Controllo del giudice e crisi dell’impresa
Nel concordato preventivo una questione essenziale concerne i limiti del controllo affidato al tribunale. La posta in gioco è di tracciare il confine tra potere deliberativo dell’assemblea dei creditori e poteri del tribunale. La Corte di cassazione nella importante pronuncia del 23.1.2013 n. 1521 ha stabilito il principio secondo cui la stessa fattibilità del piano concordatario costituisce oggetto di controllo giudiziario, ma nei limiti della cosiddetta “fattibilità giuridica” e con esclusione della “fattibilità economica”. Il contributo, avvalendosi anche della prospettiva storica, esamina contenuto e conseguenze dell’arresto di legittimità.
In tema di concordato preventivo il potere di controllo del giudice sulla domanda del debitore costituisce forse il principale assillo della dottrina, della giurisprudenza e degli operatori pratici. In questo contributo cercherò di affrontare il nucleo del problema nel nostro ordinamento, dato da quello che si usa descrivere come “controllo di fattibilità” sulla proposta di concordato.
L’attualità del tema non è data soltanto dalle numerose pronunce della giurisprudenza di merito – che concorrono a definire un panorama al momento quanto indeciso sulle condizioni, sui presupposti e sui limiti di tale controllo – ma soprattutto da un importante arresto della Corte di cassazione: la decisione a Sezioni Unite n. 1521/2013.
La rilevanza di questa decisione non è dipende soltanto dall’essere stata adottata a Sezioni Unite. Degno di menzione è infatti anche il metodo seguito per affrontare la decisione: metodo che segnala l’estrema disputabilità della questione sottoposta. Dimostrando grande sensibilità ed attenzione alla giurisprudenza di merito, prima di assumere la decisione la Suprema Corte si è preoccupata di organizzare un pubblico dibattito con i giudici di tribunale al fine di raccogliere dalla loro voce – e non solo dai provvedimenti censiti nelle banche dati della giurisprudenza – tesi e preoccupazioni poste alla base di quelle decisioni; così da favorire anche proposte di soluzione che sarebbe poi spettato alla Corte di legittimità di vagliare in camera di consiglio.
1.1 Il controllo del tribunale nella prospettiva storica
Il controllo del giudice sul concordato (sia esso fallimentare oppure preventivo) costituisce un problema noto alle legislazioni storiche e tuttavia non così risalente nel tempo come potrebbe supporsi. Nelle legislazioni delle origini, ossia negli statuti comunali dell’Italia centro-settentrionale e negli statuti dei mercanti operanti in quelle città il concordato, nelle forme dell’accordo transattivo sul debito maturato tra il debitore ed una determinata maggioranza dei suoi creditori, è costantemente presente. Ma non è mai riservato ai giudici un potere soverchiante la decisione che spetta ai creditori di assumere nel proprio interesse. Il fallimento è considerato sia nella sua dannosità per i creditori che nella sua pericolosità per la società civile. Tuttavia, queste diverse esigenze sono organizzate in modo che il conflitto che dovesse insorgere tra le une e le altre sia risolto a vantaggio della tutela dei creditori, che costituisce la preoccupazione fondamentale dei legislatori del medioevo.
Benché dunque sia sempre rivendicata la dimensione pubblica del fenomeno e l’interesse delle autorità cittadine alla sanzione del fallito, ciò che preme è assicurare il più possibile il pagamento dei crediti. Qualora sia utile a tal fine, è disposto l’arresto del fallito; egli è sottoposto a pene infamanti; e a fini di confessione è trattato con la tortura. Ma se il fallito si accorda con i creditori ottiene una tregua, evita l’infamia e resta obbligato soltanto a saldare per intero tutto quanto deve loro. Queste legislazioni sono di estremo favore per accordi e concordati, che incentivano massimamente1.
