CONTINUITÀ DELL'ANTICO (ν. S 1970, p. 725, s.v. Sopravvivenza dell'antico)
«Sopravvivenza», «tradizione», «influsso», «imitazione», «deduzione», «derivazione», «assimilazione», e così via: vasto è il vocabolario che definisce la variata gamma dei rapporti dell'arte post-antica con un Antico spesso dato per scontato e indifferenziato; e ancor più vasto è il censimento, che allunga le bibliografie popolandole di case studies, dei singoli episodi di rapporti fra un'immagine, poniamo, del XII o del XVI sec. e una antica, assunta a «fonte», o a «modello». Vasto quanto incerto, quel vocabolario; e incerto è anche il metodo per la definizione (e più per la prova) di quei rapporti. In bilico fra due competenze disciplinari (quella dell'archeologo e quella dello storico dell'arte post-antica) che, a dispetto della conclamata fratellanza d'origine, molto s'industriano nell'ignorarsi a vicenda, questo tema è di anno in anno più insistente nell'uno come nell'altro campo, ma perde vigore quanto più si fa frequentato e obbligato tòpos, abituale e stanco esercizio di scuola. Anche è venuto in chiaro - senza arrestare, peraltro, quella folla di studi ricchi sì di scoperte, e meno di criterio - quanto abbia marcato e marchi i nostri studi, di là dalle intenzioni dei singoli, l'inarrestabile retroazione d'un modulo descrittivo, e segretamente interpretativo, di segno spiccatamente italiano e rinascimentale: quello dell'artista che scopra il modello antico e subito se ne lasci folgorare traducendolo, più o meno intatto, nel linguaggio e nelle forme dell'arte sua. Quel Rinascimento dell'Antichità aveva inteso esso stesso definirsi per tale, autolegittimandosi mediante l'assunzione in proprio di un'auctoritas che pareva riservata agli Antichi. Ma di quell'unico e prodigioso rinascere nell'arte medievale sono state fatte ormai molte ricerche, disseminando, senza troppo avvertirlo, quel modulo storiografico nel tempo e nello spazio: e agli episodi prerinascimentali nobilitati da un Petrarca (che potevano valere come radici o avvisaglie del Rinascimento) si son venuti affiancando un «rinascimento del XII sec.» e un «protorinascimento fredericiano» e però anche, a ritroso, la rinascenza carolingia (in occidente), quella macedone (in oriente), quella northumbrica (a settentrione); e altre ancora, fino a ritrovare «rinascenze» dell'ideale classico già nel tardo impero, e non solo in Costantinopoli ma nella Roma di Gallieno.
Poiché una tale moltiplicazione di rinascenze in nulla aiuta a comprendere le ragioni storiche di ciascuna di esse, s'è variamente provato a percorrere più d'una strada che le distinguesse l'una dall'altra, disponendole però sempre, rispetto a quel supremo e «definitivo» Rinascimento, in crescendo; mentre più sottoposte agli umori delle ricerche per epoca, e anche del genere monografico e di quello biografico, sempre rimasero altre venature di classicità nell'arte: in Rubens e Poussin non meno che nelle plurime accezioni del Neoclassico. Quasi che, ristabilitasi una volta per tutte, con la Rinascita italiana e il suo imporsi a linguaggio europeo, la comunicazione con l'Antico, di qui innanzi restasse solo da descriverne di tempo in tempo (e meglio di artista in artista) declinazioni peculiari, di temperamento e d'istinto, ma anche di ragionata antologia. In queste più recenti e documentate età si fa più evidente, come in controcanto, che l'Antico a cui si volgevano gli artisti era lo stesso di collezionisti e antiquari, e che gli uni come gli altri vi operavano scelte specificamente mirate; ma di qui non s'è tratta abbastanza l'ovvia lezione, che il problema sta precisamente - e anche nelle epoche anteriori - nel gioco fra l'ampiezza del repertorio potenziale e i filtri della selezione che vi si operò; fra le certezze di un'Antichità ; data e presente in quanto tramandata e i modi della sua percezione, recezione e uso, non da parte degli artisti soli, ma all'interno di pratiche sociali di cui l'artistica è una (e primaria), ma non la sola. A oscurare questi meccanismi ha contribuito non poco - in un processo innescato dal gran modello di Winckelmann - la condanna dell'antiquaria (con le sue pratiche di conoscenza e classificazione) in favore di una Storia dell'Arte fattasi autonomo mestiere. Istituzionalizzata e collocata non più nello spazio dei «cognoscenti» e dei «curiosi», ma ormai nelle Università, essa ha inteso lungamente negare le proprie radici dall'antiquaria, e anzi ne ha incluso la perpetua esecrazione fra i propri riti disciplinari, ponendo se stessa non in successione, ma a improvviso contraltare di quella. La storia dell'archeologia classica (intesa, a sua volta, come Archäologie der Kunst, e perciò fatalmente separata, a lungo, da quell'attenzione agli oggetti minuti e quotidiani che, non meno delle pitture e dei marmi, avevano destato le passioni dei collezionisti e degli antiquari) s'è per questo fatta principiare nell'Ottocento tedesco, proprio quando essa prendeva posto negli elenchi di cattedre universitarie e affermava per tal via il proprio statuto di scienza; senza avvertire quanto, in una tal sistemazione, vi fosse di candidamente autobiografico. Nella gran miniera inesplorata degli scritti antiquari s'accettava di ripescare semmai, con una qualche condiscendenza, rari e sparsi barlumi da recuperarsi a intuizioni di precursori brancolanti, per il resto, nel buio.
Si è così occultato nelle nebbie di un passato «pre-scientifico» l'intreccio vitale fra antiquaria, collezionismo e pratica artistica; e l'avvenuta divaricazione fra le pratiche della classificazione antiquaria e quelle della bottega e del fare d'artista non solo si è stabilizzata fino a parere ovvia, ma anche s'è proiettata all'indietro facendosi persistente filtro al giudizio storico. Per questo ci è stato così facile dimenticare che non vi sarebbe mai stata erudizione d'antiquari senza l'attenzione degli artisti per l'Antico; e che, per converso, la spregiata antiquaria pur fu per gli artisti pozzo di conoscenze onde attingere, in ordine, il modo «corretto» di rappresentare le storie e i costumi antichi: e perciò non libresca congerie di vuota erudizione che vanamente allinea, neppur bene intendendoli, testi e monumenti, ma anzi paragone e lievito al rinnovarsi dei temi e dello stile.
Quel vocabolario e quel modello, che per spirito d'anagrafe si prestava a constatare qua e là, quasi con lieta sorpresa, il Nachleben di frammenti di un'Antichità per il resto ovviamente defunta, sono entrati in crisi dunque non solo come reazione a un moltiplicarsi di piccole rinascenze che a quel morire e rinascere davano troppi sussulti, ma anche perché, inavvertitamente, la gran massa di frammentati lavori sugli studi che gli artisti, e non gli antiquari, fecero dell'Antico, ha finito col far blocco e col ricordare (con l'imponenza stessa dei fatti) agli storici dell'arte antica che essi avevano rinnegato, fra i loro predecessori, non solo Flavio Biondo e Pirro Ligorio e il conte di Caylus, ma anche Rubens e Raffaello e Mantegna. Puntare sulla «continuità dell'antico» vuol dire dunque in primo luogo insistere sull'incombente e massiccia presenza fisica, sempre (e specialmente nelle città italiane, primissima Roma), di monumenti antichi e sulla loro valenza di repertorio potenziale, che può valere come filo rosso rispetto a un catalogo delle scelte per definizione più ristretto; in secondo luogo, riannodare quel filo reciso che pur lega la storia dell'arte alla produzione dell'arte. Partire, dunque, dagli oggetti (il Colosseo e un sarcofago, un capitello e le monete, le gemme), e ricostruire intorno a essi, in trama incessantemente mutevole, [a] il loro contesto d'origine, con gli strumenti della scienza dell'antichità; [b] gli usi che ne furon fatti, da allora in poi e fino a oggi, coi contesti relativi; la trama degli sguardi che si posarono via via sui monumenti, orientandone varie forme d'uso, di percezione e di valutazione: di ecclesiastici e laici, di artisti e collezionisti, di antiquari e archeologi.
