro Bembo a Poliziano, testimonianza del grande interesse del mondo umanistico per il ritrovamento della Gigantomachia, si ricava che il L. aveva ricevuto in dono alcuni manoscritti in pessime condizioni e tra questi aveva scoperto il frammento dell'opera.
La fama della probità e dell'eccellente qualità d'insegnante del L. si estese in tutta la Sicilia. In ringraziamento degli onori concessigli, donò la sua biblioteca al Senato e al popolo messinesi qualche anno prima di morire, probabilmente verso il 1494. Il prestigio della sua scuola si diffuse per tutta Italia: nel 1488 Ludovico il Moro lo invitò a tornare a Milano per insegnare, ma il L. rifiutò a causa del suo cattivo stato di salute e dell'età avanzata; nonostante ricordasse con rimpianto Milano, ne temeva il clima. Molti giovani si recarono a Messina per seguire le sue lezioni, in particolare il piacentino Giorgio Valla e Pietro Bembo. Il primo era stato allievo del L. a Milano tra il 1462 e il 1465 e mantenne il legame con lui nell'arco di tutta la vita, attraverso scambi epistolari e invii di codici. Il 4 maggio 1492 Pietro Bembo e Angelo Gabriel, anche lui patrizio veneziano, partirono per Messina per un periodo di intensi studi, e vi si trattennero fino all'estate del 1494.
Nell'agosto 1501 il L. contrasse la peste e il 15 di quel mese dettò il suo testamento. Morì poco dopo, in una data non precisata. Fu sepolto nella chiesa carmelitana di Messina.
I codici donati dal L. rimasero nella cattedrale di Messina per quasi due secoli, finché, per punire la città in seguito alla rivolta popolare del 1674, furono confiscati da Francisco de Benavides, conte di Santisteban (viceré dal 1678 al 1687) e trasferiti a Palermo. Juan Francisco Pacheco, duca di Uceda (viceré dal 1687 al 1696) li incorporò nella sua biblioteca privata, che nel 1711 fu a sua volta sequestrata e giunse tra il 1712 e il 1713 alla Biblioteca nacional di Madrid. La raccolta, denominata Fondo Uceda, contiene 99 codici, dei quali più di ottanta copiati dal L. o con il suo ex libris. Numerosi altri codici del L. si trovano in varie biblioteche d'Europa.
Il L. fu prolifico copista, come risulta dai molti suoi manoscritti autografi, e appassionato bibliofilo. Non si può parlare di un vero e proprio scriptorium sorto intorno a lui, ma piuttosto di un lavoro svolto da copisti e allievi, che egli utilizzava per copiare codici destinati alla sua biblioteca privata o ad amici e conoscenti. I copisti, per lo più anonimi, erano spesso italiani non professionisti; in più occasioni il L. si lamentò della mancanza di copisti esperti e si preoccupò di trovarne di migliori. Tra le sue opere, alcune sono rimaste manoscritte, come i Prolegomena a Orfeo (Matr., 4562, cc. 8v-10r), raccolta di note erudite sul mito di Orfeo. In campo retorico l'interesse è attestato dai numerosi trattati presenti nella sua biblioteca. Il L. scrisse un commento al Πεϱί στάσεων (Sulla costituzione delle cause giudiziarie) di Ermogene (Matr., 4620, cc. 138-144) e uno scritto relativo alla teoria della retorica, intitolato Sui prolegomeni alla retorica. Compose poi un'opera storica, ΣύνοψιϚ ἰϚτοϱιῶν (Cronaca della storia universale, Matr., 4621, cc. 140-176), poi pubblicata varie volte e inserita anche nella Patrologia Graeca di J.-P. Migne (CLXI, coll. 964a-b). Il L. intendeva in questo modo continuare la storia universale di Giorgio Monaco, cronista del secolo IX, che si arrestava all'842, e aggiunse a tale scritto la serie degli imperatori fino alla caduta di Costantinopoli.