Tutto cambia con l’avvento delle grandi codificazioni e con la pubblicazione del codice di commercio francese nel 1807. Il processo di statualizzazione del diritto, già intrapreso in pieno seicento dalle monarchie assolute, giunge al suo compimento ponendo la parola definitiva sul dominio del pubblico potere e sulle sue pretese circa il governo del fenomeno giuridico.
Con riguardo al fallimento – che fu vissuto dallo stesso Napoleone come un grandissimo problema reputazionale della civiltà francese atteso il continuo scandalo che suscitavano i fallimenti dolosi in quell’epoca2 – questa svolta storica determina un’inversione nel rapporto plurisecolare stabilitosi tra l’istanza della “pubblica vendetta” (come allora si diceva alludendo all’affermazione dell’interesse dello Stato in materia fallimentare, e dunque riferendosi alla pubblica punizione del fallito, detenuto agli arresti) e interesse dei creditori. Non è più quest’ultimo a prevalere; vince infatti l’interesse di ordine pubblico alla sanzione del fallito. Cosicché la chiusura del fallimento per mezzo di un concordato non dipende più soltanto dall’accordo tra fallito e creditori – ossia (e più correttamente) dalla deliberazione maggioritaria dell’assemblea dei creditori sulla proposta di concordato – ma dalla conciliabilità di tale soluzione, certamente vantaggiosa per il fallito, con l’interesse di ordine pubblico alla repressione della sua condotta3.
Nonostante l’evidente utilità per i creditori, il concordato non è semplicemente circondato di cautele; è per di più guardato con palese sfavore. Mentre l’ordinanza di commercio del 1673, al fine di scongiurare l’ostruzionismo dei creditori dissenzienti, riteneva sufficiente per l’approvazione del concordato una maggioranza di somme pari ai tre quarti del dovuto, invece il codice richiede, oltre a questa, la maggioranza di teste (art. 519). In un simile clima di sospetto, il concordato deve inoltre essere sottoscritto, a pena di nullità, nella stessa seduta dell’assemblea dei creditori in cui è approvato (art. 522). Si sterilizza, in tal modo, la prassi invalsa nella precedente legislazione della firma del concordato porta a porta; una firma insistentemente richiesta dal fallito e non di rado concessa dal creditore, importunato a casa sua, soltanto per sbarazzarsi del fastidio. Questo modo di fare appare infatti ai redattori del codice non soltanto indecoroso ma anche pericoloso perché sottrae l’approvazione del concordato alla pubblica discussione in assemblea e favorisce così l’inganno dei creditori4.
Quanto però più conta ai fini del nostro discorso è che nemmeno l’approvazione dei creditori è sufficiente per l’adozione del concordato. L’ultima parola spetta al tribunale di commercio: il quale – valutate le opposizioni dei creditori dissenzienti – dovrà decidere se omologare o meno il concordato. Soltanto l’omologazione del tribunale conferirà al concordato deliberato a maggioranza l’effetto della obbligatorietà per tutti i creditori (art. 524). La novellazione determinata dalla legge del 1838, volta a mitigare la severa disciplina dei fallimenti, confermerà questo indirizzo provvedendo a fornire la fase del giudizio di omologazione del concordato di una disciplina molto più dettagliata.
Da questo momento in avanti, l’ultima parola sul concordato spetterà allo Stato.
Circa l’estensione del giudizio, va osservato che benché non fosse stabilito un preciso contenuto, e benché questo stile normativo fosse ripreso in tutti i codici successivi composti sotto l’influenza del codice francese – e così pure nei codici di commercio italiani del 1865 e del 1882 – andò progressivamente a formarsi una consolidata opinione che stimò necessario assicurare a quel giudizio lo spazio determinativo più ampio possibile, fino a invadere completamente l’area già riservata alla determinazione dei creditori; così da realizzare una totale sovrapposizione tra il giudizio del tribunale e il giudizio in precedenza espresso dalla maggioranza dei creditori nella deliberazione assembleare di approvazione della proposta concordataria.
