Abstract
La trattazione si propone di compiere l’inquadramento sistematico dell’azione di condanna nell’ambito della giurisdizione civile; sono analizzate la struttura, l’oggetto, il cont enuto e la funzione, repressiva e preventiva dell’illecito, di tale forma di tutela.
L’ordinamento regola le relazioni tra i soggetti mediante norme di condotta, che qualificano un determinato comportamento come possibile (facoltà) ovvero come (giuridicamente) necessitato (dovere). La violazione della norma che prescrive un comportamento, a contenuto positivo (dovere commissivo o ordine) o negativo (dovere di astensione o divieto), da parte del soggetto tenuto a osservarla, integra un illecito (Falzea, A., Efficacia giuridica, in Enc. dir., XIV, Milano 1965, 432 ss., spec. 479; Luiso, F.P., Diritto processuale civile, I, I principi generali, VII ed., Milano, 2013, 4); l’illecito è il comportamento concreto che diverge dalla previsione astratta della norma di condotta.
Nel settore della giurisdizione civile, la violazione della norma di condotta non assume rilievo quale mera inosservanza da parte del soggetto del diritto oggettivo, bensì in quanto la norma è posta a protezione di un interesse altrui e in funzione del soddisfacimento di questo (Luiso, F.P., op. cit., 5, 10; Mandrioli, C.-Carratta, A., Diritto processuale civile, I, XXIV ed., Torino, 2015, 4 ss.).
A seguito dell’illecito, l’interesse si trova in stato di insoddisfacimento; quando il pregiudizio deriva dalla difformità dello stato di fatto da quello di diritto, la forma di tutela apprestata dall’ordinamento a favore del titolare dell’interesse è l’azione di condanna: con la domanda giudiziale, è dedotta la violazione del dovere ed è richiesto al giudice di ordinare al trasgressore di tenere il comportamento, che è prescritto dalla norma di condotta, in funzione del soddisfacimento dell’interesse leso.
Con l’azione di condanna, sono tutelate situazioni giuridiche di diritto soggettivo, a carattere assoluto o relativo, di cui sono contenuto, in diverse combinazioni, posizioni semplici di facoltà e di dovere (per una diversa concezione, secondo cui la condanna in senso proprio avrebbe a oggetto esclusivamente l’adempimento di obbligazioni pecuniarie, Satta, S., L’esecuzione forzata, IV ed., Torino, 1963, 3 ss., spec. 10 ss.; Montesano, L., Condanna, in Enc. giur. Treccani, Roma, 1988, 3 ss.). L’interesse è protetto mediante l’attribuzione al titolare di facoltà e l’imputazione ad altri di doveri: l’esercizio delle prime e l’assunzione di comportamenti conformi ai secondi ne consentono il soddisfacimento. La violazione della norma di condotta può consistere: a) in un comportamento che impedisce od ostacola lo svolgimento dell’attività lecita garantita al titolare del diritto; quindi, nella violazione di una facoltà, che è contenuto di un diritto reale o personale di godimento; b) in un comportamento difforme da quello imposto, consistente in un’attività vietata o nella mancata assunzione della condotta prescritta; quindi, nella violazione di un dovere, che grava sugli omnes (diritti assoluti) o su un soggetto specifico (diritti relativi). Peraltro, in senso comprensivo, il fatto antigiuridico può essere definito sempre quale inosservanza di un dovere; infatti, anche nel primo caso, rileva la trasgressione del divieto di porre in essere comportamenti, che impediscano od ostacolino l’esercizio dell’attività oggetto della facoltà.
Le norme sostanziali stabiliscono quale sia la sorte del diritto, a seguito del verificarsi dell’illecito: il diritto si estingue e, in sua vece, sorge un diverso e succedaneo diritto al pagamento di una somma di denaro; il diritto permane integro nella sua esistenza, seppur insoddisfatto, di guisa che il titolare può pretendere che siano posti in essere i comportamenti idonei a eliminare le conseguenze della violazione occorsa ed a soddisfare l’interesse protetto. Nel primo caso, l’interesse sotteso alla situazione giuridica protetta è tutelato solo per equivalente; nel secondo, è tutelato in forma specifica.
Il principio della tutela in forma specifica dei diritti assoluti (dapprima, reali e, in seguito, anche della personalità) è tradizionalmente accolto nella nostra esperienza giuridica: per regola generale, l’illecito non determina l’estinzione del diritto e il titolare può agire nei confronti del trasgressore per la restitutio in integrum. Il limite, di carattere strutturale, che incontra la tutela specifica è l’impossibilità (di fatto o di diritto) della restituzione o della rimessione in pristino del bene, a fronte della quale non può che residuare la sola tutela per equivalente pecuniario, sia in forma compensativa del valore del bene, sia in forma risarcitoria, quando dall’illecito siano derivati danni risarcibili e risultino integrati gli ulteriori presupposti della responsabilità (esemplare, al proposito, è l’art. 948, co. 1, c.c.).
Con riferimento ai diritti di obbligazione, secondo la dottrina moderna, vale un analogo principio (contra, Satta, S., op. cit., 12 s., 18 ss.). Il credito a una prestazione di specie (di consegna di una cosa determinata, di fare o di non fare) sopravvive alla sua violazione, di guisa che, a seguito dell’inadempimento, il creditore ha diritto di conseguire il bene o l’utilità verso cui si indirizza il suo interesse (salvo che la prestazione sia divenuta, di fatto o di diritto, impossibile, residuando, allora, esclusivamente la tutela per equivalente pecuniario).
