FANZAGO (Fonsaga, Fansago, Foriseca), Cosimo (Cosmo)
Nacque a Clusone, vicino Bergamo, nel 1591 da Ascenzio e Lucia Bonicelli, come attesta il suo atto di battesimo del 13 ottobre di quell'anno (Fogaccia, 1945, p. 13), e vi restò certamente fin'oltre il quindicesimo anno di età; la sua famiglia di origine aveva una lunga tradizione nel campo della scultura in bronzo.
Tra gli artisti della famiglia, attivi tra Clusone e Bergamo nel sec. XVI, si ricordano Alessio, Giannantonio, Marino e, soprattutto, Pietro: quest'ultimo ingegnere e matematico (cfr. U. Thieme-F. Becker, Künstlerlexikon, XI, p. 250, sub voce Fansago; Tassi, 1793, p. 3; G. Bonandrini, L'orologio planetario Fanzago di Clusone, Clusone 1983).
La prima notizia della presenza del F. a Napoli si ha il 12 ag. 1612, quando, dinanzi al notaio Pietro Giordano, stipulò un contratto di lavoro con Angelo Landi, mediocre scultore fiorentino. Nello stesso anno, il 23 settembre, si sposò con la figlia di questo, Felicia. Dal matrimonio, che durò fino al 1645, anno della morte di costei, nacquero quattro figli: Caterina Vittoria, Ascenzio, Ursula e Carlo (cfr. voce in questo Dizionario).
Proprio nel documento del 1612 il F. affermava di essere giunto a Napoli da Bergamo da circa quattro anni "... per imparare l'arte di scultura di marmo et me ne venni a stare alla casa di Pompeo Fanzago mio zio da parte di padre ..." (Ceci, 1921, p. 143). Aveva, dunque, diciassette anni quando si trasferì a Napoli (1608), dove il settore delle arti plastiche e decorative era dominato in massima parte da maestranze toscane, tra cui il citato Landi, Felice de Felice, Vitale Finelli, Pietro Bernini, trasferitosi a Roma nel 1607, artisti legati ancora a quell'indirizzo genericamente classificato come "classicismo manieristico" ma che già mostravano i sintomi di rinnovamento morfologico e che portarono all'affermazione del linguaggio naturalistico. Al vicentino C. Monterossi o ai lombardi Silla da Viggiù, G.A. Paracca di Valsoldo, B. Viscontini, giunti a Napoli probabilmente dai cantieri romani di S. Maria Maggiore, il F. dovette guardare durante il suo presumibile soggiorno romano prima di stabilirsi a Napoli nel 1608 (Bologna-Doria, 1954; Spinosa, 1976, pp. 21 s.). Nell'attività di questi artisti e di quanti operavano nella stessa direzione il F. trovava assicurazioni per certe sue intuizioni giovanili e per alcune ipotesi di lavoro maturate in patria, che gli avrebbero consentito, nel giro di pochi anni, di sveltire il lento processo di trasformazione della plastica e della decorazione partenopea (Nava Cellini, 1958, pp. 18 s; Id., 1971).
Cenni di rinnovamento rispetto alla tradizione precedente sono già percepibili negli Stemmi del conte di Lemos del 1615-16 per il palazzo degli Studi, oggi al Museo di S. Martino, nel busto di Michele Gentile (1616-1621), nella cattedrale di Barletta, nel S. Ignazio del cimitero di Catanzaro (1616) e, più dichiaratamente, nella Memoria del card. O. Acquaviva d'Aragona (1617-19) nella sacrestia della chiesa del Pio Monte della pietà, nel mezzo busto e nella statua di S. Ambrogio del 1618, entrambi nella cappella Borrello del Gesù Nuovo, con chiari riferimenti alla plastica lombarda, e nell'eccezionale ritratto di Gerolamo Flerio (1620) nella chiesa di S. Maria di Costantinopoli, caratterizzato da una sorprendente finezza esecutiva e da notevoli doti di penetrazione psicologica. A questi anni, e precisamente tra il 1619 e il 1624, risale anche l'esecuzione del ciborio in marmi policromi per la chiesa di S. Patrizia, oggi al Museo di Capodimonte, mutilato della maggior parte delle decorazioni, per il quale il F. fornì il disegno d'insieme e i modelli delle statuette da tradurre in bronzo dorato di T. Montani.