Al pensiero liberale classico, chi aveva ispirato ed ispirava quelle codificazioni, non appariva fuori luogo che il tribunale potesse assumere una funzione tutoria dei creditori. Nella sua opera sul fallimento Gustavo Bonelli scrive parole che meritano di essere testualmente riportate. Secondo il grande fallimentarista, nel giudizio di omologazione il tribunale deve svolgere duplice compito. In primo luogo deve vigilare sulla osservanza della legalità, non solo controllando l’esattezza del computo delle maggioranze, ma anche la ritualità della procedura, e l’osservanza delle regole stabilite per la validità dei contratti in generale e del patto di concordato in particolare. In secondo luogo, ed è quanto a noi maggiormente importa, «il tribunale deve fungere da organo tutelare, appunto come fa di fronte alle deliberazioni del consiglio di famiglia d’un incapace, per rendersi conto della opportunità e serietà del contratto sottoposto al suo sindacato. Certo, la sua funzione resta sempre di controllo; egli non può modificare in alcun modo i termini del concordato […] Ma può sempre opporre il suo veto, allorché i patti del concordato gli appaiano non conformi all’interesse dei creditori, quale egli può apprezzarlo in base al rapporto del curatore, alle discussioni consacrate in verbale e alla relazione del giudice delegato. Il tribunale deve, cioè, vedere se il concordato è nel bene inteso interesse dei creditori. La sproporzione manifesta tra l’importare dell’attivo e la percentuale offerta, le pressioni che ha dovuto usare il fallito per raggiungere la maggioranza, la nessuna garanzia materiale o morale di esecuzione da parte del fallito sono tutte circostanze che possono condurre il tribunale al convincimento che il concordato, comunque approvato dalla maggioranza legale, non merita approvazione»5. Questa soluzione estrema viene successivamente sostenuta da altri studiosi di estrazione liberale, ma convinti della rilevanza pubblicistica del concordato6.
Nella legge fallimentare italiana del 1942, la decisione del tribunale sovrasterà la volontà dei creditori fino ad annullarla. Non sarà sufficiente l’approvazione del concordato da parte non solo della maggioranza ma, in ipotesi, della totalità dei creditori; occorrerà pur sempre che la convenienza economica del concordato per i creditori sia ravvisata anche dal tribunale che, in caso contrario, non pronuncerà la sentenza di omologazione (art. 181). È così formalizzato nella legge il potere tutelare del tribunale: di decidere sopra i creditori e al posto dei creditori quello che, secondo il suo prudente giudizio – e a prescindere dal giudizio espresso dai creditori – dovrebbe convenire oppure non convenire ai creditori medesimi.
1.2 Riforma fallimentare e privatizzazione dell’insolvenza
La riforma della legge fallimentare avviata nel 2005 determina nel nostro ordinamento una ulteriore svolta di portata storica. Cancellando d’un colpo la vecchia legge corporativa che pure aveva disciplinato la materia per oltre sessant’anni nonostante tutte le modificazioni che in quei decenni si erano realizzate negli altri settori del diritto dell’economia, si inaugura un nuovo corso, usualmente etichettato all’insegna della “privatizzazione dell’insolvenza”. Oltre a ridisegnare completamente lo status di fallito, sottraendo il debitore al trattamento infamante in precedenza stabilito in continuità con le legislazioni storiche, si riscrivono completamente le regole sui concordati e si attribuisce grandissima importanza all’esercizio dell’autonomia negoziale e contrattuale nel fallimento, nel concordato preventivo e anche negli accordi amichevoli tra debitore e creditori.