Ogni modello interpretativo degli usi dell'Antico che voglia superare (ma con gli strumenti per vagliarne e inglobarne i risultati) la prassi del nudo censimento (d'ipotesi o di «dati») deve dunque mettere a fuoco, prima che il singolo artista o il singolo episodio, determinate pratiche sociali di lungo periodo: da leggersi, sempre, in controluce su quello sfondo di continuata, e però non immobile, presenza fisica di un'antichità fatta non dei soli monumenti e trovamenti, ma dell'aura che visibilmente ne emanava. Prima fra tutte, la linea ferma e continua di una «pratica artistica» incentrata sul tramandarsi, in bottega, delle abilità di questa o di quell'arte e nutrita sempre di tradizione sovrapersonale e d'individuale invenzione; sulla gara - di tempo in tempo più o meno esplicita e assidua - coi confratelli nell'arte; e infine sulle attese del pubblico, che mutano di città in città, ma anche a seconda del luogo di destinazione (p.es., pubblico o privato) di una statua o di un dipinto. In un tal quadro si dispone l'uso di un repertorio di temi e schemi, che fa parte - come il pennello o lo scalpello - dell'attrezzeria di bottega e, come quella, può essere trasmesso e rinnovato. Quel repertorio è innanzitutto mentale, e come tale affidato però non alla sola memoria dell'artista ma anche a quella del suo pubblico, se esso deve riconoscervi le figure e le storie dei santi e degli eroi; ma vuol tradursi, anche, nella dimensione del disegno o del taccuino di copia, d'esperimento o d'appunto: secondo le parole di Cennino Cennini (che descrivono una prassi consolidata), il pittore deve, per temprarsi nell'arte sua, girare per le chiese con «una tascha fatta [...] di legniame leggiera, [...] buona per tenervi i suo' disegni, ed eziandio per tenervi su il foglio da disegniate» e ricopiarvi con diligenza «che spazio gli pare o storia o fighura che vogli ritrarre», provando e riprovando finché «si conchordi la sua fighura coll'essempro» (Libro dell'Arte, capp. 29-30). È in questi taccuini, esercizio stilistico e archivio lessicale, o fissazione grafica di un repertorio mentale, che prenderanno posto, accanto a vergini annunciate, magi adoranti e santi al martirio, figure e scene tratte da sarcofagi romani: il disegno dall'antico si colloca dunque - sin dagl'inafferrabili inizi - entro uno spazio istituzionalizzato e dominato da proprie regole e filtri di selezione; ed è in riferimento a quelli che dovrà, caso per caso, essere giudicato.
Accanto all'artista, un posto di gran spicco deve subito prendere il ruolo del committente (la cui definizione si complica quanto più vi concorrano figure «altre», ma decisive: tipicamente, quella del suo «consigliere», che può fornire suggerimenti e materiali per le «storie»), determinante non solo, per la scelta di questo o di quell'artista, come misura e guida dei mutamenti del gusto; ma anche come indizio e sigillo di approvazione, e graduale consacrazione, della via che l'artista aveva preso. Le figure «all'antica» dunque non erano solo dell'artista, solitarie sue proiezioni, sogni, visioni: ma in misura eguale spettano alla volontà e alle intenzioni del committente (preoccupato, sempre, del pubblico che avesse accesso, in chiesa o in palazzo o in casa, all'immagine da lui voluta e pagata), e perciò vanno intese, in spola d'intendimenti e di esperimenti, come manifestazione e patrimonio collettivo. Passione e gusto per l'antico si spostano per tal via dalla folgorazione del singolo artista al livello delle pratiche sociali. È a questo livello che può aver senso proporre, sullo sfondo della costante presenza fisica delle antichità e senza negare le molteplici e talora drastiche fratture, un modello di tradizione dell'antico fondato sulla presunzione di «continuità».
Tale continuità s'innesta strettamente sull'altissima standardizzazione del linguaggio artistico che già s'era prodotta nell'età imperiale romana. Essa spiega come l'iconografia dell'adventus (v.) imperiale abbia senza salti rappresentato l'ingresso del Cristo in Gerusalemme, o lo schema dei barbari offerenti si sia tradotto in quello dei Magi delle Natività. Com'era quella la formula appropriata, una volta per tutte, a presentare «l'arrivo» o il gesto del dono, egualmente prendevano stabile posto, in una linea tradizionale, le forme del lessico architettonico: né mai ebbe bisogno di rinascere, perché non morì mai, la formula più nobile e più elementare, la colonna col suo capitello. Possiamo caratterizzare questo processo in primo luogo come la prosecuzione, tipicamente di lunga durata, di «norme di genere» certo meno esplicite di quelle ripetutamente enunciate nei trattati di retorica, ma non meno efficaci né meno persistenti di esse, e organizzate intorno al principio della pertinenza funzionale di forme date a corrispettive valenze rappresentative e/o espressive: le formule della maestà come proprie di (o pertinenti a) sovrani e vescovi, i gesti del dolore come funzionali alla raffigurazione della morte mediante, anche, le reazioni emotive degli astanti. La relativa costanza di tali norme di genere discende direttamente dal valore d'uso degli oggetti d'arte che, ancorando a uno specifico ventaglio tematico e funzionale la scelta di forme di volta in volta «adatte» in quanto garantite dalla tradizione e dall'uso, ha il vantaggio di corrispondere a un repertorio entro cui pescare, ma anche a una griglia di valori etici e/o estetici, che funge da filtro orientando di caso in caso, e rispetto a finalità specifiche, la selezione dei modelli.
Alla standardizzazione del linguaggio e alle corrispettive norme di genere corrisponde strettamente, nella tradizione artistica, il «primato della serie» rispetto all'emergere del monumento singolo. La serie va intesa al tempo stesso sia in senso sincronico (con riferimento alla produzione di massa di oggetti d'uso o d'arte: lucerne a stampo, ma anche copie da Policleto e sarcofagi con la storia di Oreste), sia in senso diacronico (con riferimento al tramandarsi del repertorio nelle pratiche di bottega). L'esistenza stessa delle serie iconografiche, in quanto costitutive di una sorta di lessico mobile, ma pur sempre organizzato intorno a un minimo nucleo di costanti, è cruciale in questo contesto. Essa rappresenta di per sé sola una sfida allo storico, in quanto sorpassa d'un sol colpo l'idea stessa di un repertorio «chiuso» di antichità, e orienta piuttosto verso un'analisi morfologica delle immagini centrata sulla circolazione (che può naturalmente essere saltuaria) di tòpoi figurativi e sulle procedure di costruzione di immagini complesse mediante (anche) il montaggio di formule tolte dal repertorio di bottega o da altri adiacenti (di altra bottega, scuola, città; oppure, con o senza intermediari, dall'antico). Ma puntare sulla serie non vuol dire, naturalmente, rinunciare al compito, strettamente filologico, di descrivere e provare, di caso in caso, diversi livelli di citazione o riuso di formule classiche. Al contrario, è necessario considerare con egual attenzione il loro significato e contesto d'origine, la loro pertinenza (o meno) a una serie determinata, e infine il loro significato in contesti più tardi (medievali o post-medievali). Il gioco fra l'onnipervasiva presenza fisica delle antichità e il carattere morfologico e seriale della tradizione artistica rende però chiaro come anche le deduzioni da un singolo monumento antico precisamente documentate e provabili per tali prendono il loro giusto rilievo solo sullo sfondo (non meno preciso, e tuttavia ancora da analizzare adeguatamente) della «serie» a cui appartengono. L'arte classica può così essere intesa non come un corpus chiuso; «morto» per poi «rinascere», ma come un lessico, di lunga durata, di formule e gesti, un repertorio di conoscenze «tecniche» sui modi di rappresentare la natura e il movimento, la profondità spaziale e i sentimenti umani.