Certamente, se l’inadempimento è causa di un danno, in base alle regole in materia di responsabilità, può sorgere un’obbligazione risarcitoria; nondimeno, resta intatto il diritto del creditore di ottenere la prestazione originaria rimasta ineseguita (arg. ex artt. 1218 e 1453 c.c.), a prescindere dall’imputabilità dell’inadempimento all’obbligato e dall’eventuale danno subito, come è tipico di un sistema di tutela cd. reale (per tutti: Giorgianni, M., Tutela del creditore e tutela «reale», in Riv. trim. dir. proc. civ., 1975, 853 ss., spec. 858 ss.; Mazzamuto, S., L’esecuzione forzata, in Tratt. Rescigno, II ed., Torino, 1998, 215 ss., spec. 307; Pagni, I., Tutela specifica e tutela per equivalente, Milano, 2004, 15 ss., spec. 20 ss., 59 ss., 79 s.; Proto Pisani, A., Appunti sulla tutela di condanna, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1978, 1104 ss., oggi in Id., Le tutele giurisdizionali dei diritti, Napoli, 2003, 75 ss., spec. 102 ss.; Taruffo, M., Note sul diritto alla condanna e all’esecuzione, in Riv. crit. dir. priv., 1986, 635 ss., spec. 641 ss., 655 ss.; in giurisprudenza: Cass., S.U., 10.1.2006, n. 141).
Una volta chiarito quale sia la forma di tutela apprestata dalle norme sostanziali per il diritto violato, il processo, in ossequio al canone di strumentalità, non può che adeguarvisi: «si può essere condannati a tutto ciò che si può esser tenuti a prestare (sia un dare, un fare, una astensione, la distruzione di quanto fu fatto in contravvenzione all’obbligo di non fare)» (Chiovenda, G., Istituzioni di diritto processuale civile, I, II ed., Napoli, 1935, 176).
Il principio generale, quindi, è il seguente: verificatosi l’illecito, il titolare del diritto può agire in giudizio, al fine di ottenere la condanna del trasgressore a tenere il comportamento, che è prescritto dalla norma di condotta violata, in funzione del soddisfacimento dell’interesse leso; ciò, peraltro, trova limite nell’impossibilità, materiale o giuridica, della tutela in forma specifica, nonché, conviene adesso precisare, nella previsione di regole, di carattere speciale, che, a fronte di determinate violazioni, escludano la tutela in forma specifica del diritto. Qualora l’illecito abbia cagionato altresì un pregiudizio risarcibile, a favore del soggetto leso sorge un (diverso e, in parte, autonomo) diritto al risarcimento del danno subito, secondo le norme dettate in materia di responsabilità contrattuale ed extracontrattuale.
La tutela in forma specifica del diritto (assoluto o obbligatorio) deve essere tenuta distinta dalla reintegrazione in forma specifica ex art. 2058 c.c. Questa, a differenza della prima, costituisce una particolare modalità del risarcimento del danno, e ha ad oggetto la riparazione delle conseguenze pregiudizievoli cagionate dall’illecito nella sfera dell’avente diritto, mediante una prestazione succedanea e diversa da quella originaria; essa è disciplinata dalle regole in materia di responsabilità (le quali conferiscono rilevanza alla imputabilità dell’evento lesivo al danneggiante, oltre che, ovviamente, alla verificazione di un danno ingiusto risarcibile) e trova limite nella eccessiva onerosità della prestazione (questa distinzione è chiaramente tracciata dalla giurisprudenza, quando, in materia di tutela dei diritti reali, esclude che la richiesta di restituito in integrum trovi ostacolo nella sua eccessiva onerosità: Cass., 23.8.2012, n. 14609, Cons. St., 2.8.2011, n. 4590).
La giuridica necessità di tenere tale comportamento discende dalla norma di condotta violata; è il dovere (primario) non osservato, a qualificare come necessitato il comportamento funzionale ad adeguare la situazione di fatto alla situazione di diritto. Ciò è vero anche in relazione ai doveri negativi, in quanto la norma di condotta qualifica come giuridicamente necessaria ogni attività, la quale sia idonea a soddisfare l’interesse da essa protetto: essa vieta di porre in essere un determinato comportamento e, a seguito della contravvenzione, prescrive di compiere quanto è necessario per ripristinare la situazione di fatto anteriore alla violazione. A seguito dell’illecito, il diritto è violato, ma non è estinto; la condotta reintegratoria, a contenuto restitutorio o riparatorio, è adempimento dell’originario diritto (e del dovere di astensione che di esso è contenuto) e non costituisce adempimento di un diritto secondario, a carattere obbligatorio, sorto dalla violazione del diritto (assoluto o relativo) di carattere primario (sul punto, Motto, A., Poteri sostanziali e tutela giurisdizionale, Torino, 2012, 422 ss. e ivi gli opportuni riferimenti).
Dal punto di vista contenutistico, il comportamento oggetto della condanna con cui è impartita la tutela in forma specifica coincide con il comportamento (commissivo o omissivo) previsto dal precetto non osservato: è ordinato al soggetto di compiere l’attività prescritta e, in caso di doveri negativi permanenti, di astenersi da svolgere l’attività vietata (sulla condanna inibitoria, v., infra, § 5). Peraltro, nel caso della violazione di doveri di astensione, se l’atto o il comportamento illecito ha determinato uno stato di fatto duraturo, che lede, in modo continuato, il dovere, la condanna prescrive anche il comportamento (a contenuto positivo, a carattere restitutorio o ripristinatorio), idoneo a rimuovere gli effetti materiali dell’illecito commesso. A tale riguardo, occorre peraltro segnalare che la legge pone un limite alla tutela in forma specifica degli obblighi (e, più ampiamente, dei doveri) di non fare: per l’art. 2933, co. 2, c.c., quanto compiuto in violazione degli stessi non può essere distrutto, qualora la distruzione della cosa sia di pregiudizio all’economia nazionale e in tal caso l’avente diritto può conseguire solo il risarcimento del danno (questa disposizione, secondo la giurisprudenza consolidata, ha carattere eccezionale e deve essere interpretata restrittivamente: Cass. n. 14609/2012, cit.; Cass., 23.5.2012, n. 8358; Cons. St., 13.6.2011, n. 3561).
