PERALTA, conti di Caltabellotta
PERALTA, conti di Caltabellotta. – Famiglia originaria di Ribacorça (in Catalogna), dove era titolare della baronia di Peralta, si insediò in Sicilia nel 1326.
Nell’isola, anche in virtù del vincolo di sangue che la legava alla Corona, giocò un ruolo di primo piano durante il conflitto angioino-aragonese e il vicariato collettivo istituito nel 1378 quando, dopo la morte di Federico IV, Artale Alagona, nominato per volontà testamentaria vicario generale e tutore della figlia Maria, decise di dare vita a un governo collegiale detto dei Quattro vicari.
Capostipite del ramo siciliano fu Raimondo, primo conte di Caltabellotta, figlio di Filippo Saluzzo e Sibilla Peralta della quale aveva mantenuto il cognome. Raimondo aveva partecipato alla conquista del regno di Sardegna e Corsica al servizio di Giacomo II, fin dalla spedizione del 1323, guadagnando onori e feudi. La sua nomina a governatore generale in Sardegna aveva avuto come conseguenza l’opposizione di Francesc Carroç, ammiraglio del Regno; lo scontro con il processo che ne seguì portò all’assoluzione dei due, ma Raimondo preferì spostarsi, nel 1326, in Sicilia al servizio di Federico III con il sostegno dell’infante Alfonso. La fedeltà alla monarchia, unita ai successi ottenuti durante la guerra del Vespro, furono ricompensati con uffici di rilievo nell’ambito dell’amministrazione centrale e feudi: Raimondo venne nominato ammiraglio dei regni d’Aragona, Valenza, Sardegna e Corsica e della contea di Barcellona (1335), camerario maggiore (ante 1338) e gran cancelliere (1340). Il 20 gennaio 1338 ricevette da Pietro II l’investitura della contea di Caltabellotta, Calatubo, Borgetto e Castellammare del Golfo; nel 1340 ottenne la terra di Alcamo e il castello di Bonifato. Raimondo (che nel 1339 venne scomunicato dal pontefice assieme agli altri sostenitori del sovrano siciliano) si distinse in più occasioni dimostrando abilità diplomatica ed esperienza bellica. Nello stesso anno 1339 fece riconciliare il duca Giovanni e re Pietro rafforzando le proprie posizioni con la nomina a gran cancelliere del Regno. In queste vesti favorì la stipula della pace del 1347 con la regina Giovanna.
La concessione della contea di Caltabellotta era giunta come ricompensa del suo operato, ma anche in virtù del legame con la monarchia consolidatosi con il secondo matrimonio del Peralta. Raimondo, che in prime nozze aveva sposato Aldonza de Castro, ottenuta la dispensa pontificia, nel 1332, sposò Isabella figlia naturale di re Federico III e di Sibilla Solmella (e vedova del conte d’Empúries Poncio Ugo V Malgaulino). Dal primo matrimonio erano nati Guglielmo, Filippo, Raimondetto e Berengario, dal secondo Giovanna, Eleonora e Giovanni. A questi si aggiunse il figlio naturale Galcerando nato dall’unione con la messinese Esmeralda de Lorenzo. Dopo la morte di Isabella (1341) il conte si sposò in terze nozze con Allegranza Abbate, figlia di Enrico (ante giugno 1344).
Lo stretto legame con la monarchia viene comprovato dalla fitta corrispondenza epistolare di carattere familiare con i diversi membri della Corona aragonese e dalla scelta di Federico III di designarlo, insieme con altri fedeli e consanguinei, fedecommissario ed esecutore testamentario. Raimondo morì tra il novembre del 1347 e il maggio del 1349.
Gli succedette nel titolo comitale e nella carica di gran cancelliere il primogenito Guglielmo, nato prima del 1325. L’evento più documentato della sua vita è il matrimonio con Luisa Sclafani, figlia del conte di Adernò, Matteo (1345). Dall’unione nacquero Guglielmo, Matteo, Galcerando e Raimondetto. Con queste nozze i Peralta accrebbero il loro patrimonio, ma avviarono un annoso contrasto con un’altra casata catalana radicatasi in Sicilia, i Moncada, a causa delle mutevoli disposizioni espresse nei quattro testamenti (1333, 1345, 1348, 1354) da Matteo Sclafani nei confronti delle figlie Margherita e Luisa e dei rispettivi mariti Guglielmo Raimondo Moncada e Guglielmo Peralta. Il conte morì a Catania il 18 giugno 1349.