Nel quadro sin qui delineato, un modello antico può intervenire nella pratica artistica a varí livelli, dei quali gli estremi sono: [a] un livello di consumo: lo schema antico è reimpiegato, per tradizione costante, senza alcuna coscienza, ancora, della sua origine classica; [b] un livello di riuso: lo schema è prelevato direttamente da un modello antico, e pertanto con precisa coscienza della sua derivazione. Importa qui insistere sull'esistenza di livelli intermedi: per esempio, uno schema può essere prelevato direttamente da un modello antico non in quanto assolutamente estraneo al repertorio corrente (che quel determinato artista aveva assimilato nel suo apprendistato di bottega), ma al contrario precisamente in quanto a esso morfologicamente prossimo, e perciò riconoscibile nel suo significato e nelle sue valenze espressive, e tuttavia giudicato di livello, o di «stile» più alto; o, semplicemente, più efficace. Egualmente, il basso latino dell'ininterrotta tradizione ecclesiastica poteva provare a rimodellarsi, ma proprio in grazia della sua prossimità, su quello di Livio e di Cicerone. Un identico discorso può qui valere e per il reimpiego delle forme e per quello degli oggetti: un capitello può essere ripetuto (per «imitazione», «deduzione», ecc.) o prelevato fisicamente dalle rovine e collocato in un nuovo edificio. Nell'un caso come nell'altro, la prossimità del modello, o dello spoglio, al repertorio corrente, ê necessaria a innescare il meccanismo del reimpiego, e a spiegarne i filtri di selezione rispetto alla vastità del repertorio potenziale. Il riuso di un modello antico dunque non segna cesure rispetto al filo rosso della tradizione artistica col suo carattere morfologico e seriale: ma anzi s'innesta nella serie, la ravviva e la rinnova dall'interno.
Il livello del riuso è caratterizzato, tipicamente, dalla ripetibilità degli elementi all'interno di un sistema di valori che si presume costante; e, per converso, lo stesso riuso, in quanto implica la persistenza di valori dati per costanti, ha una funzione stabilizzante. Essa si traduce in meccanismi e pratiche sociali di conservazione degli elementi da riusare, di legittimazione del loro valore in quanto stabile e tendenzialmente normativo, di traduzione di ogni singolo elemento in formula topica, e come tale adattabile ai contesti via via rinnovati. Tali meccanismi e pratiche sociali, nella mescolanza che loro è propria (con infinite varianti) fra discorso di consumo e discorso di riuso, prendono la forma della tradizione, legittimante e autoassertiva. Ma va qui sottolineato un fatto assolutamente peculiare della tradizione occidentale: la tendenza a guardare alla propria tradizione artistica con un marcato gusto retrospettivo, che fu elaborata dalla cultura antica (greco-romana) già al proprio interno. Con movimento rarissimo nella storia umana, i Greci (già dall'età ellenistica) assunsero a modello perpetuo l'arte del passato, generando per un verso la pratica e poi l'industria delle copie dai grandi artisti del V e IV sec. a.C. (e il collezionismo connesso), e per l'altro l'esercizio, a essa parallelo, della primissima storiografia dell'arte, che gli artisti stessi avevano iniziato a produrre, e di connesse, specifiche pratiche sociali (la firma d'artista, il mercato e il prezzo delle opere antiche, la visita ai santuari intesi, anche, come raccolte di opere d'arte, e il connesso genere letterario della periegesi; la preoccupazione per la cronologia degli artisti e delle loro opere). Quel gusto, che già aveva innalzato a «classica» l'arte greca di quei secoli, generò, insieme, anche il mutamento di status e di funzione dell'opera d'arte (da oggetto di culto a oggetto di collezione; da unicum a riproducibile) e dell'artista; e dette specialissimo risalto alle varie forme di deduzione, citazione, imitazione più o meno creativa dall'arte del passato, inserendo fra i marchingegni di bottega anche l'inedita possibilità di un «ritorno» stilistico ai modi propri delle generazioni o dei secoli anteriori. Si può dunque dire che il classicismo è già una dimensione «interna» alla tradizione classica, e anzi ne caratterizza e ne determina le forme della trasmissione; inoltre, ne organizza la funzione legittimante nelle pratiche sociali di lungo periodo.
Ma il giudizio sull'arte greca, esaltata per singolarissima eccezione da una sua propria letteratura e con ciò proiettata su un piano diversamente istituzionalizzato, non solo la innalzava, nell'antichità stessa, a modello nella pratica artistica, ma nella cultura e nella mente dell'osservatore sempre si traduceva in uno specifico vocabolario che, fin entro l'avaro compendio di Plinio, perpetua, cristallizzandosi in formula, linguaggio e paradigmi di una discussione sull'arte originatasi talora fino a cinque secoli prima di lui. Quella visione marcatamente retrospettiva includeva dunque (anche in età romana) la prosecuzione di pratiche di produzione e bottega, ma anche di valutazione, memoria e giudizio sull'arte: insomma, di gusto. Fra queste, il riconoscimento dell'individualità dell'artista: esso tuttavia valse, in età romana e presso i Romani, solo per l'arte greca, e non per la propria (che resta sostanzialmente anonima), aprendo così un assoluto divorzio fra pratica e memoria dell'arte. Esso è ben evidente nei testi romani (a partire da Plinio); e se anche a lungo l'arte classica fu vista come un blocco unico, senza afferrabile distinzione fra Greci e Romani, è importante rilevare che fra gli uni e gli altri già le fonti antiche invitavano a tracciare una decisa linea di confine. L'arte greco-romana poté dunque valere sostanzialmente, nell'età post-antica, come un repertorio sincronico: eppure esso recava in se stesso, e nelle fonti che potevano commentarlo, delle linee di frattura la cui definizione finirà, anzi, per costituire uno dei compiti essenziali della storiografia dell'arte antica.