L'esordio di progettista ed imprenditore del F. risale alla metà del terzo decennio, quando iniziò i suoi interventi nella chiesa dell'abbazia di Montecassino (1626-29, 1645) e lavorò nella chiesa di S. Nicola al Lido di Venezia (Ceci, 1921) e nella chiesa di Gesù e Maria a Pescocostanzo (1626-36). Agli inizi del 1630 stipulò il contratto per l'esecuzione del cappellone di S. Francesco Saverio nella chiesa del Gesù Vecchio (Spinosa, 1984, p. 58), che nelle sue parti architettoniche e decorative doveva già essere terminato alla fine del 1632 o poco dopo.
Il suo stile, per quanto innovativo rispetto a precedenti soluzioni affini in ambiente partenopeo, appare ancora contenuto entro termini di equilibrata spartizione spaziale di tradizione cinquecentesca. E ciò in particolare se si confronta quest'opera con il più tardo cappellone di S. Ignazio al Gesù Nuovo, posto in opera dal F., con l'aiuto di Andrea Lazzari e Costantino Marasi, a partire dal 1637 (D'Addosio, 194; F. Strazzullo, Scultori e marmorari carraresi a Napoli.., in Napoli nobilissima, VI [1967], p. 35). Nel complesso l'intervento al Gesù Vecchio rispecchia grande ricchezza progettuale, studiata finezza nell'uso di materiali diversi e complessa organizzazione visiva nella combinazione di elementi vegetali, geometrici e curvilinei (Weise, 1974-75; 1977); si tratta inoltre di un'opera in cui emerge la capacità di sintesi del F. che dà vita a magistrali soluzioni plastiche, pittoriche e puramente ornamentali. Il F. raggiunge effetti di solennità monumentale e di coinvolgente immediatezza visiva nelle statue del David e del Geremia (D'Addosio, 1914; Spinosa, 1984, p. 62). Quest'ultima statua insieme con Isaia va collocata alla metà degli anni Cinquanta (cfr. docc. in Spinosa, 1984, p. 62); le due sculture in precedenza erano state per lo più datate dalla critica tra gli anni Trenta e Quaranta (cfr. Fittipaldi, 1969, p.20; Nava Cellini, 1972, p. 789), poiché più arcaizzanti rispetto alle contemporanee, o quasi, statue del Gesù Nuovo. La sobrietà compositiva, l'asciuttezza formale e la composta esposizione al gioco delle luci che caratterizzano le due opere, più che il segno di un "ritorno indietro", sono legate alla volontà di adeguarsi al carattere prevalente del grande retablo, che rispecchia la concezione di integrazione e corrispondenza tra spartiti architettonici, decorativi e plastici del Fanzago.
Nel frattempo era già iniziata la molteplice attività del F. presso la certosa di S. Martino (Causa, 1973; Cantone, 1984, pp. 56-59).
Entro il 1631, come rivela una perizia dello stesso anno (De Cunzo, 1967, pp. 106 s.), erano compiute le tre statue di S. Bruno, S. Martino e S. Pietro, poste a coronamento del chiostro grande, i teschi che decorano il recinto del piccolo cimitero dei monaci, di straordinaria forza visiva nel loro sapiente gioco di luci e di ombre. A tale data erano finite anche le porte che s'aprono sul chiostro stesso, di bardiglio, dove furono inseriti negli anni successivi (entro il 1656, anno della seconda perizia) i busti dei santi certosini. Di questi, tre sono sicuramente autografi, il Beato Nicolò Albergati, il S. Ugo e il S. Bruno (Fittipaldi, 1969, p. 28; Nava Cellini, 1972, p. 794; Spinosa, 1976, p. 25); il Beato Landino e il S. Anselmo, ritenuti da una parte della critica (Mormone, 1969; Causa, 1973, p. 102) opere del F., sono da attribuire ad allievi su suo disegno (il S. Martino e il S. Gennaro sono sculture di D. A. Vaccaro).