Per quanto più strettamente interessa il concordato preventivo, sono ridisegnati in senso restrittivo gli spazi del sindacato giudiziario. Nel nuovo testo dell’art. 180, dedicato al giudizio di omologazione, non solo è cancellato il potere del tribunale di sindacare (in autonomia rispetto alla opposizione dei creditori dissenzienti)7, la convenienza del concordato; ma con norma generale è previsto che se non sono proposte opposizioni il tribunale, verificata la regolarità della procedura e l’esito della votazione, omologa il concordato con decreto motivato non soggetto a gravame.
Nella nuova versione della legge fallimentare, e del concordato preventivo, è opportunamente posto in luce il ruolo di un elemento di natura non intrinsecamente giuridica: ossia del piano o programma aziendale sulla base del quale è articolata l’offerta sottoposta al giudizio dei creditori. È previsto non soltanto che tale piano debba essere realizzato e depositato agli atti della procedura, ma anche che lo stesso debba essere asseverato da un revisore legale sia circa la veridicità dei dati aziendali su cui si fonda sia circa la fattibilità – ossia la realizzabilità prognostica – del programma proposto (cfr. art. 161)8.
Il deposito del piano e della relazione attestativa sono chiaramente considerati elementi essenziali di quella che generalmente è detta “domanda di concordato” alludendosi non soltanto all’aspetto processuale (ricorso per il concordato preventivo) e alla offerta ai creditori (proposta ai creditori), ma anche alla programmazione economica che è posta alla base di quella offerta (piano attestato di concordato).
Compito del tribunale è di verificare la sussistenza delle condizioni di ammissibilità della proposta concordataria, ossia il rispetto delle condizioni e dei presupposti stabiliti dalla legge per la ammissibilità del concordato preventivo (art. 162).
Sulla base di questa disciplina, tutti si sono chiesti9 quale fosse lo spazio determinativo del giudizio del tribunale. Ricorrendo ad una brutale schematizzazione – che tuttavia rende abbastanza fedelmente il contenuto delle opzioni che tuttora si pongono all’interprete – potrebbe dirsi che, secondo un primo indirizzo, spetterebbe al tribunale esclusivamente un controllo che si usa definire di “legalità formale”, ossia atto alla verifica della sussistenza degli elementi di cui si compone la domanda di concordato (ricorso, proposta, piano aziendale, attestazione, e l’ulteriore documentazione stabilita dalla legge) e della regolare formulazione di ciascuno di essi.
Per un diverso orientamento, oltre a questo primo stadio di verifica sarebbe compito del tribunale di controllare la sussistenza anche della legittimità in senso sostanziale, ossia di verificare se, per quanto qui maggiormente interessa, la relazione attestativa assolva non soltanto formalmente ma anche sostanzialmente alla funzione per cui è prevista. Al riguardo si ha spesso cura di precisare che qualora vi sia l’opposizione dei creditori dissenzienti alla omologazione del concordato, tale opposizione può concernere non soltanto la legittimità formale della domanda ma anche la legittimità sostanziale, e così la fattibilità del piano concordatario.
Un terzo indirizzo sostiene invece che il controllo del tribunale non possa limitarsi esclusivamente al piano della legittimità, ancorché sostanziale, della domanda concordataria dovendo invece investire in ogni caso – prescindendo dunque dalla sussistenza o meno di opposizioni formulate dai creditori dissenzienti – il merito stesso della domanda e dunque la opportunità della stessa. Il che significa, controllo incondizionato e diretto (ossia non mediato dalla verifica di razionalità e completezza della relazione addestrativa) del piano aziendale; in sostanza – attesa l’evidente difficoltà di separare il merito dalla convenienza – controllo sulla convenienza del concordato per i creditori.