Lo statuto di oggetti e forme dell'arte antica ebbe dunque sempre, e ha, due diverse dimensioni possibili: esso può disporsi, a livello d'ininterrotte pratiche e norme, in candida continuità con l'antico; o invece consapevolmente ripescarvi modelli, da riproporre per tali o da travestire più profondamente inglobandoli fino a renderli tendenzialmente irriconoscibili. Ma il secondo caso non potrebbe darsi senza il primo, e solo su quello sfondo prende il suo posto reale; e in ambo i casi, ma più nel secondo, l'arte antica - mentre viene reimpiegata a modello - trascina con sé per naturale movimento quella stessa dimensione «classicistica» che già l'aveva caratterizzata nei suoi secoli ultimi. Essa è un ingrediente ineliminabile (anche se avvertito con livelli di consapevolezza di tempo in tempo variabilissimi) del gigantesco repositoriurn dell'arte antica, che valse nelle età successive come repertorio potenziale. Ma il catalogo delle antichità visibili (a Roma come altrove) non è che uno dei due poli di una specifica linea di tensione: all'altro polo, il catalogo (che assolutamente non coincide con quello) delle antichità «viste» o usate dagli artisti. A un estremo, la presenza (inerziale) di un archivio, o repertorio potenziale, che naturalmente può arricchirsi di nuove scoperte; all'altro, i filtri (mutevoli) della selezione: l'occhio di un artista o di un curioso, l'attenzione di un collezionista, di un antiquario. Come è ovvio, è proprio questa selezione che - in quanto consapevole e attiva - si rivela determinante nella storia dell'arte, né si può giudicarla se non per quello che è, una scelta appunto, frammezzo alle tante offerte, dal generoso archivio dei marmi antichi. È dunque evidente che il catalogo delle antichità «visibili» (in quanto aiuti a comprendere i meccanismi della selezione e del gusto) va stilato seguendo altre strade (testi, documenti, iscrizioni). Catalogo delle presenze e catalogo delle scelte: la spola fra l'uno e l'altro, condotta per tagli sincronici, potrebbe tracciare preziose coordinate di gusto, tanto più quanto meglio s'imparerà a distinguere fra diversi e non coincidenti livelli di accesso alle antichità, dallo studio diretto del marmo antico a quello del disegno che altri ne ha tratto. È qui che prende posto la stabile promozione del disegno dall'antico a suo sostituto, che può trasfigurare, per l'artista e più tardi per l'antiquario, l'analisi di un taccuino o la costruzione di un museo cartaceo in immaginario, ma fecondissimo itinerario attraverso i marmi di Roma.
Pratica pittorica e ruolo del committente e del pubblico; standardizzazione del linguaggio e corrispettive norme di genere; statuto dell'artista e gusto retrospettivo, o classicistico, fissato ab antiquo nella pratica e nella letteratura artistica; serialità delle immagini nella tradizione artistica e approccio morfologico, con la distinzione fra discorso di consumo e discorso di riuso; infine, la spola fra il catalogo delle presenze di antichità e quello, assai più avaro, delle scelte: sono, queste, altrettante linee di tensione, la cui ampiezza d'oscillazione spesso è inesplorata. Chi volesse provare a costruire un modello interpretativo degli usi dell'Antico fondato sulla continuità di determinate pratiche sociali di lungo periodo dovrà cercare di figurarsi in prima istanza il centro del campo, l'incrocio di quelle linee di tensione o la sovrapposizione di altrettanti campi di forza, come un luogo «vuoto», e non occupato già da uno schema, da un'interpretazione precostituita (di modello più o meno marcatamente «rinascimentale»): per collocarvi poi, in tagli sincronici e in linee di tradizione, le scelte e gli scarti dei singoli artisti, ma su quello sfondo più largo e più arioso.
Parlando, in quest'ambito, di «c. dell'antico», dev'essere tuttavia sempre chiaro come in ogni età (anche nella nostra) la distruzione e/o dispersione di monumenti e di opere d'arte antiche - che di per sé suggeriscono, piuttosto, fratture e discontinuità - sempre convissero con la conservazione e l'attenzione per le antichità: gli stessi marmi furono, nello stesso periodo, ridotti a calce e frantumati, ma anche esaltati come mirabilia Urbis. La coesistenza di diversi, se non opposti, usi dell'Antico è precisamente, allora come ora, il fatto storico con cui misurarsi;, e l'incessante presenza fisica è per gli uni e per gli altri lo sfondo comune che, anzi, deve suggerire di per sé solo un'attenta distinzione fra la mera presenza delle antichità e il loro uso. Analogamente, le opere di Aristotele divennero accessibili (in traduzioni latine dall'arabo o dal greco) all'incirca fra il 1150 e il 1250: ma prima del 1150 esse non erano né «perdute», visto che in seguito fu possibile recuperarle, né tuttavia «in uso». Inoltre, anche quando fu approntata una traduzione latina, passarono decenni, e talvolta secoli, prima che essa diventasse generalmente nota; fino a quando, infine, i testi originali greci non furono a loro volta «trovati» (il che fu possibile precisamente perché essi erano conservati altrove). L'esistenza di un testo dato (p.es. in una biblioteca monastica) va ben distinta dalla sua circolazione; ma, per converso, la circolazione presuppone la sua esistenza, e una qualche forma di conservazione, che non è mai solo passiva. Ugualmente, l'Antico in senso lato può essere inteso come un «altrove». Ciò che è venuto cambiando, è in che misura possiamo sentirlo vicino e raggiungibile.
Si può ora delineare, riassuntivamente, un modello interpretativo fondato su una presunzione di c. dell'antico. Esso tenta di costringere i destini !e la fortuna dell'arte antica entro uno schema articolato in tre stadi caratterizzati da altrettante parole-chiave: continuità, distanza, conoscenza. Essi sono disposti in crescendo, nel senso che ciascuno stadio supera i precedenti, ma non li cancella né li nega: fra l'uno e l'altro, i leganti sono in primo luogo gli oggetti tramandati, con la loro imperiosa presenza fisica, e in secondo luogo pratiche sociali di lungo periodo, come la persistenza di norme di genere che spinge al riuso di temi e schemi, oltre che di cose; la curiosità per le tecniche; il valore di scambio legato alle forme d'uso, al prezzo e poi al mercato; inoltre, il passaggio dall'uno all'altro stadio ha, di luogo in luogo, cronologia e modalità differenziate.
Nel primo stadio, l'attitudine verso le antichità romane può essere caratterizzata come continuità. Il crollo delle strutture statali romane in Occidente, che pur provoca un fatale allentarsi di determinate pratiche sociali e artistiche, certo non comporta la cancellazione del volto romano d'Europa, anzi, mentre sullo sfondo di un brusco calo demografico si svuotano le terme, tacciono i teatri e s'interrompono gli acquedotti, giganteggiano sempre le rovine. La presenza fisica dell'antico vale, nel Medioevo, come inesauribile deposito di memoria e di forme, serbatoio e paradigma. La topografia degli spolia non è da intendersi come meramente distruttiva, ma anzi presuppone e invera processi di selezione orientati dalla funzione e dal gusto e tendenzialmente assimilabili a quelli che governano il riuso imitativo di forme classiche (un capitello, un gesto, un panneggio) o la loro rielaborazione dinamica e creativa.