Per la chiesa della certosa il F. eseguì inoltre lavori di ammodernamento, fornendo il progetto nuovo per la facciata, solo in parte realizzato, la cappella di S. Bruno, il pavimento del coro, il lavamano che si svolge su due pareti e numerosi altri arredi decorativi architettonici, come putti con basi poggiati in chiave d'arco all'ingresso delle cappelle, vasi, poggiatoi, intarsi nel pavimento della navata, rosoni nei contropilastri della chiesa, decorazioni policrome in alcune delle restanti cappelle: opere tutte nelle quali il F. dava segno di quella genialità creativa e risolutiva che contemporaneamente veniva evidenziando in numerosi altri lavori nella città partenopea.
Dopo il 1630 il F. diede inizio a numerosi lavori più specificamente architettonici a cui vanno aggiunti quegli esempi di "arte semidecorativa" quali altari, pulpiti e cibori, veri e propri apparati scenografici atti a sconvolgere con la loro presenza la lettura delle preesistenti strutture spaziali. Ricordano i retablos di Toledo e di Siviglia gli altari di S. Maria la Nova (1632-42) e di S. Maria di Costantinopoli (1639-45), di S. Maria degli Angeli alle Croci, cui fa da pendant il pulpito sorretto da un'aquila, replicato nella chiesa delle agostiniane a Salamanca. Suoi sono anche alcuni altari in marmi policromi come quello dei Ss. Severino e Sossio (1635-41), di S. Domenico Maggiore (1640-52), con due cattedre ai lati e scala balaustrata, di S. Pietro a Maiella (1640-47), o il distrutto altare della Ss. Annunziata (1638-42).
Tra le numerose cappelle decorate dal F. meritano particolare rilievo quelle di S. Antonio (1638-50) e Cacace (1642-1650) in S. Lorenzo Maggiore e quella di S. Teresa nella chiesa omonima agli Studi (1640-50, 1652; per la storia della chiesa cfr. G. Ceci, Il convento di S. Teresa agli Studi, in Napoli nobilissima, V [1896], pp. 9- 12).
Estese e coloratissime superfici, fatte di tarsie marmoree, di decorazioni plastiche zoomorfe e fitomorfe, riprese dal formulario tardo cinquecentesco, a contatto con la luce si vivificano, perdendo la loro funzione di elemento di cesura tra spazio esterno e spazio interno, per diventare elementi di continuità naturale e reale.
Indicativi, poi, della sua grande capacità di manipolazione della materia, sia essa marmo, pietra, stucco o metallo, per recuperarne la potenza espressiva, sono il ciborio della chiesa dell'Addolorata a Serra San Bruno, smembrato dopo il terremoto del 1783, le cui statuette decorative di S. Pietro, S. Paolo, S. Giovanni Evangelista, S. Giovanni Battista, Cristo Risorto e i quattro putti reggicanestro furono tradotti in bronzo da R. Maitener (Gonzáles Palacios, 1984, pp. 265 s.); è suo infine il suggestivo cancello in bronzo della cappella del Tesoro di S. Gennaro nel duomo di Napoli eseguito, tra il 1630 e il 1668 (Strazzullo, 1978), su disegno del F. da G. Monte.
Il 13 luglio 1647, nel corso della rivoluzione detta di Masaniello stabiliti i diritti concessi al popolo e giurati i capitoli dal viceré Rodrigo Ponce de León, duca d'Arcos, fu deciso di scolpire capitoli e privilegi in un epitaffio nella piazza del Mercato. Il monumento meglio noto come Epitaffio del Mercato, che avrebbe dovuto avere come coronamento le statue di Filippo IV, del committente e del cardinale A. Filomarino, fu commissionato al F. dal viceré duca d'Arcos, su richiesta di Masaniello. L'opera restò incompleta e fu demolita nell'800 (Capasso, 1897). Per un errore di trascrizione dell'articolo 14, tuttavia, il lavoro dei F. fu interrotto ed egli fu costretto a fuggire da Napoli; negli anni che seguirono si recò più volte a Roma dove, tra le altre opere, eseguì nel 1651 per la chiesa di S. Agostino un Arcangelo Raffaele reggente un'acquasantiera a forma di conchiglia.
