corda
Il vocabolo ricorre quattordici volte, una nel Convivio e le altre nella Commedia, quasi sempre con valore simbolico o figurato, nei significati seguenti:
" corda dell'arco ", nel passo di Pg XXXI 17 Come balestro frange, quando scocca / da troppa tesa, la sua corda e l'arco, e Pd V 92; usato come primo termine di una comparazione, in If VIII 13 e XVII 136, a indicare movimento veloce (si dileguò come da corda cocca), e, in modo figurato, in Pd I 125 lì, come a sito decreto, / cen porta la virtù di quella corda / che ciò che scocca drizza in segno lieto, dove significa l'istinto che guida le creature ad attingere la propria meta nell'ordine cosmico provvidenziale, cui alludono, soprattutto nella terza cantica, le metafore relative all'armonia musicale e all'arco, al segno o bersaglio prestabilito, alla mira sicura e infallibile.
" Corda di strumento musicale ", come in Pd XIV 119 come giga e arpa, in tempra tesa / di molte corde, e XX 143, con immagine connessa al suddetto tema dell'armonia, che culmina nell'ardita metafora di Pd XV 5 le sante corde / che la destra del cielo allenta e tira, dove i beati appaiono come c. di una lira grandiosa, da cui esce un inno di gloria modulato dal supremo Amore. Appare da questo significato in una variante di codici antichi in Pd XXVIII 9 (come corda con suo metro), ma è effetto del precedente s'accorda; cfr. Petrocchi, ad l.
È la c. in quanto lega (e obbliga) e trascina, imponendo un particolare movimento, in accezione figurata, ma direttamente connessa al significato primario: Pg VII 114, a proposito di Pietro III d'Aragona, che d'ogne valor portò cinta la corda, ove il Buti spiega: " La corda... significa legamento; sicché per questo si dà a intendere che egli era legato, ed obbligato a ogni valore "; con la quale accezione non discordano i riferimenti degl'interpreti a parallele immagini bibliche (" et erit iustitia cingulum lumborum eius, / et fides cinctorium renum eius ", Is. 11, 5), o il riferimento al cingulum militiae del rituale cavalleresco, o all'umile capestro francescano (cfr. più oltre), dove sempre la c. è segno di appartenenza a un ordine, in senso reale o figurato. Così in Pd XXVI 49 Ma dì ancor se tu senti altre corde / tirarti verso lui, che il Buti spiega: " Se tu senti altre corde, cioè altri movimenti che ti tirino ad amare Iddio, come la corda tira chi vi è legato "; ed è qui il senso di " stimoli ", " attrattive d'amore ", come in Pd XXVIII 12 riguardando ne' belli occhi / onde a pigliarmi fece Amor la corda, dove però s'aggiunge la sfumatura dell'essere legato, obbligato, preso, secondo il frasario della tematica erotica cortese.
Indica le c. o strisce della sferza, strumento di pena o d'espiazione, in Pg XIII 39 Questo cinghio sferza / la colpa de la invidia, e però sono / tratte d'amor le corde de la ferza.
Per il segmento che unisce gli estremi di un arco di curva o di circonferenza, o la linea che si immagina di tirare per congiungere gli estremi di uno spazio che abbia forma di arco; in questa accezione il termine indica, in Cv III V 11, la c. che un semimeridiano terrestre sottende.
La c. come " cingolo ", che già s'è vista (Pg VII 114), ma con evidente valore allegorico, in If XVI 106 Io avea una corda intorno cinta, / e con essa pensai alcuna volta / prender la lonza a la pelle dipinta; quella che Virgilio getta, dall'orlo del settimo cerchio, nel baratro, a mo' di richiamo per Gerione.