Il luogo fisico dell'accumulo delle antichità fa corpo con la sua condizione istituzionale: l'uno e l'altra sono definiti dalla pratica del reimpiego, in quanto collocata fra due poli, il rudere (pagano) e la chiesa (cristiana). Paradossalmente, le rovine sono al tempo stesso, simbolo e prova della fine del paganesimo, ma anche magazzino e repertorio per l'architettura cristiana. Quanto più, anzi, si voglia affermare che la fine della religione pagana fu provvidenziale, tanto più si esalteranno le rovine dei suoi templi: proprio la Roma fracta insegna quanto sia stata grande la città integra, prima della sconfitta del paganesimo. Così alla frammentazione del riuso corrisponde, e per l'identica necessità, la reintegrazione di senso (guidata dalla prosecuzione di specifiche norme di genere), che ricolloca l'architrave scolpito, l'acanto sapiente dei capitelli e le scene incomprensibili e mosse dei sarcofagi entro il repositorium inesauribile della città antica e delle sue tecniche. All'altro polo, gli edifici sacri: è qui che si dispongono non solo i frammenti di architetture antiche, ma anche (nell'atrio, nel chiostro o tutt'intorno) i sarcofagi e (nel tesoro, o incastonate in rilegature d'evangeliari, in busti e casse per reliquie) le gemme romane. I frammenti antichi, inoltre, vi sono esibiti e mescolati insieme con curiosità naturali come corna di unicorno, meteoriti, uova di struzzo: la chiesa è dunque il luogo che raccoglie, offrendoli al fedele come altrettanti exempla, i mirabilia, naturali e artificiali. Le antichità sono fra questi, exemplum però non solo etico e religioso (come rinvio alla caduta del paganesimo), ma anche tecnico (come rinvio ai modelli tramandati dai Romani).
Spolia in re (mediante il trasporto fisico di oggetti antichi - sculture, elementi architettonici e gemme - e la loro inclusione in un nuovo contesto) e spolia in se (oggetti creati ex novo, ma sulla base di modelli antichi) sono dunque le due facce di una stessa medaglia: l'antichità vi appare non più percepibile nella sua totalità, eppure fortemente caratterizzata e dotata di senso. Questo senso s'incarna e si traduce nel principio di auctoritas, che avvolge come un'aura le tramandate antichità, ed è definito da un lato dalla loro presenza, visibilità e accessibilità, e dall'altro dal vuoto (relativo) di conoscenze e abilità tecniche corrispondenti, e più ancora dalla coscienza, o dal senso, di quel vuoto.
Il passo successivo è l'assunzione progressiva, rispetto agli Antichi, della distanza storica: l'antico è visto ormai come un mondo in sé concluso e organizzato da poprie norme interne (che possono essere recuperate, o ricostruite); non più un magazzino sotto casa, donde prelevare quello che via via occorre, ma un mondo remoto, da comprendere nel suo insieme. Da indefinito e contiguo, il tempo dell'antichità si fa misurato e lontano, separato non solo da una superiorità gerarchica, ma da una cesura epocale, caratterizzata dalla verifica dei racconti tramandati mediante un processo di prova ed errore (ed è qui che muoiono le leggende sugli Antichi, e tornano in onore le loro storie sopravvissute: le fonti), e dal carattere marcatamente normativo con cui testi e monumenti antichi vengono citati e ripresi, in polemica contrapposizione alle pratiche del presente, e per additarli a nuovo, attuale modello.
Pratiche sociali consolidate, come il reimpiego e l'imitazione dall'antico, proseguono mutando di luogo e di segno. Luogo fisico privilegiato dell'accumulo delle antichità non è più la chiesa, ma la casa: del mercante, del vescovo, del dotto. È una nuova forma di riuso, la collezione, che laicizza le antichità trasportandole in uno spazio squisitamente privato e disponendole ora entro le nicchie o le arcate di un cortile, ora negli armadi di uno studiolo. È facile notare che il primo caso, riservato alle sculture e ai frammenti architettonici, prosegue la pratica del reimpiego negli edifici sacri; come il secondo, che include gemme, bronzetti, monete e piccoli marmi, si riannoda con filo ininterrotto ai tesori di cattedrali e re. Inoltre, queste raccolte mescolano di norma le antichità alle curiosità e rarità naturali, coralli di Trapani e denti di pescecane, ammoniti e glossopetre, rose di Gerico e giade d'Oriente e ogni sorta di bijoux savants: anche qui, in piena continuità con le usanze dei secoli anteriori.
Muta di segno anche la trascrizione o l'imitazione dall'antico: dall'indefinita contiguità di un serbatoio di molteplici modelli, equivalenti ed equidistanti, si vien formando l'idea che si possa distillare un superiore e compatto codice di norme che servano di esempio su cui modellare le pratiche presenti e future, ma anche di metro per giudicare il passato, disponendo in gerarchia di valori, rispetto a quelle, le stesse antichità. Diventa così assai più facile porsi in gara con un Antico nel quale è possibile, anche, riscontrare «errori». I marmi di Roma valgono, ancora, come un repertorio potenziale, che tuttavia l'impulso alla collezione e il nuovo lievito del giudizio d'arte sommuovono, arricchendolo e modificandone le interne gerarchie di valore. Ma fra il catalogo delle presenze e il catalogo delle scelte artistiche operano filtri di selezione e modi del riuso di volta in volta assai varí. La prosecuzione dei generi s'accompagna a un radicale ampliamento del repertorio dei temi e dei gesti, che per la gara fra gli artisti subito si traduce in corsa all'«inventione», ora pescando francamente nell'antico, e ora provando a reinventarlo, per congettura o folgorazione; ma sempre aspirando a legittimare ogni nuova creazione come il ricorso a una norma perduta, e ri-trovata. È muta, insieme, significato e senso delle rovine: luogo dove cercare, ancora, la grandezza di Roma o il Laocoonte; e però donde intendere, in crescendo, i tipi e l'uso degli edifici, la traccia degli imperatori e dei consoli: la storia, insomma, di Roma. Dal De varietate fortunae di Poggio (1431-1448), dove il tema cristiano della riflessione sulle rovine di Roma come segnacolo della storia della Salvezza si trasforma in descrizione topografica dell'Urbe inglobando una rassegna di fonti antiche, questa linea approda all'impresa progettata da Leone X e da Raffaello (1518-20), di «porre in disegno Roma anticha, quanto cognoscer si può per quello, che oggidì si vede», fondandosi su una scrupolosa misurazione delle rovine.
Il frammento è ormai diventato monumento; esso resta un modello potenziale per la pratica artistica del presente, ma a patto che sia passato al vaglio di un giudizio che si fonda sopra un'idea, continuamente messa a punto e perciò sempre mutevole, di quale fosse la «vera» norma antica. L'auctoritas trapassa, senza nulla perdere della sua forza, in vetustas: e se l'antichità-dMciomas era percepita per irrelati frammenti e sparse membra, l'antichità-vetustas è concepita come un intero perduto, ma ricostruibile, nel quale ogni frammento, ogni monumento può e deve essere ricollocato. L'auctoritas orienta il riuso (in re, in se) in base al principio dell'accessibilità dei frammenti e della persistenza delle pratiche; la vetustas, al contrario, orienta il riuso in base al principio del giudizio selettivo sui monumenti e a corrispondenti opzioni normative. S'innesca così un processo di «vedere ricostruendo» che conduce, per due strade che solo lentamente si verranno distinguendo l'una dall'altra, da un lato alle procedure del congetturare filologico per combinazione di testimonia testuali e visivi; e dall'altro alle audacie del reinventare, per analoga e però più labile combinazione, producendo quello che più tardi sarebbe venuto in chiaro come «falso». Dell'una e dell'altra operazione, l'eroe sarà Pirro Ligorio: ma egli certo vedeva se stesso come l'erede di Raffaello; del Raffaello, dico, della lettera sulle antichità e della ricostruzione in figura di Roma antica.