In questa opera emerge per la prima volta un'attenzione alla materia cromatica, esposta a una luce fattasi più avvolgente e fluida, che già aveva trovato un anticipo nel busto di S. Bruno nella chiesa della certosa di S. Martino del 1639, considerato per lungo tempo opera della tarda maturità del maestro (Causa, 1973, pp. 67, 106), e una conferma nella contemporanea Immacolata del seminario arcivescovile di Napoli (Mormone, 1970, pp. 181 s.). Le tappe di questo processo in senso pittorico non sono molte: la S. Teresa in marmo nella omonima chiesa a Chiaia (1650-54), cui va affiancata la S. Teresa in bronzo della cappella del Tesoro di S. Gennaro e quella di recente ritrovata nella chiesa del Carmine ad Avellino, dove il F. realizzò per i principi Caracciolo il monumentino a Carlo II (inaugurato nel 1668) e restauro probabilmente il palazzo della Dogana (De Martini, 1988). La statua in bronzo di S. Antonio nella cappella del Tesoro di S. Gennaro per lungo tempo ritenuta opera del F., dopo il ritrovamento di un documento d'archivio, è da assegnarsi invece a Domenico Marinelli (Rizzo, 1984, pp. 338 s.).
Il F. morì nel 1678 a Napoli, dove fu sepolto il 13 febbraio nella chiesa di S. Maria d'Ognibene.
Il Baldinucci (VI, p. 362) ricorda che il F. fu "allievo del padre Pietro Prasavedi [sic!], giesuita sanese", cioè del soprintendente alle fabbriche della "provincia napoletana" fino al 1623. Notizia interessante poiché P. Provedi ebbe una notevole influenza sull'opera di Gian Giacomo Conforto, architetto attivo a Napoli anche per i gesuiti (S. Francesco Saverio). Sotto la guida di quest'ultimo il F. iniziò la sua attività di architetto. Fin dall'inizio attraverso le opere del Conforto, di F. Cavagna e di F. Grimaldi venne indirettamente a conoscenza dell'attività romana di alcuni maestri ticinesi come D. Fontana e F. Ponzio. Operò per i gesuiti in numerose occasioni in un arco di tempo che va da 1618 fino al settimo decennio, quando ristrutturò la facciata di S. Francesco Saverio e ancora nel 1676, quando realizzò oggetti di arredo per il Gesù Nuovo.
L'attività del F. come architetto, è caratterizzata da una straordinaria capacità di collegare struttura e ornamento, elementi architettonici e soluzioni plastiche, si svolse soprattutto nel periodo 1630-1656. Nel 1623 egli iniziò la sua opera alla certosa di S. Martino, dove collaborò con il Conforto almeno fino al 1627: dal 1630, data della morte di quest'ultimo, assunse la direzione dei lavori. Il F. gli subentrò anche nel cantiere della Trinità delle Monache (1624) e nella realizzazione del cancello della cappella di S. Gennaro nel duomo: in anni successivi intervenne in chiese del Conforto, come S. Maria delle Anime del Purgatorio ad Arco (1638), S. Teresa agli Studi (1640-52), S. Maria della Sapienza (1641-49), S. Francesco Saverio (1660 ca.), Ss. Apostoli, per la quale eseguì un disegno per la facciata.
Gli interventi del F. nella certosa coinvolgono tutto il monastero: il chiostro grande, l'interno e l'esterno della chiesa, l'appartamento del priore. Contribuì in modo sostanziale alla costruzione del porticato del chiostro grande, inserito nell'invaso realizzato da G. A. Dosio, arricchendo e modernizzando il progetto dell'architetto toscano, che operò alla certosa dal 1591. Le vicende di una attribuzione molto controversa, quale quella del chiostro, hanno portato a contrapporre i due maestri: in realtà, è l'ambiente del Dosio quello nel quale il F. si inserì al suo arrivo nel 1608; infatti egli, appena giunto a Napoli, fu ospite di Geronimo D'Auria, collaboratore del Dosio, presente almeno fino al 1610 nella stessa città. Soprattutto al Dosio oltre che ad altri artisti toscani (G. Lazzari, F. Balsimelli. M. e C. Marasi) si deve l'introduzione a Napoli della decorazione in marmi intarsiati con motivi floreali che il F. esplicò con grande creatività. Dalla lettura del contratto stipulato nel 1623 dai certosini con il F. e Nicola Botti appare chiaro tuttavia che in quell'anno il chiostro grande era in gran parte ancora da realizzare; ciò risulta anche dal carattere unitario dell'intervento seicentesco.