Sino a questo momento, abbiamo preso in considerazione l’ipotesi in cui la violazione concerna una posizione di diritto soggettivo. Tuttavia, la legge stabilisce norme di condotta anche a presidio ed a tutela di interessi, che, dal punto di vista formale, non sono qualificati come diritti soggettivi, i quali, nondimeno, se violati, possono essere tutelati mediante un’azione di condanna. Di questo fenomeno, di estensione e complessità crescenti, sono espressione figure diverse e non omologabili, delle quali in questa sede non è possibile dare conto. Sia sufficiente osservare che, molto spesso, quando il processo di qualificazione non sfocia nell’imputazione di una situazione di diritto soggettivo, la protezione normativa assicurata all’interesse materiale si evince dalla previsione di un rimedio giurisdizionale a sua tutela, che qualifica un determinato comportamento come illecito e stabilisce i presupposti e il contenuto del provvedimento giurisdizionale a sua garanzia (confronta, ad esempio, le azioni a tutela del possesso, artt. 1168 e 1169 c.c., l’azione inibitoria avverso gli atti di concorrenza sleale, art. 2599 c.c., le azioni collettive, quali, ad esempio, quelle previste dagli artt. 37 e 140 c. cons., e, ancora, l’azione di repressione della condotta antisindacale, art. 28 st. lav.).
Con l’azione di condanna, il diritto soggettivo è dedotto in giudizio quale diritto insoddisfatto, in quanto, a seguito dell’illecito, la situazione di fatto è difforme a quella di diritto; al giudice, è richiesto di ordinare all’asserito trasgressore di tenere il comportamento, che è prescritto dal precetto, di cui, sul piano sostanziale, si è verificata la violazione. Ai fini dell’emanazione del provvedimento di condanna, il giudice è chiamato ad accertare l’esistenza del diritto soggettivo e, oltre a ciò, la ricorrenza degli specifici presupposti, in base ai quali è doverosa l’assunzione di quella condotta. Infatti, la giuridica necessità di tenere un determinato comportamento dipende, certamente, dall’esistenza del diritto soggettivo, che tale dovere in generale prevede, di guisa che, se non esiste il primo, non esiste neppure il secondo; ma essa dipende anche da un ulteriore, specifico, segmento di fattispecie, che non condiziona l’esistenza del diritto, ma esclusivamente l’operare del dovere che di esso rappresenta il contenuto. Così, a fronte del diritto di proprietà, i terzi sono tenuti ad astenersi dall’ingerirsi nel godimento della res e tale dovere si specifica, tra l’altro, nel divieto di sottrarre la materiale disponibilità della cosa al proprietario; tuttavia, il godimento della res da parte di un terzo, ferma restando la titolarità del diritto reale in capo al proprietario, può dirsi lecito o illecito, a seconda che il primo sia o non sia munito di un titolo legittimo di godimento: in dipendenza di ciò, a carico del terzo opera o meno il dovere di restituire la cosa al proprietario (Hellwig, K., Anspruch und Klagerecht, Jena, 1900, 409). Ciò vale anche per i diritti di obbligazione, quantunque il fenomeno sia meno evidente, in ragione della struttura e del contenuto, tipicamente strumentali, di tali situazioni giuridiche: ferma restando l’esistenza del credito, il mancato adempimento della prestazione da parte del debitore può essere, alternativamente, lecito o illecito; ad esempio, il debitore non è tenuto a effettuare la prestazione, se il termine di adempimento non sia scaduto (art. 1185 c.c.) e, nei contratti sinallagmatici, se il creditore non abbia eseguito la propria (art. 1460 c.c.).
In base a queste premesse, è possibile dare risposta al quesito, tradizionale negli studi in materia, in ordine al proprium del provvedimento di condanna rispetto alla statuizione di mero accertamento o, secondo un differente, ma equivalente, modo di esprimersi, il quid pluris che il primo presenta rispetto alla seconda.
Nelle due ipotesi, è parzialmente diverso l’oggetto dell’accertamento, in quanto solo nel provvedimento di condanna assume rilievo quel segmento di fattispecie della situazione sostanziale dedotta in giudizio, che condiziona specificamente il sorgere e l’operare del dovere, a cui, con la pronuncia, è ordinato al soggetto di conformarsi.