Il terzo e ultimo stadio è la conoscenza dell'antico. La transizione dell'antichità (greco-)romana dalla condizione di auctoritas a quella di vetustas non segna in alcun modo una crisi dei valori e dei modelli degli Antichi. Al contrario essi, per il fatto di appartenere a una fase definita e conclusa della storia umana, acquistano un contorno più fermo e più chiaro e ne ricevono nuova legittimazione e forza: la precisione della distanza. La superiorità gerarchica, garantita dalla continuità della linea tradizionale, viene così trasformandosi nel più sottile e duraturo effetto di straniamento, quale può produrlo la graduale riscoperta in toto (un lavoro nel quale siamo impegnati ancora oggi) di un mondo radicalmente concluso e «altro». È per questa strada che la ricostruzione del mondo antico - che finiremo col chiamare «archeologia» e «filologia» - entrerà fra le scienze del mondo moderno. I monumenti antichi non più solo promanano persistente e incombente auctoritas, né solo si condensano in remota, conclusa vetustas·, divenuti antiquitates, essi vogliono ormai costituirsi in corpus definito, perché si possa scrutare e comprendere l'antichità precisamente col circoscriverla.
Poiché siamo ancora interamente dentro questo processo, tendiamo probabilmente a darlo per scontato. Si tratta, al contrario, di uno sviluppo lento, spezzato e graduale, i cui esiti quali oggi li sperimentiamo (p.es., il posto dello studio dell'antichità nel sistema educativo, nelle università e nei musei) non sono affatto garantiti in partenza. Esso principia col costituirsi delle pratiche antiquarie, donde emerge prestissimo quella tensione verso il corpus che dalle immani enciclopedie manoscritte da Pirro Ligorio porta senza salti all'incompiuto Museo Cartaceo di Cassiano Dal Pozzo, all'Antiquité expliquée di Montfaucon, ai repertori che usiamo, dal CIL alla Pauly-Wissowa. Monete e archi, vasellame e rilievi aspiravano alla condizione di documento storico, per integrare la narrazione delle fonti letterarie o - in una proposta più radicale - per sostituirsi a essa; e perciò, al fine di riscattarli dalla loro condizione di sparsi framménti incapaci di offrire - uno per uno - rilevante testimonianza storica, raccoglierli in corpus o comporli in enciclopedia divenne essenziale. Le iscrizioni si collocheranno, in questo processo, a metà strada fra testimonianza testuale e testimonianza monumentale, o archeologica; e anzi, poiché spesso fanno blocco con architetture, statue, rilievi, fungeranno da ponte fra l'una e l'altra serie (già del 1601-1603 è il corpus a stampa del Gruterus, che si riannoda con filo ininterrotto alle sillogi epigrafiche degli umanisti). Né ancora è morta la contrapposizione, spesso polemica o sprezzante, fra un'antiquaria delle lettere e un'antiquaria del pennello (l'espressione è di Antonio Agustín, e a proposito di Pirro Ligorio), che puntava le sue carte sul potere evocativo della visione, e intendeva combinare testi e monumenti per offrire in figura un'antichità tornata prodigiosamente intera: la foggia delle toghe, il rituale delle nozze, il sacrificio e il banchetto.
Pratica artistica (a cominciare dall'esercizio del disegno) e conoscenza antiquaria tendevano dunque a integrarsi. Lo studio degli oggetti e dei costumi antichi non era consuetudine libresca, ma anzi fresca attenzione al vero, puntata verso l'estetica della «convenevolezza», secondo la quale ogni pittore «terrà sempre riguardo alla qualità delle persone, né meno alle nazioni, a' costumi, a' luoghi e a' tempi; talché, se depingerà un fatto d'arme di Cesare o di Alessandro Magno, non conviene che armi i soldati nel modo che si costuma oggidì, et ad altra guisa farà le armature a Macedoni, ad altra a Romani» (Lodovico Dolce, 1557). Questo bisogno di fedeltà «archeologica» si traduce in lavoro antiquario e richiede che operino fianco a fianco la mano del pittore e le competenze del dotto; che confluiscano per forza d'assiduo confronto la verità dei testi e quella dei monumenti. È per questo che P. P. Rubens si fa antiquario, e progetta con uno dei maggiori antiquari del tempo, Claude-Nicolas Fabri de Peiresc, un corpus delle gemme antiche, che Rubens avrebbe disegnato e inciso, e Peiresc commentato: un primo anello della catena che avrebbe portato alle Antike Gemmen di Adolf Furtwängler (1900). Non diversamente, l’Opera de' Pili schizzata dalla Romana Accademia della Virtù nel 1542 può essere intesa come un primissimo abbozzo di quello che sarà il Corpus der römischen Sarkophagreliefs. Nell'un caso e nell'altro, è però importante intendere che non si tratta qui di «precursori» dell'inevitabile trionfo dell'archeologia scientifica otto- e novecentesca ma di audaci e non ovvie sperimentazioni, caratterizzate da un vitale intreccio fra pratica artistica e ricerca antiquaria, il cui valore di seminale avanguardia si perderebbe completamente se li leggessimo in un'ottica modernizzante di «progresso scientifico», attraverso il filtro della nostra archeologia. Non è quella via sperimentale che va letta come anticipazione prodigiosa del lavoro che noi facciamo; al contrario, essa - proprio perché tentativo, abbozzo, prova - è indispensabile a comprendere gli sviluppi più tardi: quello che vi si è guadagnato, ma anche quanto vi si è perso: lo sguardo dell'artista.
Quel vitale intreccio fra pratica artistica e ricerca antiquaria va districato nella casa romana di Cassiano Dal Pozzo, dove la privata collezione dell'uomo di lettere, tramutando in principi la consuetudine affermatasi nelle Wunderkammern di vescovi e sovrani, prende deciso carattere enciclopedico e si muove con agio e sistema fra naturalia e artificialia, curiosa e antiqua: e la conoscenza dell'antichità s'incarna ora in sculture e monete e gemme, ora invece in loro riproduzioni per calco o impronta, ora, infine, nel progetto di raccogliere in disegno ogni possibile antichità, e disporla in Museo Cartaceo dove deità e sacrifici, riti e abiti, funerali e spettacoli, storie romane e favole, utensili e vasi fossero ordinati per tipo e per tema; e gli artisti che trascrivono da archi e sarcofagi (o da precedenti disegni di antichità) incrociano per le scale Poussin, intento per suo conto a guardare i marmi di Roma e a ricercarvi un'alta e assorta misura del rappresentare in panni classici un'umanità dai gesti ricolmi di rituale eloquenza e di un calore intenso e segreto.
Rubens e Peiresc, Cassiano Dal Pozzo e Poussin, il museo dei marmi e quello dei disegni: mentre il monumento s'è fatto documento (talché se ne può dare l'equivalente in calco o in carta), il lievito prodigioso della pratica artistica non ha cessato di operare, ma anzi ancora illumina la scena, e la riscalda: ed è proprio intorno a Cassiano che artisti come il Poussin e Pietro Testa precocemente si ripromettono di distinguere l'arte greca dalla romana. Il disegno di traduzione dall'antico, con la sua formidabile carica selettiva e interpretativa (v. sopra), trova qui il suo posto duraturo e il suo spazio istituzionale nella pratica di bottega dei taccuini. Il disegno dall'antico, dunque, una volta adoperato per trarne la forma di un capitello o di un gesto, poteva tranquillamente essere gettato via: questo suo uso «strumentale» può farsi corrispondere, in questo schema a tre stadi, alla pratica del reimpiego di frammenti antichi. Egualmente, alla collezione dei monumenti antichi corrisponde un nuovo statuto e uso del disegno dall'antico, che si carica di propria forza e diventa esso stesso «testimonio» del fregio, del ritratto donde s'industria a trarre ciò che più importa: dapprima all'artista - antologizzando -, ma poco più tardi anche alla sua bottega, o a un collezionista avvertito; onde il disegno si fa esso stesso degno di essere tramandato, dentro la bottega e fuori. Da strumento, dunque, a testimonio; e infine, quando la sacrosanta vetustas si traduce in antiquitates da intendere come ordinato corpus di conoscenza, dovranno confluirvi, con egual valore di «documento», monumenti e loro sostituti: dal gesso, appunto, al disegno.