Il chiostro grande appartiene ad una tipologia con arcate su colonne praticata nel XVI secolo in Italia centrale e a Napoli ancora all'inizio del XVII secolo. Tale tipologia è particolarmente congeniale alla committenza certosina; le strutture di S. Martino sono confrontabili con quelle del chiostro della certosa di Pisa costruite nel 1634, ma soprattutto con quelle della certosa romana di S. Maria degli Angeli datata 1565. Prima del 1631 il F. completò le arcate del chiostro grande, con le statue del loggiato e le porte angolari; in seguito, vi inserì i busti di esponenti dell'Ordine certosino e realizzò il cimitero dei monaci con gli splendidi teschi della balaustra.
In generale è difficile valutare l'abilità del F. come architetto, perché non esistono né edifici religiosi né costruzioni civili che siano interamente di sua mano: egli intervenne spesso in opere già iniziate e, pur lavorando di persona, si avvalse di numerosi collaboratori; talvolta gli edifici da lui ideati furono completati da altri in un lungo arco di tempo, e non è possibile stabilire se l'esecuzione sia rimasta fedele ai suoi progetti scarsamente documentati da disegni. È questo il caso della chiesa delle monache domenicane di S. Sebastiano, per la quale al progetto del F. del 1630 circa si preferì probabilmente un disegno di fra' Nuvolo.
Un contratto del 1630, relativo alla fase documentatamente fanzaghiana, fa supporre l'esistenza di un progetto a croce con cupola su pilastri, citati in un documento nel quale si parla anche di "lamie della cruce". Ciò fa ritenere che l'impianto ellittico realizzato, che non ha riscontri nell'opera del F., sia stato introdotto da fra' Nuvolo, che più volte aveva dimostrato di preferirlo (chiesa e convento di S. Maria della Sanità; chiostro di S. Tommaso d'Aquino, 1620; chiesa di S. Carlo all'Arena, 1631).
Nel 1628 il F. si allontanò da Napoli; in tale occasione soggiornò e lavorò presso l'abbazia di Montecassino (dove è documentato più volte tra il 1626 e il '31); si spinse poi evidentemente più a Nord, poiché nel 1629-30 siglò a Venezia il contratto per l'altar maggiore di S. Nicola al Lido e, con tutta probabilità, definì a Bergamo il progetto per la chiesa di S. Agata dei teatini - utilizzato poi per S. Maria del Monte di S. Giovanni e quello per la chiesa della Beata Vergine della Neve. Lo schema a croce greca fu seguito dal F. nelle chiese bergamasche di S. Maria del Monte di S. Giovanni e della Beata Vergine della Neve, realizzate come voto per la cessazione della peste del 1630 e molto rimaneggiate in seguito. Secondo il Pasta (1775), il F. avrebbe progettato anche la chiesa bergamasca della Madonna del Borgo di S. Caterina, oggi santuario della Beata Vergine Addolorata. In realtà il suo eventuale intervento dovette avvenire in un edificio già in parte costruito che non è tuttavia individuabile perché la chiesa fu radicalmente modificata nel sec. XIX da Antonio Piccinelli.
A Clusone gli è stata attribuita la chiesa ottagonale della Crocetta, che, tuttavia, sembra non si debba al F.; il Tassi (1793) riferisce anche di un tabernacolo che sarebbe stato realizzato per S. Alberto a Villa d'Ogna, non identificato.