Ciò è da porre in relazione con la diversità del fatto antigiuridico, che ha dato occasione alla parte di proporre la domanda giudiziale: nel processo di mero accertamento, il diritto è dedotto in giudizio come diritto incerto (nella sua esistenza, contenuto o modo d’essere), per il verificarsi di fatti di contestazione, vanto o apparenza giuridica, mentre, nel processo di condanna, è dedotto quale diritto insoddisfatto, a causa della trasgressione della norma di condotta da parte di colui che era tenuto ad osservarla (Motto, A., op. cit., 391 ss., spec. 394 s.; Garbagnati, E., Azione e interesse, in Jus, 1955, 316 ss., spec. 334, 337). Ne discende che, nel primo, l’attore afferma l’esistenza del diritto (e, eventualmente, che esso ha un certo contenuto), mentre, nel secondo, oltre a ciò, che il diritto deve essere soddisfatto e che il convenuto è tenuto, a tal fine, ad assumere un certo comportamento; il giudice, ai fini dell’emissione del provvedimento richiesto, nell’un caso, si limita a verificare l’esistenza (e, eventualmente, il contenuto e modo d’essere) del diritto, mentre, nell’altro, verifica anche la ricorrenza degli specifici presupposti, in base ai quali è doverosa l’assunzione da parte dell’obbligato del comportamento, da cui dipende il soddisfacimento del diritto; con la conseguenza, che il provvedimento di mero accertamento dichiara l’esistenza (e, eventualmente, il contenuto e il modo d’essere) del diritto, mentre il provvedimento di condanna dichiara, oltre a ciò, che il convenuto è tenuto ad assumere il comportamento previsto dalla norma di condotta violata (Kisch, W., Beiträge zur Urteilslehre, Leipzig, 1903, 23).
Pertanto, la pronuncia di condanna si caratterizza, rispetto alla statuizione di mero accertamento, per l’oggetto e, corrispondentemente, per la regola di condotta impartita rispetto al bene della vita controverso: dichiara l’esistenza del diritto e il dovere del convenuto di tenere un certo comportamento; in breve, essa prescrive (seppure in senso atecnico) un adempimento (in modo conforme, Tavormina, V., In tema di condanna, accertamento ed efficacia esecutiva, in Riv. dir. civ., 1989, II, 21 ss., spec. 38, 40).
È in ragione del suo oggetto, che la legge ricollega alla sentenza di condanna l’efficacia esecutiva (art. 474 c.p.c.), l’idoneità a costituire titolo per l’iscrizione di ipoteca (art. 2818 c.c.) e la conversione delle prescrizioni brevi in prescrizioni decennali (art. 2953 c.c.). Questi effetti giuridici (secondari) del provvedimento sono da porre in relazione con il precetto sostanziale accertato: è dichiarato il carattere doveroso della prestazione e, dunque, la giuridica necessità di soddisfare il diritto azionato in giudizio; a tal fine, è necessario che colui nei cui confronti è stata emessa la condanna si conformi a quanto in essa statuito, di guisa che la pronuncia giurisdizionale non esaurisce il bisogno di tutela della parte sotteso alla domanda giudiziale, il quale sarà soddisfatto solo dall’effettivo conseguimento del bene che le è dovuto, per spontaneo adempimento dell’obbligato o in via di esecuzione forzata.
Questa ricostruzione si differenzia dalle impostazioni per le quali la sentenza di condanna avrebbe per contenuto, oltre all’accertamento del diritto, un elemento di diversa natura (individuato, di volta in volta, nel comando, nei confronti del debitore o dell’organo esecutivo, nella costituzione di uno stato di soggezione a carico del convenuto o nell’applicazione della sanzione) o, secondo più recenti formulazioni, l’accertamento di un’entità diversa e ulteriore rispetto alla pretesa di diritto sostanziale dell’attore (identificata, dalle diverse impostazioni, nell’obbligo del giudice di costituire l’azione esecutiva, nei presupposti dell’esecuzione forzata o della sanzione), al quale viene ricollegata l’efficacia esecutiva della pronuncia di condanna (per riferimenti, Motto, A., op. cit., 414 s., nt. 160).
Le dottrine in discorso muovono dal comune presupposto che il quid caratteristico della sentenza di condanna, che la distingue dalla pronuncia di mero accertamento, sarebbe l’efficacia esecutiva; questa concezione, che ha per corollario il principio della correlazione necessaria tra condanna ed esecuzione forzata, postula, sul piano ricostruttivo, che sia identificato l’elemento peculiare della sentenza di condanna, che si affianca all’accertamento della pretesa sostanziale insoddisfatta, al fine di dar conto dell’idoneità della stessa a costituire il diritto (processuale) dell’attore di agire in via esecutiva (Chizzini, A., Patrimonialità dell’obbligazione tra condanna ed esecuzione forzata, in Giusto proc. civ., 2009, 659 ss., spec. 674 ss.; Mandrioli, C., Sulla correlazione necessaria tra condanna ed eseguibilità forzata, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1976, 1342 ss., spec. 1344, 1352; Montesano, L., Condanna, cit., 2 s.; Attardi, A., Diritto processuale civile, III ed., Padova, 1999, 106 s.; Id., L’interesse ad agire, rist. Padova, 1958, 100 ss.).
In realtà, come si crede di avere dimostrato, il proprium del provvedimento di condanna attiene alla circostanza che esso ha per contenuto un ordine di prestazione a carico del convenuto, il quale altro non è che l’accertamento del precetto sostanziale, che qualifica come doverosa l’assunzione di un dato comportamento, in funzione del soddisfacimento dell’interesse altrui. L’efficacia esecutiva è un elemento esterno, che la legge attribuisce alla sentenza in ragione del suo contenuto (e a condizione che la prestazione dovuta sia, oltre che fungibile, liquida ed esigibile), a prescindere da un accertamento da parte del giudice dei presupposti della stessa e di una corrispondente dichiarazione diretta alla sua produzione (così, invece, Attardi, A., Diritto, cit., 106; Montesano, L., Condanna, cit., 20, 28; Chizzini, A., Patrimonialità,cit., 677; Mandrioli, C., Sulla correlazione, cit., 1344). L’efficacia esecutiva è ricollegata alla sentenza di condanna quale mero atto giuridico, è un effetto secondario della stessa, in quanto il giudice della cognizione non ha il potere di interferire con gli effetti del proprio provvedimento e, tantomeno, gli è attribuito il potere di accertare i presupposti dell’esecuzione forzata (Garbagnati, E., op. cit., 338 s.; Denti, V., «Flashes» su accertamento e condanna, in Riv. dir. proc., 1985, 255 ss., spec. 255 s., 264; Roth, H., Vor § 253, in Stein, F.-Jonas, M., Kommentar zur Zivilprozessordnung, IV, XXII ed., Tübingen, 2008, 4 ss., spec. 54).