Coltivava anche interessi astronomici e possedeva una sfera armillare bronzea con diciture greche e latine, donatagli da Pietro Bembo, prima che questi partisse da Messina; la sfera fu lasciata al matematico messinese Francesco Maurolico, autore di un sonetto in onore del Lascaris. La descrizione da parte del L. di una sfera armillare è contenuta in Matr., 4612, cc. 118-119.
L'opera maggiore del L. è la Grammatica greca, iniziata al tempo del suo soggiorno milanese. La prima edizione è di Milano, 30 genn. 1476 (stampatore Dionigi Paravicino ed editore scientifico Demetrio Damilás): è il primo libro impresso in greco, a parte la prefazione in latino. Conteneva soltanto una prima versione breve dell'opera, la cosiddetta Epitome. La versione autografa più estesa è nel codice Matr. 4689. L'opera, grammatica di base per l'apprendimento della lingua greca, ebbe lunga gestazione e perfezionamenti. Il L. attuò un gran lavoro di commento e riduzione degli antichi trattati grammaticali greci, troppo ponderosi e inutilizzabili dagli studenti, soprattutto italiani. Il primo libro è dedicato alle parti del discorso, rivolto ai principianti. Il secondo libro affronta l'applicazione pratica dei rudimenti di base, mediante esercizi, nei quali gli studenti apprendevano a parlare al modo degli antichi Greci, prima di dedicarsi alla lettura delle opere letterarie e della poesia. Il terzo libro è diretto a studenti già con buona conoscenza della lingua e contiene l'esposizione, attraverso le antiche teorie grammaticali e citazioni letterarie, degli usi grammaticalmente corretti e delle particolarità della poesia e della metrica. Infine, gli alunni erano invitati a studiare i testi poetici, per poterne apprezzare il ritmo, la bellezza e la qualità letteraria.
L'opera ebbe numerose edizioni tra la fine del Quattrocento e l'inizio del Cinquecento. Il 28 febbr. 1495 uscì un'edizione veneziana firmata da Aldo Manuzio, 'Επιτομὴ τῶν ὀϰτὼ τοῦ λόγου μεϱῶν, su un testo base che Pietro Bembo e Angel Gabriel portarono a Venezia da Messina, con le annotazioni e i complementi autografi del Lascaris. Manuzio ristampò l'opera nel 1512 con dedica al Gabriele.
Nei secoli XV e XVI il manuale del L. servì da modello alle grammatiche greche. Testimonianza non comune della sua fama è nell'Utopia di Thomas More, dove è elencata insieme con i grandi classici che Raffaele Itlodeo porta agli abitanti di Utopia affinché apprendano il greco. Tra le voci critiche è il Poliziano, a volte polemico verso gli epigoni della lingua e della cultura greca esuli da Bisanzio in terra italiana, che nel 1476 scrisse un epigramma contro la princeps milanese.
Nel codice Matr. 4620 (cc. 146-153) è contenuta una raccolta di lettere del Lascaris. Al vescovo di Catania Giovanni Gatto sono dirette tre lettere, la prima delle quali è un encomio del vescovo umanista, redatto tra il 1475 e il 1478, mentre le altre due possono essere datate rispettivamente tra il 1471 e il 1472 l'una e al 1484 l'altra. A Juan Pardo, il L. diresse una lettera assai intima e personale, in cui esprimeva il pessimismo della sua condizione di esule e il peso delle responsabilità che lo costringevano a rimanere a Messina; come sue mete ideali di un eventuale spostamento egli ricorda con nostalgia Milano e le città vicine, mentre definisce Roma "la nuova Babilonia" e Napoli "ingrata", probabilmente adirato per essere stato confuso, anche e soprattutto negli ambienti eruditi, con la massa di greci in fuga dalle terre conquistate dai Turchi e in cerca di una qualsiasi sistemazione. A Messina, aggiunge, si sentiva incompreso e non ricompensato delle sue fatiche. Delle altre lettere, due sono indirizzate a un monaco, Giovanni, che potrebbe essere il carmelitano Giovanni Crastone, autore della prima traduzione latina della Epitome grammaticale del L., pubblicata a Milano intorno al 1480 (Indice generale degli incunaboli, 3251); una ad Andrea di Cremona, membro della Cancelleria milanese; due a un tale Carlo, suo antico allievo; una a un altro allievo milanese, Giorgio Valla, del 15 giugno 1494. Un'altra lettera, scritta intorno al 1462, è rivolta all'umanista bizantino Teodoro Gaza, esule anch'egli nell'Italia meridionale; altre due al vescovo di Locri Atanasio Calceopulo (la prima intorno al 1462, la seconda prima del 1497) e infine due al cardinale Bessarione (prima del 1472).