Tornato a Napoli, il F. mise in atto le nuove esperienze: riferimenti all'arte veneta si trovano negli altari traforati, quasi moderne iconostasi, quali quello di S. Maria la Nova (1632-42) e dì S. Teresa (dopo il 1650), nel quale la struttura a serliana, in cui si inserisce l'arco trionfale del presbiterio, si ripete nella parete che inquadra l'altar maggiore e fa da filtro tra lo spazio della chiesa e il coro riservato ai monaci. La facciata con portico a serliana della chiesa di S. Maria degli Angeli alle Croci a Napoli (1639-40), attribuita al F. dal Celano (1856-60), ricorda i disegni di F. Ponzio, ma anche i prospetti della chiesa del Lazzaretto a Milano di Pellegrino Tibaldi, iniziata nel 1581.
Durante il soggiorno lombardo il F. realizzò probabilmente un tabernacolo per la certosa di Garegnano (Milano), attribuita a Galeazzo Alessi; in architetture fanzaghiane successive al 1630, infatti, compaiono elementi che potrebbero essere mutuati da quella tradizione alessiana, che nel primo quarto del Seicento faceva sentire ancora la sua influenza nell'area lombarda (Sacro Monte di Varese di G. Bernascone). Alla tradizione alessiana delle ville genovesi sembra riferirsi la loggia di palazzo Maddaloni (successiva al 1652, forse 1664); a tendenze lombarde si rifà indubbiamente il disegno della discussa facciata di S. Maria della Sapienza a Napoli, a lungo attribuitagli, ma in cui il F. svolse probabilmente una funzione di soprintendenza al cantiere (1634-40).
La riflessione e la rielaborazione di schemi centralizzanti, fondata sull'esempio delle cappelle papali di S. Maria Maggiore a Roma già proposta a Napoli da F. Grimaldi (cappella del Tesoro in duomo, 1608), dai gesuiti (S. Ignazio al mercato, 1611) e dal Conforto (Trinità delle monache, 1625), può essere vista come il filo conduttore che collega quasi tutte le chiese del Fanzago.
L'impianto a croce greca si ripete nell'Ascensione (fondata nel 1626 e completata nel '45) ed anche, con un'accentuazione dell'asse longitudinale, in S. Maria dei Monti (fondata nel 1628) e in S. Giuseppe dei Vecchi a San Potito, commissionata nel 1634 e realizzata più tardi.
Per quest'ultima il progetto del F. è documentato, mentre probabilmente imprecisa è la datazione degli altri due edifici. Tali opere sono molto rimaneggiate e, al di là dell'impianto, è difficile leggervi un preciso indirizzo di stile.
Uno schema quasi identico a quello di S. Giuseppe dei Vecchi presenta un'altra opera per i caracciolini, S. Maria Maggiore della Pietrasanta, progettata prima del 1634, che ha un impianto paragonabile a quello di S. Carlo ai Catinari a Roma (1611-27). Una analoga, più complessa integrazione di spazi, giocata su quindici cellule quadrangolari, presenta S. Teresa a Chiaia, attribuita al F., iniziata intorno al 1650 per i carmelitani.
Absidi in corrispondenza dell'ingresso e del presbiterio, parti superstiti di strutture bizantine, caratterizzano S. Giorgio Maggiore, progettata dal F. intorno al 1640 (fu completata da A. Guglielmelli [1694-1702] e trasformata nel sec. XIX). Absidi sono proposte in forme "moderne" in S. Giuseppe a Pontecorvo (1643-60), chiesa delle teresiane.
Ristrutturando una parte del preesistente palazzo Spinelli, il F. creò uno spazio accentrato, se pur sulla base di un'aula rettangolare, la cui estensione longitudinale è attenuata mediante l'inserto di due ampie cappelle simmetriche sporgenti lateralmente. La composizione del prospetto è giocata sull'innesto di due serliane di dimensioni diverse; stucchi, sculture e vani aperti per rendere luminoso l'atrio retrostante sono sapientemente integrati. L'edificio presenta una facciata doppia che delimita un vestibolo con un monumentale scalone; questa soluzione, frequente a Napoli, permette l'ingresso al pubblico dall'esterno, ma le chiese sono poste al primo piano, per essere più accessibili dalle parti residenziali del monastero.
Il F. preferì spesso facciate con portico - tema paleocristiano recuperato dall'architettura controriformistica - diffusamente adottate nelle chiese campane quasi senza soluzione di continuità dal XII secolo in poi e a Napoli frequentemente dalla fine del Cinquecento.