Non vi è, quindi, una correlazione biunivoca tra condanna ed esecuzione forzata: certamente, l’efficacia esecutiva può essere dalla legge ricollegata alle sole sentenze (e, più ampiamente, ai provvedimenti) di condanna; però, non tutte le pronunce di condanna costituiscono titolo per l’esecuzione forzata e, nonostante ciò, devono essere qualificate come tali, in ragione del loro contenuto.
Tra queste ultime, vengono in rilievo, in particolare, quelle che hanno ad oggetto obblighi infungibili: non costituiscono titolo per l’esecuzione forzata diretta, per i limiti caratteristici di questa, ma, nondimeno, ordinando al convenuto di effettuare una certa prestazione o di tenere un determinato comportamento, debbono essere qualificate come provvedimenti di condanna. Ed è proprio in ragione del loro contenuto, che possono essere assistite da una misura coercitiva, la quale è volta a compulsare l’obbligato a prestare l’adempimento dovuto; non casualmente l’istituto disciplinato dall’art. 614 bis c.p.c. può assistere un provvedimento, che è espressamente qualificato dalla legge come di condanna.
Dall’art. 614 bis c.p.c. si trae, peraltro, un’ulteriore, significativa, indicazione: poiché la misura coercitiva non necessariamente assiste il provvedimento di condanna (ad esempio, in quanto sia mancata l’istanza di parte o il giudice l’abbia rigettata per manifesta iniquità o, ancora, in quanto la controversia riguarda un rapporto escluso dall’ambito di applicazione della disposizione), si ha conferma che l’elemento de quo è del tutto neutro rispetto alla qualificazione di una determinata pronuncia come condanna; tale qualificazione discende dal contenuto del provvedimento e non dalla circostanza, eventuale, che sia prevista un misura coercitiva a presidio dell’adempimento della prestazione dichiarata dovuta (contra, Chiarloni, S., Misure coercitive e tutela dei diritti, Milano, 1980, 140 ss., 200 ss., secondo il quale il concetto di condanna è indissolubilmente collegato all’applicazione di una sanzione, di esecuzione diretta o indiretta).
Questo dibattito potrebbe essere archiviato come una disputa meramente nominalistica, se l’impostazione criticata non fosse gravida di rilevanti implicazioni sistematiche ed applicative.
Invero, posta la correlazione necessaria tra condanna ed esecuzione forzata, è esclusa la possibilità di chiedere e di ottenere la tutela di condanna per diritti, che non siano suscettibili di realizzazione coattiva (Attardi, A., Diritto, cit., 106 s.) o in relazione ai quali non sia prevista una misura coercitiva (Chiarloni, S., op. cit., 160 s., 171 s.); la qual cosa significa che la violazione di un obbligo infungibile, non potendo dare adito alla tutela in forma specifica e, quindi, alla condanna dell’obbligato a conformarsi al dovere violato, «ha rilievo solo quale fonte del diritto al risarcimento del danno verso l’obbligato medesimo» (Attardi, A., op. ult. cit., 107). Se, con ciò, si intendesse sostenere che il diritto, a seguito della lesione, può ricevere tutela solo per equivalente, allora si giungerebbe al risultato, contrario alla legge ed al sistema, per cui l’illecito determina l’estinzione sul piano sostanziale della situazione giuridica protetta, convertendola in un’obbligazione pecuniaria (questa conclusione è respinta dalla giurisprudenza, la quale ammette la tutela di condanna per obblighi aventi ad oggetto prestazioni infungibili, anche non assistita da misure coercitive: Cass., S.U., 10.1.2006, n. 141; Cass., 23.9.2011, n. 19454). Se, invece, con ciò si volesse affermare, più semplicemente, che il diritto leso può essere oggetto di tutela, la quale, però, assume le forme della tutela di mero accertamento (Attardi, A., op. loc. ultt. citt.; Chiarloni, S., op. cit., 171), non si perverrebbe a tale inaccettabile risultato; tuttavia, residuerebbe pur sempre un’incongruenza sistematica di assoluto rilievo: si postula il ricorso alla tutela di mero accertamento, in ipotesi in cui viene in rilievo non l’incertezza della situazione soggettiva, bensì la sua violazione, nelle quali il diritto non è incerto, bensì è insoddisfatto, in cui l’attore richiede al giudice non di dichiarare l’esistenza e il modo d’essere della situazione soggettiva, bensì di ordinare al convenuto di conformarsi al dovere violato, ponendo in essere le condotte prescritte (secondo una differenziazione, che ha sicuro riscontro nel diritto positivo; ad esempio, l’art. 1079 c.c. distingue tra la contestazione del diritto di servitù, che dà adito a un’azione di mero accertamento, e il compimento di atti di impedimento o turbativa dello stesso, a fronte dei quali il titolare del diritto può agire affinché ne sia ordinata la cessazione).