Il L. fu autore di epigrammi, cinque dei quali, di carattere sepolcrale, sono in Matr. 4636 (cc. 213v-214v) e di un Saggio sulla poesia (Matr. 4562, cc. 10v-11r). Praticò anche un'attività letteraria tipicamente bizantina, quella di raccogliere materiale letterario e grammaticale in raccolte e florilegi. La collezione più ampia, frutto di tale lavoro, è la raccolta antologica di 483 epigrammi letterari presente nel Matr. 4562 (cc. 101-136). Il Matr. 4635 (cc. 133-135v) contiene invece una raccolta di iscrizioni. Compose inoltre un dizionario di scrittori della Magna Grecia, giunto soltanto nella traduzione latina di Ludovico Saccano, in vari manoscritti tardi.
Il L. tradusse dal greco in latino, per lo più opere religiose; inoltre si cimentò in una nuova versione in greco classico di testi già tradotti dal greco in latino, come i due trattati di Plutarco, i Parallela minora e il De mulierum virtutibus (Matr., 4621, cc. 12-21, 24-34).
Poco prima di morire, il L. vide uscire una delle sue poche opere a stampa, le citate Vitae illustrium philosophorum Siculorum et Calabrorum, impresse a Messina il 5 marzo 1499 da W. Schömberger. Lo scritto ebbe lunga gestazione e due redazioni, la prima delle quali, dedicata al Senato e al popolo messinesi, comprendeva 42 biografie di filosofi siciliani. Una seconda redazione comprendeva 69 biografie di filosofi siciliani e 35 di filosofi calabresi. Quella stampata dallo Schömberger comprendeva 66 biografie di filosofi siciliani e 35 di filosofi calabresi, e appare come edizione di un testo preparato in precedenza, perché entrambi i dedicatari, Ferdinando de Acuña per la parte dei filosofi siciliani e Alfonso duca di Calabria per i calabresi erano già morti. Il L. aveva quindi lavorato a lungo sul testo, basandosi soprattutto sulla Suida, su Diogene Laerzio e Filostrato (tutti presenti in codici rintracciabili della biblioteca del L.), ampliando nel tempo le sue biografie, in seguito a nuove scoperte. Il significato profondo dell'opera era il tentativo di recupero di una grande tradizione culturale che si andava spegnendo nell'incuria e nell'abbandono. Le Vitae furono ripubblicate da Francesco Maurolico (Sicanicarum rerum compendium, Messina 1562), che arricchì alcune voci e ne aggiunse di nuove.
Un elenco dei codici autografi del L. si trova in T. Martinez Manzano, C. L. Semblanza de un humanista bizantino, Madrid 1998, pp. 31-48. Le edizioni facsimilari della Grammatica sono in: C. Lascaris, Greek Grammar. Milan, Dionysius Paravisinus for Demetrius of Crete. 30 January 1476, Amsterdam 1966 e 'Επιτομὴ τῶν ὀϰτὼ τοῦ λόγου μεϱῶν ϰαῖ ἄλλων τινῶν ἀναγϰαίων συντεθεὶσα παϱὰ Κ. Λ. Βυζαντίου, Compendio delle otto parti del discorso e di alcune altre cose necessarie composto da C.L. di Bisanzio (Atene 1976).
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