Facciate con portico nell'ordine inferiore si hanno all'Ascensione, che presenta austere arcate di tipo tardocinquecentesco, e in S. Maria dei Monti, dove più stretto appare il riferimento a prospetti romani disegnati da ticinesi come F. Ponzio e dagli architetti attivi a Roma intorno al 1630-45 (A. Casone, D. Castelli, G.B. Soria) che propongono anche il tipo di facciata doppia con scaloni inseriti frequentemente utilizzata dal Fanzago. Egli elabora anche lo schema di facciata con carattere di palazzo (S. Maria dei Monti, S. Maria degli Angeli alle Croci) attuato a Roma da F. Ponzio in S. Sebastiano (1612 c.) e da G.B. Soria (S. Gregorio al Celio, 1633, S. Caterina Magnanapoli, 1641) che si riscontrava a Napoli in opere di G. B. Cavagna (S. Gregorio Armeno, 1574 c.) e di G. C. Conforto (Ss. Marcellino e Festo): Nella chiesa della certosa di S. Martino la facciata a portico (1636-50) è rivestita da una sontuosa e policroma decorazione in marino, che fu all'origine di lunghe polemiche con i committenti. La facciata con scalone di accesso a doppi rampanti, realizzata a S. Teresa e poi trasformata, aveva precedenti a Roma in: Ss. Domenico e Sisto di N. e O. Torriani (1628-36) e V. Della Greca (1655 c.).
Dal 1637 circa il F. compì numerosi interventi nel campo dell'architettura civile nell'area di via Toledo, collegati talvolta a suoi investimenti fondiari (palazzo Zevallos Stigliano, 1639-63; palazzo Maddaloni).
Tra il quarto e il quinto decennio del Seicento l'intensa attività del F. si affiancò all'ultima fase di quella di B. Picchiatti, che morì nel 1643.
Nel 1633 il viceré Manuel de Zúñiga y Fonseca, conte di Monterrey, aveva commissionato al Picchiatti il progetto per la chiesa delle agostiniane a Salamanca; nel 1636 lo stesso viceré chiese al F. il disegno per la cancellata e il pulpito della medesima chiesa e nel 1640 il suo successore Ramiro Nuñez de Guzmán, duca di Medina, lo incaricò dell'esecuzione di porta Medina a Napoli. Tra il 1638 e il 1642 il Picchiatti firmò autorizzazioni relative ai materiali per il cantiere di Posillipo dove fu costruito il palazzo per donn'Anna Carafa, moglie del viceré duca di Medina, lavori interrotti nel 1645 per la partenza dello stesso Medina. Non è stato accertato finora chi abbia diretto il cantiere di palazzo Donn'Anna tra il 1642 e il 1643, anno in cui comincia ad essere documentata la presenza del Fanzago.
Tra il 1647 e il 1655 si collocano lunghi soggiorni del F. a Roma, dove intervenne in opere commissionate in occasione del giubileo del 1650 in S. Pietro, in S. Lorenzo in Lucina, in S. Spirito dei Napoletani (facciata demolita nel 1853), in s. Agostino (per la quale nel 1660 realizzò una seconda acquasantiera), in S. Isidoro (cappella di S. Antonio), in S. Maria in via Lata, nel refettorio della Trinità dei Pellegrini (portale).
Il restauro dell'interno di S. Maria in via Lata ha caratteristiche che evidenziano la distanza del F. dalle esperienze del barocco romano più avanzato. Qui egli inserì un falso soffitto in prospettiva e simulò una navata seguita da una cupola, evocando una tipologia rara a Roma ma frequente a Napoli, quella della chiesa a navata unica con copertura piana e cupola su presbiterio quadrato. La decorazione estremamente sfarzosa compiuta dal F. conferisce unità all'interno della chiesa e compensa, con la sua ricchezza, la semplicità delle strutture. Al restauro decorativo del F. si può paragonare quello del tutto architettonico proposto in occasione dello stesso giubileo da Borromini in S. Giovanni in Laterano.