Infine, l’obiezione, per cui vi sarebbero obblighi, in relazione ai quali, in un ordinamento moderno, non è pensabile immaginare misure di esecuzione diretta o indiretta, non dimostra l’esistenza di un preteso principio generale, secondo cui non vi potrebbe essere condanna all’adempimento di obbligazioni infungibili in assenza di misure di esecuzione diretta e indiretta (Chiarloni, S., L’esecuzione indiretta ai sensi dell’art. 614 bis c.p.c.: confini e problemi, in Giur. it., 2014, 731 ss., spec. 733 s.). Questa osservazione, infatti, va collocata su un diverso piano: nelle ipotesi tenute in considerazione da questa dottrina (l’obbligazione di contrarre matrimonio e l’obbligo di convivenza dei coniugi), non è configurabile, ancor prima, sul piano sostanziale, un’obbligazione ai sensi dell’art. 1174 c.c., della quale possa essere preteso l’adempimento, o, se si preferisce, viene in rilievo una di quelle figure, alle quali si è già fatto riferimento, in cui, sempre per scelte del legislatore sostanziale, a seguito della violazione, è esclusa la tutela in forma specifica del diritto e possono avere luogo, eventualmente, solo forme di compensazione per equivalente pecuniario.
La condanna può avere funzione repressiva o preventiva, a seconda che abbia ad oggetto doveri violati e miri a eliminare gli effetti dell’illecito, oppure riguardi doveri non ancora trasgrediti e sia volta a impedire la commissione o la continuazione dell’illecito (Proto Pisani, A., Appunti sulla tutela di condanna, cit., 75 ss., 81 s.).
Per affrontare questo tema, è opportuno muovere dalla struttura temporale delle situazioni giuridiche, distinguendo tra: a) situazioni giuridiche di carattere istantaneo, a cui è sotteso un interesse a un bene che il soggetto non ha nella propria disponibilità ed è soddisfatto con il suo conseguimento (quali, essenzialmente, i diritti di credito a una prestazione unitaria); e b) situazioni giuridiche durevoli, a cui è sotteso un interesse alla conservazione o al godimento di beni che il soggetto ha nella propria disponibilità (quali i diritti assoluti, della personalità o reali, il possesso, i diritti personali di godimento) ovvero un interesse a conseguire beni che il soggetto non ha nella propria disponibilità, attraverso prestazioni di carattere continuato o periodico (obbligazioni e rapporti di durata).
Nel primo ordine di ipotesi, verificatosi l’illecito, il diritto è in stato di lesione e, trattandosi di una situazione di carattere istantaneo, non è configurabile la reiterazione della violazione; la condanna interviene rispetto a un obbligo inadempiuto e mira a eliminare gli effetti della violazione compiuta.
Anche nel secondo caso, l’illecito determina la lesione del diritto; tuttavia, il dovere si protrae nel tempo, di guisa che sono configurabili la continuazione o la reiterazione della violazione già commessa. Anche in questi casi, la condanna interviene per reprimere l’illecito commesso ed eliminarne gli effetti; tuttavia, essendo configurabili la continuazione o la reiterazione dell’illecito, la condanna può guardare anche al futuro, a violazioni del dovere successive alla definizione del processo.
Con riferimento al primo ordine di ipotesi, la condanna preventiva interviene anteriormente alla violazione della situazione sostanziale e, anzi, in un momento nel quale essa non è neppure configurabile, in quanto non è attuale il dovere di comportamento a carico dell’obbligato. Astrattamente, l’azione di condanna può riguardare sia crediti aventi titolo in una fattispecie complessa a formazione progressiva, anteriormente al suo completamento, sia crediti esistenti, ma non ancora esigibili, perché sottoposti a termine di adempimento. Nel nostro ordinamento, è ammesso l’esercizio, in via cumulata all’interno dello stesso processo, dell’azione di condanna per i crediti di regresso anteriormente al pagamento del debito principale, ed è consentito domandare la condanna al rilascio dell’immobile locato, prima della conclusione del rapporto (art. 657 c.p.c.). Questi sono casi di veri e propri giudizi preventivi: la condanna è richiesta dall’attore, e concessa dal giudice, anteriormente al verificarsi della violazione e della lesione del diritto; è comminato un ordine di adempiere nel futuro, funzionale a premunire l’avente diritto di un titolo esecutivo, da azionare non appena si sia verificato l’illecito. Il legislatore intende annullare lo scarto temporale nell’attuazione del diritto, che il titolare, necessariamente e fisiologicamente, subisce, dovendo attendere, prima di essere legittimato a richiederne la protezione, la violazione da parte dell’obbligato; tuttavia, questa esigenza di tutela deve essere coordinata e bilanciata con i principi generali e il pubblico interesse, i quali richiedono che l’accesso alla giustizia segua il verificarsi della crisi di cooperazione sul piano sostanziale (per queste ragioni, la forma di tutela preventiva in discorso non sembra poter prescindere da un’espressa previsione di legge; contra, Rognoni, V., La condanna in futuro, Milano, 1958, 173 ss.).
Discorso in parte diverso vale con riferimento al secondo ordine di ipotesi, relativo a situazioni giuridiche durevoli nel tempo, quando la violazione sul piano sostanziale si sia già verificata; in questi casi, la situazione giuridica è perfezionata, il dovere è attuale e colui che è tenuto ad osservarlo lo ha trasgredito.
Occorre distinguere tra obbligazioni di durata aventi ad oggetto prestazioni continuate o periodiche di contenuto positivo (di dare o di fare) e situazioni giuridiche di durata (di carattere assoluto o relativo) aventi per contenuto un dovere negativo (di non fare o di pati).