Il primogenito Guglielmo, detto Guglielmone, ereditò il titolo comitale. Attivo nelle vicende politico-militari del Regno fin dalla giovane età, rivestì un ruolo determinante divenendo uno dei quattro vicari insieme con Artale Alagona, Manfredi Chiaromonte e Francesco Ventimiglia. Nel 1356 ottenne la conferma della contea di Caltabellotta e dei beni ereditati dall’avo Matteo e venne nominato capitano con la cognizione delle cause criminali di Giuliana, e due anni dopo di Sciacca. Guglielmo sostenne fedelmente la monarchia siciliana per tutto il regno di Federico IV. La familiaritas con il sovrano e la consanguineità permisero ai conti di Caltabellotta di penetrare all’interno dell’apparato istituzionale, di assumere prestigiose cariche a corte e di uscire indenni dalla fellonia. Tale rapporto si rafforzò nella metà degli anni Sessanta con il matrimonio di Guglielmo con Eleonora d’Aragona, figlia di Giovanni duca di Atene e Neopatria, fratello di re Pietro, e di Cesarea Lancia; l’infanta portò una ricca dote al conte avendo ereditato dai genitori Caltanissetta e la contea di Calatafimi con Giuliana, Adragna, Sambuca, Calatamauro, Contessa e Comicchio. Dal matrimonio nacquero Nicola, Giovanni, Matteo, Margherita e una figlia di cui si ignora il nome. Nel clima di lotta armata che si era scatenata in Sicilia già a partire dalla morte del duca Giovanni e dal rientro nell’isola degli esuli Palizzi (1348) e che divideva il baronaggio in due fazioni, la ‘parzialità latina’ guidata da Matteo Palizzi e da Manfredi Chiaromonte e la ‘parzialità catalana’ capeggiata da Blasco Alagona, nel 1361 Guglielmo consentì lo sbarco a Sciacca dell’infanta Costanza promessa sposa del re; con quest’atto il conte manifestò l’opposizione ai Ventimiglia e il legame con gli Alagona. Più volte, in effetti, Guglielmo si mosse in aiuto del sovrano contro i Chiaromonte e i Ventimiglia, mantenendo forte il rapporto con gli Alagona almeno fino alla fine degli anni Settanta, come dimostrano anche i matrimoni dei figli di Guglielmo che suggellarono le alleanze politiche. Se ancora nel 1375 era stato stipulato un contratto matrimoniale tra Nicola e Margherita Alagona, figlia di Giacomo, nel 1380 Margherita sposò Antonio Ventimiglia, nel 1384 Giovanni si unì in matrimonio a Costanza Chiaromonte, figlia di Giovanni; infine, nel 1388, lo stesso Nicola sposò Isabella Chiaromonte, figlia dell’ammiraglio Manfredi. A riprova del legame con la monarchia, nel testamento di Federico IV il conte fu nominato esecutore testamentario e i suoi figli designati tra i suoi successori in caso di morte della figlia Maria.
Nel 1377 la scomparsa del sovrano, la nomina di Artale Alagona vicario generale, la successiva associazione nel vicariato di Manfredi Chiaromonte, Francesco Ventimiglia e Guglielmo Peralta e la divisione del Regno in quattro parti, portarono alla creazione di vere e proprie signorie riconosciute dallo stesso pontefice che considerò i quattro vicari debitori del censo dovuto alla Chiesa e suoi interlocutori nell’isola. Centro della signoria dei Peralta – che si estendeva per una vasta zona della Sicilia occidentale inglobando territori feudali, come la contea di Caltabellotta, e demaniali, come Sciacca, Alcamo e Calatafimi – fu Sciacca dove Guglielmo costruì un castello (1380) a guardia del caricatore, istituì una zecca in cui batté moneta ottenendo a posteriori l’autorizzazione regia (gennaio 1376), creò un tribunale rappresentante la Magna Curia (1365) e una corte con propri funzionari.
A Sciacca Guglielmo ed Eleonora eressero diverse chiese: S. Maria dell’Itria, futuro pantheon della famiglia, con l’annesso monastero, noto come Batia Grande; S. Michele e S. Margherita fondata da Eleonora.