Questa progressione nel significato del disegno di traduzione dall'antico (da strumentale a testimoniale a documentario) s'accompagna, nell'ultima sua fase, a una nuova vocazione delle raccolte di antichità, che aspirano ormai a farsi esse stesse corpus enciclopedico e rappresentativo di una totalità, l'Antico: donde presto nascerà l'impulso a «completarle», e non solo acquistando in blocco collezioni romane, di cardinali e principi, ma integrandole con calchi in gesso di opere che nessuno oserebbe ancora (lo farà Napoleone) rimuovere: il Laocoonte, l'Apollo, il Torso del Belvedere. Anche il calco, da strumento d'artista e attrezzo di bottega e poi d'accademia, s'è fatto testimonio, e quindi documento, che verrà prestissimo consegnato agli archeologi, per i loro esperimenti di montaggio nei laboratori delle università. Calchi e disegni percorrono dunque una simile strada e segnalano così, col proprio, il destino delle antichità, che va biforcandosi: da un lato, ancora e sempre, l'occhio dell'artista, tecniche e pratiche della traduzione e di un'imitazione che già trapassa in gara con gli Antichi; dall'altro, i «cognoscenti» e gli antiquari, che ai marmi guardano attraverso il gran nutrimento di testi classici, e tuttavia fatalmente abbisognano (e in specie se non vivono fra le statue di Roma) di riproduzioni d'artista (e i disegni già sono stati dati alle stampe).
Cruciale è qui cogliere, nelle generazioni intorno a Winckelmann e per comprenderne l'impatto e la promossa riforma, la somma di due fattori che a noi paiono l'uno all'altro stranieri: pratica artistica e vocazione enciclopedica. Da un lato la pratica artistica, potente fattore che orienta la percezione dell'antico, valse non solo come ingranaggio essenziale nelle procedure di selezione e di giudizio, di acquisto e di restauro, di disposizione collezionistica e museale, di riuso e imitazione e assorbimento in nuove invenzioni, ma anche come filtro inevitabile per la conoscenza di antiquari e raccoglitori e dotti. Dall'altro lato, l'impulso al corpus portò a una sorta di raptus classificatorio, che pretendeva solo di disporre ogni antichità entro un ordinato quadro onnicomprensivo, da usarsi al tempo stesso per organizzare la materia d'un libro, i disegni d'un album, le sculture d'un museo. Questo sviluppo è assolutamente parallelo a quello che organizza la disposizione delle biblioteche in ordinata sequenza del sapere, disposta secondo alberi di conoscenza e gerarchie e partizioni delle scienze. Qui come in collezioni e musei, naturalia e artificialia, curiosa e antiqua devono convivere per naturale tradizione, disponendosi però in un ordine che, per essere riconoscibile, vuole innanzitutto essere rammemorato, e perciò si sostanzia e s'incarna in schemi tolti dall'ars memorativa, e li traduce in istrumento di organizzazione del sapere. Ciò che accomuna il Theatrum amplissimum di Samuel Quickelberg (1565) e le pratiche museografiche che possono esservi connesse ali Advis pour dresser une bibliothèque di Gabriel Naudet (1627) è precisamente la comune pretesa di organizzare in disegno universale le conoscenze, utilizzando l'antichità come terreno privilegiato di prova, ma collocandola, sempre, entro un percorso mentale e fisico totalizzante, che può essere esemplificato dal Museo e dall'opera scritta di Athanasius Kircher.
Pratica della classificazione e pratica artistica possono apparirci oggi strade non solo diverse, ma opposte: eppure entrambe hanno orientato e determinato le procedure degli antiquari e dei collezionisti, incidendo non solo sul gusto, ma sul formarsi delle istituzioni. Possiamo pertanto riassumere i «tre stadi» del nostro schema in una serie di parole-chiave:
SCHEMA DELL’IMMAGINE ALLEGATA
Il secolo di Winckelmann s'apre sugli stupori di Ercolano e Pompei, che moltiplicano il corpus e ne mostrano instabilità e parzialità; e però s'incentra su quella prodigiosa Geschichte der Kunst des Altertums, primissima narrazione storica dell'arte antica, dove l'abbondantissima erudizione antiquaria e le pratiche della classificazione furono sì rinnegate, ma non abbandonate bensì sottoposte a una nuova misura dell'educazione del gusto. L'arte antica veniva ad assumere, per Winckelmann, non solo lo statuto di un manifesto d'esempi per la pratica artistica del futuro, ma, per il suo materiarsi, profeticamente avvertito e descritto, di valori attuali, si faceva matrice di un programma di Bildung che voleva tradursi in una metafisica del Bello. È di qui che nacque la linea attraverso la quale vedremo, sul finire del secolo e nel seguente, la storia dell'arte antica (e, sulla sua scia, di quella post-antica) insediarsi nelle Università e trasferirvi, con nuove aspirazioni allo statuto di scienza, le pratiche degli antiquari e dei «cognoscenti», filtrate attraverso quelle delle accademie d'arte.
Con nuova audacia, Winckelmann pretendeva di offrire, per mutare il presente, una storia dell'arte antica tutta, dove i Greci avessero (come le fonti romane rendevano chiaro) il ruolo dominante. Essa doveva interamente fondarsi sul potere interpretativo dell'occhio e sulla forza evocativa della parola scritta: integrandovi, secondo la pratica antiquaria, fonti e monumenti, Plinio e le statue di Roma. Ma l'arte greca di Winckelmann non poteva forgiarsi sopra un nuovo corpus di statue, ma anzi sulle consuete statue di Roma: era, per così dire, spremuta per forza di divinazione dall'arte romana, cogliendo, per via di levare, entro le statue di Roma lo spirito di quelle di Atene. In quell'opera sua irraggiungibile per freschezza di visione e forza d'urto Winckelmann fondò, non precorrendo ma determinando i tempi, la nuova conoscenza dell'arte greca: in quel solco già aperto il sec. XIX vedrà, dai marmi di Egina trasportati a Monaco a quelli del Partenone approdati a Londra; la vera riscoperta dell'arte greca. Se il Musée Napoléon fu ancora, ricalcando quello dei Papi, l'ultimo grande museo sostanzialmente romano (che davvero voleva trasportare a Parigi, secondo l'antico progetto di Colbert, «tout ce qu'il y a de beau en Italie»), il primo museo dell'era nuova, più greco che romano, sarà prestissimo il British Museum; e la tendenza a «estrarre» l'arte greca dalla romana, quasi distillandone l'essenza che Winckelmann aveva saputo definire con profetica passione, presto si tradurrà in un'analisi delle copie romane, linea portante dell'archeologia classica ottocentesca accanto a spedizioni e scavi nelle terre greche, e dunque in un lavoro di spola con gli originali greci via via recuperati, a cui corrisponderanno (dagli Egineti e Marmi Elgin ai frontoni di Olimpia, ai Bronzi di Riace, alla statua di Mozia) altrettanti choc rispetto, ogni volta, a una visione che pareva assestata.