Con riferimento alle prime, l’art. 664 c.p.c. prevede che il locatore possa ottenere la condanna del conduttore moroso al pagamento dei canoni scaduti e di quelli ancora da scadere. Questa figura può essere estesa in via analogica a tutte le fattispecie, in cui viene in rilievo l’inadempimento di un obbligo a carattere continuato o periodico, avente titolo in un rapporto di durata; si tratta, certamente, di una condanna, che, riguardo alle prestazioni future, non ancora esigibili, ha carattere preventivo; tuttavia, in queste ipotesi, diversamente da quelle prese in considerazione precedentemente, la condanna riguarda obbligazioni di durata e presuppone un inadempimento già verificatosi; la qual cosa giustifica che il provvedimento che definisce il processo a cui ha dato luogo la prima violazione detti una prescrizione concreta, la quale non solo rimuova l’illecito verificatosi, ma impartisca anche una regola di condotta, da osservare nel futuro svolgimento del rapporto.
Vengono poi in rilievo le situazioni giuridiche di durata, di cui è contenuto un dovere di carattere negativo (di non fare, oppure di pati, il quale impone di tollerare un’attività altrui di carattere continuato o iterativo, facendo divieto all’onerato di ostacolarne o impedirne lo svolgimento). Verificatasi la violazione, questa è suscettibile di continuazione o di ripetizione; il titolare della situazione protetta agisce per l’eliminazione degli eventuali effetti permanenti causati dall’illecito (v., supra, § 2), ma anche per prevenire successive violazioni del dovere di astensione. Egli chiede la condanna del convenuto a tenere le condotte (positive) necessarie per eliminare quanto compiuto in violazione del dovere e, al contempo, domanda la condanna dello stesso all’adempimento, nel futuro, del dovere violato, vale a dire ad astenersi dal continuare o dal reiterare il comportamento illecito; invero, avrebbe poco senso imporre a un soggetto di desistere ora e non domani da un comportamento lesivo del diritto (Di Majo, A., La tutela civile dei diritti, IV ed., Milano, 2003, 146).
Gli interrogativi tradizionalmente connessi alla tutela inibitoria sono molteplici; su alcuni di essi, è opportuno soffermare brevemente l’attenzione.
Innanzitutto, la tutela inibitoria ha carattere atipico: qualificato dalle norme sostanziali un dovere negativo di carattere durevole, il quale è contenuto, indifferentemente, di una situazione soggettiva assoluta o relativa, a seguito della violazione, il titolare dell’interesse protetto può agire per la condanna del trasgressore all’adempimento del dovere violato, affinché gli sia ordinato di astenersi dal continuare o reiterare il comportamento illecito (in modo conforme, la dottrina assolutamente prevalente; per tutti: Pagni, I., op. cit., 40 ss., 48; Rapisarda, C., Profili della tutela civile inibitoria, Padova, 1987, 236 ss.; Basilico, G., La tutela civile preventiva, Milano, 2013, 241; Frignani, A., Azione in cessazione, in Nss. D.I., Appendice, I, Torino, 1980, 640 ss., spec. 658 ss., 661 ss.; Roth, H., op. cit., 50 s.; tra le figure tipiche di inibitoria, si ricordano gli artt. 7, 10, 844, 949, co. 2, 1079, 1170, 2599 c.c., e, nelle leggi speciali, l’art. 156 l. 22.4.1941, n. 633, l’art. 124 d.lgs. 10.2.2005, n. 30, l’art. 28 l. 20.5.1970, n. 300, gli artt. 37 e 140 d.lgs. 6.9.2005, n. 206, l’art. 28 d.lgs. 1.9.2011, n. 150).
Sotto il profilo del contenuto, si tratta di un provvedimento di condanna, atteso che la pronuncia ha ad oggetto l’accertamento del carattere doveroso dell’assunzione di un determinato comportamento e ordina al convenuto di astenersi dal compiere determinati atti o comportamenti (per molti: Caponi, R., op. cit., 85 ss.; Basilico, G., op. cit., 191; Denti, V., op. cit., 262; Romano, A.A., L’inibitoria degli atti di concorrenza sleale nella teoria dell’oggetto del processo, in Studi in onore di M. Acone, III, Napoli, 2010, 2131 ss., spec. 2137 s.; in modo diverso, qualificano l’inibitoria come provvedimento di mero accertamento: Attardi, A., Diritto, cit., 106-107; Id., L’interesse, cit., 100 ss., spec. 125 ss., 162; Chizzini, A., op. cit., 679 s.).
Caratteristica dell’inibitoria è di avere ad oggetto un dovere negativo, il quale è posto a presidio della conservazione o del godimento di un bene: non vengono identificati doveri (positivi) a prestazioni specifiche, né, almeno nei doveri di astensione di fonte legale, sono identificate le singole, concrete, condotte, che il soggetto è tenuto a non porre in essere. La qualificazione normativa di antigiuridicità discende, per lo più, dal carattere lesivo dell’atto o del comportamento posto in essere per l’interesse protetto dal dovere di astensione (si vedano, ad esempio, l’art. 949, co. 2, c.c., l’art. 2598 c.c. e l’art. 140 d.lgs. n. 206/2005).
Discende dalla struttura normativa del dovere di astensione che, nel processo in cui si discute della sua violazione, si assista ad una specificazione del comando astratto previsto dalla legge; la qualificazione da parte del giudice degli atti e dei comportamenti allegati dall’attore come eventi sussumibili, o meno, all’interno della fattispecie legale del dovere di astensione, attua un avvicinamento della norma al fatto concreto (cd. Annährung).