Un primo significativo esito dell’acceso dibattito sui poteri di controllo del tribunale sulla domanda di concordato è contenuto nel principio di diritto stabilito dalle Sezioni Unite (Cass. n. 1521/2013) in questi termini: «Il giudice ha il dovere di esercitare il controllo di legittimità sul giudizio di fattibilità della proposta di concordato, non restando questo escluso dall’attestazione del professionista, mentre resta riservata ai creditori la valutazione in ordine al merito del detto giudizio, che ha ad oggetto la probabilità di successo economico del piano ed i rischi inerenti; il controllo di legittimità del giudice si realizza facendo applicazione di un unico e medesimo parametro nelle diverse fasi di ammissibilità, revoca ed omologazione in cui si articola la procedura di concordato preventivo; il controllo di legittimità si attua verificando l’effettiva realizzabilità della causa concreta della procedura di concordato; quest’ultima, da intendere come obiettivo specifico perseguito dal procedimento, non ha contenuto fisso e predeterminabile, essendo dipendente dal tipo di proposta formulata, pur se inserita nel generale quadro di riferimento, finalizzato al superamento della situazione di crisi dell’imprenditore, da un lato, e all’assicurazione di un soddisfacimento, sia pur ipoteticamente modesto e parziale, dei creditori, da un altro».
La riflessione che segue è dedicata esclusivamente al principio di diritto, non soltanto nella sua fondamentale valenza interpretativa, ma anche nella sua precipua funzione di regola per il giudice di merito stabilita in occasione di un determinato processo, ma volta ad indirizzare la soluzione dei casi simili che si porranno.
La formulazione del principio suscita dubbi interpretativi sia per quanto concerne l’oggetto del controllo stesso, sia per quanto riguarda la natura e l’oggetto del giudizio.
Qualche perplessità potrebbe innanzitutto sorgere sull’oggetto del controllo che, pur riferito testualmente al “giudizio di fattibilità” sembrerebbe per altro verso rivolto al requisito di fattibilità. Nel corpo della motivazione si discute invero di “fattibilità giuridica”, da valutarsi ad opera del tribunale e di “fattibilità economica”, rimessa al giudizio dei creditori.
Potrebbe osservarsi che il giudizio sulla fattibilità è espresso dall’attestatore; così che il controllo su tale giudizio dovrebbe concernere la relazione attestativa (e infatti in sentenza è chiarito che oggetto del controllo del tribunale è la razionalità della argomentazione svolta dall’attestatore). Tuttavia, nel principio di diritto sembra ulteriormente stabilirsi un parallelismo tra giudizio sulla fattibilità reso dall’attestatore (e sottoposto al controllo di razionalità del tribunale) e giudizio sulla fattibilità (come detto in senso giuridico) reso dal tribunale (dichiarandosi che quest’ultimo non è escluso dal giudizio dell’attestatore).
Nondimeno, dovendosi giudicare sopra un giudizio, il termine di riferimento non potrebbe essere il termine di quel giudizio. In altre parole, se il giudice deve giudicare il giudizio sulla fattibilità, allora non potrebbe giudicare della fattibilità in se stessa considerata. Del resto, in motivazione non si portano esempi soddisfacenti sul giudizio di fattibilità esercitato direttamente sul piano concordatario esaurendosi, come di seguito chiarito, il sindacato del tribunale sulla riscontrabilità nel caso concreto della funzione obiettiva dell’istituto concordatario che consiste nel superamento della insolvenza del debitore tramite il soddisfacimento concordatario dei creditori.
Dal che l’ipotesi di lettura, da verificare in seguito, secondo cui unico effettivo oggetto del controllo del tribunale sia la relazione attestativa e non il piano che ne costituisce riferimento.
Vi è poi da dire sulla natura e oggetto del giudizio. La natura del controllo del tribunale è di legittimità: il tribunale deve svolgere un controllo di legittimità sul giudizio in questione. La valenza di questo controllo è perimetrata dalla frase secondo cui «il controllo di legittimità si attua verificando l’effettiva realizzabilità della causa concreta della procedura di concordato».
La causa, pur intesa nel senso di funzione, in diritto privato è riferibile non a procedimenti, ma a negozi; nel caso del concordato può al più riferirsi – anziché all’intero procedimento – alla proposta di concordato (ossia all’offerta di soddisfacimento rivolta dal debitore ai creditori). Non potrebbe invece riguardare il piano concordatario che, sempre ragionando in termini di diritto privato, formalizza il percorso adempitivo della proposta.