Il doppio statuto delle copie (in quanto opere di una determinata età, che però rimandano a opere di un'età ben anteriore) avrà conseguenze decisive sulla valutazione dell'arte romana: quanto più si è cercato, attraverso di esse, di ricostruire (mentalmente, ma anche fisicamente) l'originale perduto, tanto più si è dovuto svalutare quanto in esse era dovuto al copista, e dunque era non greco, ma romano. L'arte romana ha giocato quindi insieme, sulla scia di Winckelmann, due ruoli contrastanti: da un lato essa ha consentito di recuperare, attraverso la critica delle copie, i perduti capolavori di Policleto e di Mirone; dall'altro essa si è prestata a essere interpretata come il decadimento dell'arte greca. Né questo abisso che s'è aperto sarà colmato dalle rivalutazioni fin-de-siècle dell'arte romana (Wickhoff, Riegl): poiché esse si giocavano tutte sull'altro versante, e all'arte romana guardavano solo a partire dal suo «poi», dall'arte medievale europea. L'arte romana ha finito dunque col ricoprire due ruoli opposti: da un lato, quello di base e fondamento, in assoluta continuità di procedure artistiche e pratiche sociali, per lo sviluppo della produzione artistica medievale; dall'altro lato, e peculiarmente, quello di fonte privilegiata a cui attingere modelli e norme, ipostasi visibile di quell'integra classicità dalla quale s'è potuta progressivamente districare l'arte greca. Il lavoro degli archeologi (sulle copie, negli scavi) per conseguire questo fine può essere inteso come un episodio (ma non certo l'approdo finale) della continuità dell'antico.
Bibl.: Per un orientamento generale e ulteriore bibliografia: N. Dacos, Arte italiana e arte antica} in G. Previtali (ed.), Storia dell'arte italiana, III, Torino 1979, pp. 3-68; W. S. Sheard, Antiquity in the Renaissance (cat.), Northampton (Mass.) 1979; M. Greenalgh, The Classical Tradition in Art, Londra 1979; R. Krautheimer, Rome: Profile of a City, 312-1308, Princeton 1980 (trad. it. Roma, profilo di una città, Roma 1981); E. Pogány-Balás, The Influence of Rome's Antique Monumental Sculptures on the Great Masters of the Renaissance, Budapest 1980; A. D. Potts, Greek Sculpture and Roman Copies, I, Anton Raphael Mengs and the Eighteenth Century, in JWCI, XLIII, 1980, pp. 150-173; B. Ward-Perkins, From Classical Antiquity to the Middle Ages. Urban Public Building in Northern and Central Italy, AD 300-830, Oxford 1980; F. Haskell, N. Penny, Taste and the Antique. The Lure of Classical Sculpture 1300-1900, New Haven-Londra 1981 (trad. it. L'antico nella storia del gusto, Torino 1984); H. Beck, P. C. Bol, W. Prinz, H. von Steuben (ed.), Antikensammlungen im 18. Jahrhundert, Berlino 1981; R. Krautheimer, Three Christian Capitals. Topography and Politics, Berkeley 1983 (trad. it. Tre capitali cristiane. Topografia e politica, Torino 1987); B. Andreae, S. Settis (ed.), Colloquio sul reimpiego dei sarcofagi romani nel Medioevo, in MarbWPr, 1983, pp. 1-294; M- C. Parra, Rimeditando sul reimpiego: Modena e Pisa viste in parallelo, in AnnPisa, s. III, XIII, 1983, pp. 453-483; M. Cristofani, La scoperta degli Etruschi. Archeologia e antiquaria nel Settecento, Roma 1983; G. Pugliese Carratelli (ed.), Magistra Barbaritas. I barbari in Italia, Milano 1984; S. Settis (ed.), Memoria dell'antico nell'arte italiana, voll. I-III, Torino 1984-1986; Natur und Antike in der Renaissance (cat.), Francoforte 1985; P. P. Bober, R. Rubinstein, Renaissance Artists and Antique Sculpture. A Handbook of Sources, Oxford 1986; G. Hojer, Antiquitäten und Antiken. Zur Sammlungsgeschichte des Antiquariums, in G. Hojer (ed.), Das Antiquarium der Münchner Residenz, Monaco 1987; G. Binding, Antikenrezeption in der Kunst (in Occidente), in Lexicon des Mittelalters, I, 3,1, Monaco 1988, p. 713 ss.; Κ. Wessel, Antikenrezeption in der Kunst (a Bisanzio), ibid., I, 3, II, p. 714 ss.; R. W. Gaston (ed.), Pirro Ligorio, Artist and Antiquarian, Milano 1988; M. Greenalgh, The Survival of Roman Antiquities in the Middle Ages, Londra 1989.
L'ipotesi interpretativa sopra accennata si troverà meglio articolata nei seguenti articoli: S. Settis, Tribuit sua marmora Roma. Sul reimpiego di sculture antiche, in AA.VV., Lanfranco e Wiligelmo, II, Duomo dì Modena, Modena 1984, pp. 309-317; id., Continuità, distanza, conoscenza. Tre usi dell'antico, in Memoria dell'antico..., cit., III, Torino 1986, pp. 373-476; id., Von «auctoritas» zu «vetustas»: die antike Kunst in mittelalterlicher Sicht, in Zeitschrift für Kunstgeschichte, LI, 1988, pp. 157-179; id., Un'arte al plurale. L'impero romano, i Greci e i posteri, in E. Gabba, A. Schiavone (ed.), Storia di Roma, IV, Torino 1989, p. 827 ss., in part. 864-878.
Si veda inoltre: H. Günther, Das Studium der antiken Architektur in den Zeichnungen der Hochrenaissance, Tubinga 1988; D. Jaffé, Rubens' Self-Portrait in Focus, Canberra 1988; J. Onians, Bearers of Meaning. The Classical Orders in Antiquity, the Middle Ages, and the Renaissance, Princeton 1988; A. Melucco- Vaccaro, Archeologia e restauro. Tradizione e attualità, Milano 1989, in part, i capp. II e III (Il riuso in età classica e II riuso dell'antico nel Medioevo)·, H. Wrede, Die Opera de' Pili von 1542 und das Berliner Sarkophagcorpus. Zur Geschichte von Sarkophagforschung, Hermeneutik und klassischer Archäologie, in AA, 1989, pp. 373-414; F. Solinas (ed.), Cassiano Dal Pozzo. Atti del seminario internazionale di studi, Roma 1989; F. Haskell, e altri, Il Museo Cartaceo di Cassiano Dal Pozzo (Quaderni puteani, I), Milano 1989; D. Jaffé, The Barberini Circle. Some Exchanges between Peiresc, Rubens and Their Contemporaries, in Journal of the History of Collections, I, 1989, pp. 119-138; R. Harprath, H. Wrede (ed.), Antikenzeichnung und Antikenstudium in Renaissance und Frühbarock, Magonza 1989; L. Todisco, L'antico nella cultura materiale dì età normanna e sveva, in F. Tateo (ed.), Storia di Bari, II, Bari 1990, pp. 342-364; Κ. Einaudi, Fans Olei e Anastasio bibliotecario, in RIA (in corso di stampa) (per i plutei di S. Maria in Trastevere e la loro discendenza).