Guglielmo seppe destreggiarsi in un’instabile situazione politica e, pur restando interlocutore del papa romano, intrattenne rapporti con i Martino, forte della consanguineità che lo legava alla Corona, divenendo referente privilegiato di Martino l’Umano che si rivolgeva a lui come «amico nostro caro» e alla moglie come «cara zia» o «consobrina carissima» (Archivio di Stato di Palermo, Protonotaro del Regno, 6, cc. 21v; 39r; Reale Cancelleria, 22, c. 23r). Anche dopo il convegno di Castronovo (1391) il conte continuò a trattare con l’infante d’Aragona ottenendo conferme di richieste e privilegi. Nel gioco di fedeltà e ribellione apertosi con lo sbarco aragonese del 1392 sull’isola, Guglielmo e il figlio Nicola, che aveva ereditato il titolo comitale, si schierarono inizialmente tra i fedeli che accolsero e resero omaggio con il proprio esercito a Martino il Vecchio, a Martino il Giovane e alla regina Maria. La fedeltà permise al conte, che nel giugno del 1392 era entrato nel ristretto numero dei cavalieri dell’Impresa della Correggia, di ottenere, in quello stesso anno, l’investitura di Misilcassim, Burgio e Burgimilluso e, nel 1393, quella del feudo di San Bartolomeo e al figlio Nicola quella della contea di Calatafimi con Sambuca, Calatamauro, Adragna, Giuliana, Comicchio e Contessa e di Mazara eletta a marchesato (1392).
La decapitazione del ribelle Andrea Chiaromonte e gli atti di forza di Martino portarono i baroni siciliani consapevoli del rafforzamento della monarchia, nel tentativo di difesa delle posizioni raggiunte con il vicariato, ad aderire sempre più numerosi alla rivolta capeggiata da Enrico Chiaromonte e Artale Alagona. La rivolta antiaragonese, sostenuta dal papa Bonifacio IX, si estese nell’isola. Nel 1393, anche i Peralta vennero annoverati tra le fila dei ribelli, tuttavia per loro il duca di Montblanc continuò ad avere un occhio di riguardo, giustificando assenze e rifiuti e adottando, quando non fu più possibile negare l’evidenza, misure particolari nei loro confronti. Guglielmo morì ribelle, nel 1394, a Caltanissetta.
Nicola, invece, rientrando nella fedeltà regia, ottenne, nel 1397, il perdono per sé, la sua corte, i familiari e il defunto padre. Divenne conestabile e maestro giustiziere (1397) e gli vennero confermate le contee di Caltabellotta, Sclafani e Calatafimi con l’eccezione del marchesato di Mazara. Ricevette anche l’investitura della capitania e della castellania di Sciacca e il mero e misto imperio e la gladii potestas su tutti i territori a lui soggetti (1397). Ottenne, inoltre, la concessione di Bivona in risarcimento della dote della moglie (1397). Morì a Sciacca nell’ottobre del 1398; pochi giorni prima, il 16 ottobre, aveva redatto un testamento in cui aveva designato la madre Eleonora balia e tutrice delle figlie, Giovanna, Margherita e Costanza, avute dal matrimonio con Isabella.
Eleonora d’Aragona amministrò con sagacia i beni salvaguardandoli per le eredi e seppe mantenere intatto il patrimonio, le prerogative e i privilegi della famiglia; volle anche compensare le scelte del figlio che aveva designato erede dell’ingente patrimonio e del titolo comitale la primogenita, facendo legittimare (1406) il figlio naturale di Nicola, Raimondetto, e assegnandogli Caltanissetta. L’infanta insieme con il re scelse come sposo per Giovanna Artale Luna, anch’egli imparentato con i regnanti, cui fu data in moglie de futuro per morire subito dopo, nel 1401. La sostituì la sorella Margherita che, seguendo le volontà di Martino e ottenuta la dispensa, sposò nel 1404 il mancato cognato portando all’unione dei due lignaggi.
Nel corso del XV secolo la storia della famiglia è ormai quella dei Luna, che ereditarono il patrimonio dei Peralta, ma non la centralità del ruolo da questi rivestita nel secolo precedente. Nel 1453 Antonio, figlio di Artale, con l’investitura della contea di Caltabellotta e di diversi feudi e terre che avevano costituito la signoria dei Peralta ne prendeva formalmente il controllo mantenendo ancora come centro della signoria Sciacca con il suo castello, eretto da Guglielmo Peralta, ma chiamato ‘castello Luna’. La difficoltà dei Luna di consolidare il proprio potere a Sciacca ponendo fine alla lotta civile e agli episodi di violenza che la dilaniavano nella prima metà del XV secolo, assieme agli scontri interni alla famiglia e alle vicende giudiziarie che ne caratterizzarono la storia nella seconda metà del secolo, danno la percezione del destino della famiglia e del suo declino espresso emblematicamente nella confisca dei beni operata nei confronti di Sigismondo Luna e nella sua morte (1530) in seguito ai sanguinosi eventi legati ai gravi scontri fazionari conosciuti nella tradizione come Secondo caso di Sciacca.
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