Potrebbe, peraltro, supporsi che il riferimento nel giudizio di fattibilità al piano quale percorso adempitivo renda rilevante, nel giudizio del tribunale – sotto il profilo del cosiddetto sinallagma funzionale – non il momento genetico, ma il momento esecutivo. Così inteso, tuttavia, il controllo si realizzerebbe entro perimetri non solo angusti, ma anche già posti dal sistema di diritto privato e ribaditi dalla disciplina specifica sulla risoluzione del concordato.
Né aiuta la precisazione del Supremo Collegio sulla concezione della causa fatta propria dal principio. Si discorre di “causa concreta”, con ciò richiamandosi alla nota distinzione tra tipo negoziale e funzione di un concreto negozio, accolta dalla giurisprudenza di legittimità da oltre un ventennio e ormai posta alla base della concezione corrente di causa del negozio10.
Resta il fatto che il richiamo alla realizzabilità della causa concreta del concordato può ragionevolmente interpretarsi in senso lato come riferito alla concreta possibilità di adempimento della proposta (e infatti nel principio si menziona da un lato il superamento della insolvenza e dall’altro il soddisfacimento dei creditori: ossia sempre, e in ogni caso, il raggiungimento dell’obiettivo concordatario). In questa prospettiva, il controllo del tribunale dovrebbe concernere la conseguibilità, in termini di possibilità giuridica, dell’obiettivo concordatario (e dunque della causa concreta del concordato) ora secondo l’argomentazione del professionista, ora secondo il piano concordatario.
Nel primo caso la decisione apporterebbe una restrizione anche alla tesi più rigorosa sul controllo del tribunale (comunque inteso a verificare il giudizio del professionista sulla fattibilità probabile, e non meramente possibile); l’ipotesi va tuttavia scartata chiarendosi nel testo della sentenza come il tribunale debba sempre svolgere un controllo sulla razionalità argomentativa della relazione attestativa.
Nel secondo caso potrebbe apparire sminuita l’importanza della relazione del professionista e del controllo dallo stesso realizzato; il tutto, per far posto ad un giudizio effettivamente non di legittimità, ma di merito reso dal tribunale in termini forse più ristretti di quello espresso dal professionista (limitato cioè alla possibilità – per di più giuridica – e non alla probabilità, di superamento, per via concordataria, dell’insolvenza).
Ma anche questa evenienza può essere accantonata. Infatti il giudizio del tribunale, per come delimitato nel principio di diritto in esame – riferito alla causa concreta del contratto da un lato e siccome da svolgersi sin dal momento della ammissione del debitore alla procedura – non può che concernere la sussistenza in prospettazione della cosiddetta causa concreta del concordato.
Se così fosse, una proposta concordataria avente ad oggetto un trattamento dei creditori conforme a norme imperative di legge secondo una programmazione adempitiva positivamente attestata circa la veridicità del dato aziendale e la realizzabilità economica del progetto (fattibilità) non potrebbe che superare positivamente il controllo di legittimità del tribunale sulla fattibilità giuridica del concordato. Controllo che dunque, anche sulla scorta dell’esaminato principio di diritto, sembrerebbe continuare a concernere la razionalità argomentativa della attestazione di fattibilità economica del piano concordatario. Dal che il sospetto che la giurisprudenza della Suprema Corte resti ancorata all’idea che al giudice non spetti valutare in modo diretto la fattibilità del piano aziendale posto a base della proposta; e che invece sia compito del giudice controllare in primo luogo le condizioni di ammissibilità della proposta (ossia la conformità della stessa al diritto imperativo) e in secondo luogo la razionalità dell’attestazione resa dal professionista sulla veridicità del dato aziendale e sulla fattibilità del piano sviluppato a partire da quel dato.
