contemplazione
Il termine lat. contemplatio, che deriva etimologicamente da cum-templum, lo spazio del cielo che l’augure delimitava per osservare il volo degli uccelli, traduce concettualmente il gr. ϑεωρία. Da un primo senso di «attenta osservazione», il termine passa a significare la riflessione razionale, o la concentrazione dell’intelletto su una verità, filosofica o religiosa. L’orizzonte semantico fa emergere due livelli di ambiguità che attraverseranno tutta l’evoluzione storica del concetto: dal lato dell’oggetto, il concetto si applica, infatti, sia alla conoscenza intellettiva della natura sia alla conoscenza o visione di Dio; dal lato del soggetto, rimangono invece da chiarire le modalità di esercizio dell’intelletto.
Nel pensiero greco la c. è intesa come l’atto della facoltà più elevata dell’intelletto nella conoscenza dell’intelligibile. Platone ne tratta a partire dall’oggetto che le è proprio, l’intelligibile appunto, affermando che la c. si attua allorché, nello stadio più elevato della scienza, esso viene colto (Repubblica, VI, 486 a; VII, 517 d). Aristotele individua nella c., intesa come pura attività dell’intelletto, il bene dell’uomo, la sua felicità (Etica nicomachea, X, VII, 1). Tale attività, propria dell’uomo, è amata per sé stessa, in contrapposizione alle attività pratiche orientate alla produzione di un elemento distinto dall’azione. Plotino mantiene questa connessione tra c., felicità e filosofia. La c., che costituisce il fine di ogni azione, si esplicita però nell’unione del soggetto con l’oggetto contemplato, l’Uno, perenne aspirazione dell’anima. Il soggetto contemplante, raccogliendosi in sé e spogliandosi delle cose esteriori, supera la molteplicità e la stessa dualità tra soggetto e oggetto nella semplicità dell’unione.
Il cristianesimo medievale eredita queste impostazioni filosofiche e, riferendo la c. alla visione di Dio, ne accentua gli aspetti gnoseologici. I teologi devono inoltre fare i conti con l’esegesi biblica: da una parte sembra possibile una visione di Dio durante la vita terrena, come nel caso di Mosè e Paolo, ma, d’altra parte, «nessuno ha mai visto Dio». Secondo la tradizione agostiniana l’uomo non può in questa vita vedere Dio perché legato alle immagini, perciò la c. piena può compiersi solo nell’aldilà. Questa linea interpretativa, tipicamente occidentale, ha dei significativi punti di rottura in corrispondenza con le intersezioni tra la cultura filosofica occidentale e quella orientale, in particolare attraverso l’influenza esercitata da Dionigi dapprima nell’opera di Scoto Eriugena, poi nel nuovo contesto di apertura culturale del sec. 13°, quando le influenze aristoteliche e dionisiane portano alla necessità di precisazioni ter-minologiche e concettuali. Così mentre AlbertoMagno, Alessandro di Hales e Bonaventura distinguono la visione di Mosè dal raptus di Paolo, poiché nella prima sono comunque presenti immagini, Matteo d’Acquasparta le considera sullo stesso piano. Tommaso d’Aquino adotta una posizione intermedia, distinguendo la visione di Paolo da quella beatifica (visio beatifica). La contemplazione in patria (ossia in Paradiso) sarà infatti per essentiam, quindi perfetta; mentre in via (durante la vita terrena) è possibile unicamente una c. per creaturas (mediante le cose create) imperfetta. Si determina così una gerarchia: al grado più basso si trova la c. della verità, quindi la c. di Dio in aenigmate (in modo enigmatico), poi il raptus di Paolo, quindi la visione in patria. La distinzione tra vita attiva e vita contemplativa costituisce un secondo polo di riflessione che, tra 12° e 13° secolo, si sviluppa sia all’interno del monachesimo certosino sia nel pensiero teologico. I certosini distinguono quattro tappe della vita contemplativa: lettura, meditazione, preghiera e c.; anche qui però si presenta il problema del ruolo dell’intelletto: la c. può infatti essere intesa come unione intellettuale oppure, al contrario, come una sospensione dell’attività intellettiva per poter essere colmati da Dio. I teologi tendono invece a definire la vita contemplativa in contrapposizione a quella attiva. Guglielmo di Auxerre collega quest’ultima ai doni di intelletto e sapienza, e la ritiene superiore a quella attiva perché più prossima agli angeli e quindi a Dio. Secondo Rolando di Cremona la vita attiva si manifesta in una azione visibile ed esteriore regolata dalla ratio, la contemplativa in una interiore e intellettiva. La vita contemplativa è superiore perché orientata alla visione di Dio, ma deve anche indirizzare la vita attiva e ne costituisce dunque il presupposto, oltre che il fine. Nel passaggio alla modernità tale correlazione diventa meno stringente in quanto l’attività si collega strettamente all’aspetto produttivo. Rovesciando la prospettiva antica e medievale ove la vita dell’uomo si definisce in funzione della c., nella modernità la verità può essere raggiunta solo attraverso l’azione, secondo una conoscenza che si modella sul ‘fare’. In tale contesto, la tematica della c. sembra rimanere appannaggio della mistica.