L'interpretazione dell'allegoria (di cui il D'Ovidio, riprendendo uno spunto del Castelvetro, negò, ma a torto, l'esistenza) è, tuttavia, ancor oggi assai controversa, anche per la duplicità del simbolo (la c. come remedium sia della concupiscenza sia della frode) e per la sua applicazione a due diversi tipi d'azione (nel primo caso si tratta di ‛ prendere ' la lonza, nel secondo di ‛ attirare ' Gerione, simbolo della frode; ma con una sorta di magia omeopatica o con uno scongiuro in qualche modo apotropaico?). L'ipotesi, che risale al Buti ed è accettata da alcuni moderni (ad es. dal Vallone), che la c. indichi il cordone francescano, è oggi tutt'altro che pacificamente accolta: si ribatte che D. non fu mai novizio (le testimonianze di ciò sono assai tardive, ed egli, inoltre, fu destinato, già dodicenne, a nozze) e che i terziari portavano non la c., ma una cintura di cuoio (Ronzoni, Barbi, Chimenz). Per i commentatori antichi, la c. simboleggia, in genere, la frode (o l'ipocrisia), concepita come espediente anche del lussurioso nel suo operare e (in questo caso) come mezzo per asservire a un proprio fine il frodolento; i moderni, invece, preferiscono vedere in essa una virtù opposta ai vizi simboleggiati dalla lonza e da Gerione. Per lo Scartazzini e il Porena sarebbe la continenza, divenuta inutile a D., a questo punto del viaggio, sì che egli può disfarsi e servirsi della c. come di un oggetto qualunque per chiamare Gerione; per il Torraca e il Momigliano sarebbe simbolo della giustizia legale, per il Figurelli della legge, per il Caretti della continenza e della giustizia. C'è stata anche una vivace polemica fra il Pasquazi e il Nardi, che hanno ripreso precedenti interpretazioni, ma svolgendole in un contesto culturale e ideologico più vasto, nell'ambito di un'interpretazione generale del poema. Il Nardi, pur senza dimenticare i riferimenti biblici, insiste sul denominatore comune di seduzione e inganno che connette, secondo l'Etica nicomachea, la lussuria alla frode; la c., in quanto simbolo di continenza, serve ad assoggettare alla ragione gli stimoli della lussuria; in quanto simbolo di giustizia e di fede, s'oppone alla frode, che infrange ogni vincolo d'amore, naturale e sociale; il getto di essa è una sorta d'esorcismo che serve a piegare Gerione al proprio volere. L'interpretazione del Pasquazi s'innesta, da un lato, nel contesto del canto (il riconoscimento del valore dei grandi Fiorentini del passato e della civiltà comunale che essi fondarono, ma anche dell'insufficienza di una civiltà e di una legge che si pongano come un valore assoluto e non come momento di un itinerarium cristiano), e, dall'altro, si richiama alla tensione profetica del poema, al suo proporre una μετάνοια in senso paolino, alla sua attesa dell'imminente παρουςία di Cristo. Ricollegandosi a s. Paolo e all'Apocalisse, il critico interpreta la c. come la legge formulata e applicata; il più alto strumento umano (attuato dall'Impero) per opporsi alla concupiscenza, ma destinato a entrare in irreparabile crisi quando questa scada nella frode, sul piano dei rapporti umani e sociali. Il getto di essa corrisponde alla consapevolezza che la legge è divenuta insufficiente (ed è questo il momento atteso da Gerione, ‛ figura ' dell'Anticristo, per salire dal baratro), e che D., insieme con tutta l'umanità cristiana, deve affrontare le ultime e più gravi lotte, prima del compimento del ‛ secolo ', senza il soccorso della legge e dell'Impero, ma fidando soltanto su un aiuto soprannaturale; nello stesso tempo è un" astuzia di guerra ', in quanto evoca il demonio, ma soltanto per farlo servire ai fini del viaggio provvidenziale. A questa complessa e forse troppo sottile interpretazione il Nardi ha opposto argomenti che vanno, comunque, meditati.
Nel Fiore (CCXVII 12) c. è usata nel senso proprio; in Detto 458 ‛ andare a c. ' vale " andare dirittamente " (Parodi).
Bibl. - Oltre ai commenti citati. v. F. D'Ovidio, Studi sulla D.C., Milano-Palermo 1901; A. Ronzoni, Pagine sparse di studi danteschi, Monza 1901; Barbi, Problemi I 241; F. Figurelli, Il c. XVI dell'Inferno, Napoli 1952; L. Caretti, Il c. XVI dell'Inferno, in Lett. dant. 293 ss.; G. Getto, Il c. XVII dell'Inferno, ibid. 315 ss.; S. Pasquazi, Il c. XVI dell'Inferno (1961), in Lect. Scaligera I 515 ss.; A. Vallone, Il c. XVI dell'Inferno, Torino 1959 (Lect. Romana); ID., Inferno, XVI, 106-114, in " L'Alighieri " III (1962) 25-28; B. Nardi, Novità sul getto della corda e su Gerione, in " Giorn. stor. " CXL (1963) 212-227 (ora in Saggi e note di critica dantesca, Milano-Napoli 1966, 332-354); S. Pasquazi, All'eterno dal tempo, Firenze 1966.