3.1 Giudizio di fattibilità e sovraindebitamento
Un utile esercizio sulla logica del giudizio di fattibilità può essere svolto con riguardo alle procedure di sovraindebitamento, spesso richiamate dalla giurisprudenza nelle argomentazioni dirette a sostenere la tesi sull’esercizio d’ufficio del potere di controllo della fattibilità del piano di risanamento.
Il legislatore ha stabilito da un lato (cfr. art. 12, co. 2, l. 27.1.2012, n. 3) che nei cosiddetti “accordi” (ma in realtà procedure concorsuali)11 sul sovraindebitamento il giudice debba limitarsi a controllare la idoneità dell’accordo a consentire il pagamento di taluni crediti (crediti impignorabili e tributi di rilevanza comunitaria); dall’altro lato (cfr. art. 12 bis, co. 3, l. n. 3/2012) che nel cd. piano del consumatore il giudice debba verificare, inoltre, la fattibilità dello stesso. Dunque, come emerge già dalla espressione testuale, soltanto nel secondo caso e non anche nel primo il giudice verifica d’ufficio la fattibilità del piano. Inoltre, che tale giudizio sia escluso in caso di “accordi” risulta dallo spazio del controllo in tale evenienza riservato al giudice, essendo tale controllo limitato alla sostenibilità dell’accordo con riferimento soltanto all’adempimento di determinati crediti (e non, pertanto, di tutti i crediti interessati dall’“accordo”).
Se ci interroghiamo sulla ragione sistematica di tale differenza, la scorgiamo facilmente nel diverso ruolo assunto dai creditori nella decisione sulle due diverse procedure concorsuali di sovraindebitamento in esame.
Il cd. “accordo” è sottoposto alla deliberazione maggioritaria dei creditori concorsuali che votano la proposta per deciderne l’approvazione. La natura del procedimento è dunque a) concordataria, b) deliberativa. Il cd. piano del consumatore integra invece una fattispecie di concordato coattivo. In tale procedura il contributo dei creditori si esplica non nella approvazione del piano, fase non contemplata nella legge, ma nella eventuale opposizione alla omologazione del piano medesimo. Nel primo caso la proposta del creditore è approvata dai creditori; nel secondo caso la proposta del consumatore è approvata dal tribunale. Poiché in tale ultimo caso non vi è una preventiva deliberazione dei creditori concorsuali sulla fattibilità del piano, questa essenziale caratteristica è vagliata infatti d’ufficio dal giudice. La regola che possiamo dedurne è dunque la seguente: giudica la fattibilità chi ha il potere di approvare la proposta del debitore.
Si conferma pertanto anche nella materia del sovraindebitamento un generale riparto nelle competenze per il giudizio sulla fattibilità: spettante ai creditori che acconsentono all’accordo (così nei piani attestati di risanamento e di ristrutturazione dei debiti) o che deliberano a maggioranza sulla proposta del debitore (così nel concordato preventivo e nell’accordo sul sovraindebitamento); e spettante invece al giudice soltanto quando su tale aspetto non è previsto un preventivo giudizio dei creditori (così nel piano del consumatore).
Anche all’esito di questa breve riflessione appare confermato che il giudizio di fattibilità appartenga in generale ai creditori, essendo riservato al giudice nei soli casi previsti dalla legge. Il che ben si comprende considerando come la fattibilità del piano involge essenzialmente la ponderazione di un rischio economico (e infatti la cd. “fattibilità giuridica” in nulla si distingue dal ponderato esame sulle condizioni di ammissibilità della proposta, che in effetti nulla hanno a che fare con il significato proprio di fattibilità).
3.2 Controlli di ieri e controlli di oggi
Alla luce della legge in vigore, dovrebbe essere evidente la difficoltà di conclusioni indulgenti nell’accreditare un largo controllo di merito del giudice sulla domanda di concordato. Eppure, nella giurisprudenza di merito si sta progressivamente affermando un chiaro indirizzo volto a disattendere la Corte di cassazione.