È stata avanzata l'ipotesi che in questo periodo egli abbia partecipato al concorso per S. Agnese in Agone a Roma, ipotesi che ha contribuito all'attribuzione di un disegno per S. Maria Egiziaca a Napoli (Archivio di Stato di Napoli) che presenta un impianto ottagono molto vicino a quello elaborato da G. e C. Rainaldi e F. Borromini per la chiesa romana.
In questo disegno la struttura di S. Maria Egiziaca è preceduta da un ampio quadriportico, spazio inconsueto anche se consono alla tipologia del monastero femminile. La realizzazione della chiesa, tuttavia, fu compiuta in gran parte dopo il 1691 sotto la guida di A. Guglielmelli.
La qualità dell'arte fanzaghiana non passò inosservata nell'ambiente romano tanto che Virgilio Spada, principale sostenitore del Borromini, fu indotto probabilmente dalle suggestioni della raffinata tecnica del F., che poteva riscontrare in S. Isidoro, a far decorare con mischi floreali la sua cappella gentilizia in S. Gerolamo della Carità (1655).
L'attitudine del F. a comporre insieme scultura e architettura si rileva soprattutto in quelle opere che il Wittkower (1958) chiama "semidecorative", come pulpiti, altari, portali, gughe, fontane.
Volute in gran parte dai viceré per rinnovare l'immagine di Napoli, le fontane furono elaborate dal F. in un vasto arco di tempo, soprattutto nell'ultima fase della sua attività; si ricordano quella dello Spirito Santo (perduta, 1618-20); la fontana del Nettuno o Medina (trasformata nel 1634-39 con i figli Ascenzio e Carlo); del Sebeto (1635-37, con S. Rapi e Carlo Fanzago). La fontana della Sellaria, già attribuitagli, fu realizzata da O. Gisolfo e O. Calvano (1650-53?); il F. diede inoltre una consulenza per la fontana di Carlo II a Monteoliveto (1675), disegnata da D. Cafaro, realizzata da F. D'Angelo, B. Mori e P. Sanbarberio.
Le guglie, emblemi della propaganda e del potere politico della Chiesa come gli obelischi sistini, si elevano in luoghi significativi dello spazio urbano a celebrare il potere e l'espansione degli Ordini religiosi. La guglia di S. Gennaro si rifà alla tipologia della colonna onoraria classica, ripresa dalla Controriforma; in un primo progetto (1637) il F. aveva pensato, infatti, di utilizzare una colonna di età romana, affrontando problemi tecnici del tipo di quelli risolti da Domenico Fontana nell'elevazione dell'obelisco vaticano. Successivamente il F. delineò una soluzione più composita, terminata nel 1660, svuotata della sua originale matrice classica, proponendo un sorprendente miscuglio di elementi e mostrando una indubbia capacità di comporre forme eterogenee.
Persino citazioni michelangiolesche si possono cogliere nella scala d'ingresso, nel portale della chiesa della Trinità delle Monache e nelle sculture della fontana del Sebeto.
Al 1657 risale un progetto per la guglia di S. Gaetano, non realizzato; gli obelischi sistemati da Fontana per Sisto V e le macchine da festa della tradizione popolare campana sono alla base dell'idea della guglia di S. Domenico, iniziata da Francesco Antonio Picchiatti nel 1658; il F. vi intervenne nel 1665-66, contribuendo a definire un manufatto barocco estremamente ricco, che si differenzia da quelli rigorosamente geometrici e antichi, riproposti a Roma alla fine del sec. XVI.
Il F. collaborò con F. A. Picchiatti anche all'ideazione delle sculture della facciata del Pio Monte della Misericordia (1666) e al restauro della chiesa e del convento di S. Maria dei Miracoli (1675, con D. Tango e D. Lazzari).
Il F. realizzò numerose opere di scultura e di decorazione per città e conventi dell'Italia meridionale (in particolare in Campania, alla certosa di Padula e ad Avellino, in Puglia, a Barletta, in Calabria, a Soriano Calabro, Badolato e nella certosa di S. Stefano del Bosco, in Abruzzo, a Pescocostanzo) che spesso favorirono la nascita di una autonoma produzione locale; restano ancora da approfondire eventuali rapporti con la Sicilia nonché ulteriori scambi con la Spagna.
D. Del Pesco
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A. Spinosa-D. Del Pesco