Tuttavia, la breve ricostruzione storica con cui si apre questo contributo dovrebbe ridurre di molto l’eventuale sorpresa del lettore. La persistenza nella giurisprudenza di merito degli indirizzi sostanzialistici si spiega agevolmente con il persistere di abiti mentali che possiamo tranquillamente ricondurre agli inizi dell’Ottocento.
Il radicale sospetto, risalente addirittura alla legislazione statutaria duecentesca, nei confronti del debitore insolvente insieme alle convinzioni pubblicistiche sul diritto fallimentare che Napoleone Bonaparte propugnò intensamente (partecipando a ben quattro sedute della commissione sul codice di commercio) fanno sentire ancora forte il richiamo. Del resto, il condizionamento storico non è eludibile; né il diritto fallimentare si presentò mai come qualcosa di veramente diverso da un regolamento di conti tra debitore fallito e creditori arbitrato dal giudice nel sacrosanto interesse dello Stato e dei secondi.
Per dismettere le vecchie mentalità non è mai stato sufficiente il proverbiale colpo di penna del legislatore. Nel nostro caso non credo che basterebbero neppure le riflessioni che volessero contenersi nel mondo del diritto. Invece, e come sempre è accaduto nei periodi di innovazione del diritto commerciale, un faro importante è costituito dalla esperienza economica. Dalla attenta osservazione e da un sincero sforzo di conoscenza di quella realtà e di quella prassi non solo il legislatore ma anche giudici e professori potrebbero definitivamente emanciparsi da pregiudizi quasi imbarazzanti. Come quello del giudice tutore del debitore.
1 Cfr. le ricostruzioni di Santarelli, U., Per la storia del fallimento nelle legislazioni italiane dell’età intermedia, Padova, 1964, passim; Volante, R., Autonomia contrattuale e fallimento tra fondazioni medievali, diritto comune e codici, in Autonomia negoziale e crisi di impresa, a cura di F. Di Marzio e F. Macario, Milano, 2010, 125 ss.
2 Cfr. Colson, B., Napoléon et l’élaboration du Code de commerce (1805-1807), in Liber Amicorum Michel Coipel, sous la coordination de Y. Poullet, P. Wéry, P. Wynants, Bruxelles 2004, 3 ss.
3 Cfr. Mazzarella, F., Fallimento, autonomia contrattuale, impresa: itinerari e figure fra Otto e Novecento, in Autonomia negoziale, cit., a cura di F. Di Marzio e F. Macario, 161 ss.
4 Cfr. le considerazioni di Dalloz, V. A. D., Giurisprudenza di fallimenti, delle bancherotte, e della decozione, prima traduzione italiana, Firenze, 1833, I, sez. VI, 321.
5 Bonelli, G., Del fallimento, III, Milano, 1923, 95.
6 Cfr. Ascarelli, T., Sulla natura dell’attività del giudice nell’omologazione del concordato, in Riv. dir. proc. civ, 1928, 228.
7 Peraltro ammessa solo in limiti prefissati, ossia da parte dei creditori dissenzienti che rappresentano almeno il 20% dei crediti ammessi al voto.
8 Sulla pianificazione dell’insolvenza cfr. Di Marzio, F., Il diritto negoziale della crisi d’impresa, Milano, 2011, 85 ss.
9 Dal che la inutilità di citazioni bibliografiche destinate ad essere gravemente non esaustive.
10 Cfr., per una formulazione della teoria che ha avuto grande successo, Ferri, G. B, Causa e tipo nella teoria del negozio giuridico, Milano, 1966.
11 Cfr. Di Marzio, F., “Ristrutturazione dei debiti”, in corso di pubblicazione in Enc. dir., Annali, VI, Milano, 2013.