La qualificazione di illiceità assume un duplice valore: ai fini della condanna del trasgressore a porre in essere le condotte ripristinatorie e restitutorie, che sono necessarie per rimuovere gli effetti della violazione consumatasi, in funzione della reintegrazione della situazione protetta; ai fini della pronuncia di condanna, a carico dello stesso, ad astenersi, nel futuro, a continuare o ripetere le condotte dichiarate illecite, in funzione della prevenzione di ulteriori analoghe violazioni della situazione protetta. In questa parte, il provvedimento giurisdizionale esplica un’efficacia conformativa: qualifica i comportamenti leciti e doverosi che le parti possono e devono tenere nel tratto della situazione giuridica di durata che si colloca nel futuro, dettando, in base all’accertamento compiuto, la regola di condotta a cui esse si devono attenere (Caponi, R., op. cit., 87 s.; Cass., 13.3.2013, n. 6226).
Il precetto legale, generico e indeterminato, è concretizzato dal giudice in un divieto specifico; la qual cosa non significa, però, che la pronuncia inibitoria innovi la disciplina della relazione giuridica inter partes, modificando o creando doveri o obblighi anteriormente non esistenti sul piano sostanziale: essa, più semplicemente, sancisce che, alla stregua del preesistente dovere di astensione violato, determinati atti o comportamenti sono illeciti e, dunque, sono vietati (contra, per il carattere costitutivo-determinativo dell’inibitoria: Montesano, L., Problemi attuali e contenuti anche non patrimoniali delle inibitorie, normali e urgenti, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1995, 775 ss., spec. 776 ss.).
È un dato di evidenza sensibile che il dovere di astensione posto a carico di un soggetto, in funzione della tutela dell’interesse altrui, molto spesso si traduce in una compressione della sua libertà: non è infrequente che il dovere di astensione incida sull’esercizio di attività, che costituiscono, a propria volta, estrinsecazione di diritti e, talvolta, di libertà fondamentali, del soggetto (si pensi, ad esempio, alle fattispecie di cui agli artt. 844 e 2599 c.c.).
Pertanto, al giudice, in quell’opera di attualizzazione della fattispecie astratta del dovere di astensione nel caso concreto, è consentito enunciare una regola di condotta di carattere complesso, la quale non vieti tout court il compimento di un’attività, ma precisi le modalità attraverso cui essa può essere legittimamente esercitata, nel rispetto dell’interesse altrui: il giudice, nell’ipotesi di immissioni intollerabili, ne ordina la cessazione, ma, al contempo, può precisare le modalità attraverso cui il vicino può esercitare legittimamente le sue facoltà (Di Majo, A., op. cit., 145; Cass., S.U., 6.9.2013, n. 20571).
Venendo, infine, ai presupposti dell’azione inibitoria, è richiesto che si sia verificato l’illecito e, secondo l’opinione prevalente, che esso sia suscettibile di continuazione o di ripetizione (Rapisarda, C., op. cit., 90; Frignani, A., op. cit., 653, 655 s.).
L’emanazione dell’ordine di cessare o di non reiterare l’attività, invece, prescinde dall’imputabilità dell’illecito all’autore (e, dunque, dalla colpevolezza), così come dall’elemento del danno, inteso questo come conseguenza pregiudizievole risarcibile cagionata nel patrimonio altrui (Frignani, A., op. cit., 653 ss.; Rapisarda, C., op. cit., 88 s., 108 ss.; Bellelli, A., L’inibitoria come strumento generale di tutela contro l’illecito, in Riv. dir. civ., 2004, I, 607 ss., spec. 616 s., 621 ss.; contra, Libertini, M., La tutela civile inibitoria, in Processo e tecniche di attuazione dei diritti, a cura di S. Mazzamuto, I, Napoli 1989, 315 ss., spec. 338 ss.). Ciò è coerente con la configurazione dell’azione inibitoria quale forma di tutela specifica dell’interesse protetto: l’imputabilità dell’illecito ed il danno sono irrilevanti, ai fini della comminatoria dell’ordine di adempiere il dovere violato, e assumono significato solo ai fini dell’eventuale giudizio di responsabilità, come peraltro si evince dalle norme di diritto positivo (cfr., ad esempio, gli artt. 949, co. 2, 1079, 2599 e 2600 c.c.).
Un profilo altamente controverso è se se sia ammissibile la tutela inibitoria anteriormente alla verificazione dell’illecito, vale a dire quando la violazione sia semplicemente temuta o minacciata (in senso affermativo: Proto Pisani, A., L’attuazione dei provvedimenti di condanna, in Foro it., 1988, V, 177 ss.; Frignani, A., op. cit., 646 s., 656; Bellelli, A., op. cit., 615 ss.; Rapisarda, C., op. cit., 90; in modo diverso, Di Majo, A., op. cit., 156 s.; G. Basilico, op. cit., 203, 210; la soluzione positiva è accolta dalla prevalente dottrina tedesca, per la quale cfr., Roth, H., op. cit., 52).
In base alle norme positive che prevedono figure tipiche di tutela inibitoria cd. di merito (o finale), ciò sembrerebbe da escludere: a fronte di una disposizione espressa, che esplicitamente ammette la tutela inibitoria in presenza del mero timore del verificarsi della violazione (art. 156 l. autore), le altre previsioni, almeno implicitamente, presuppongono che l’illecito sia già stato commesso.
Questa constatazione trova conferma nei principi generali, per i quali la tutela giurisdizionale di condanna presuppone la verificazione, sul piano sostanziale, dell’illecito e, dunque, un comportamento concreto difforme dalla norma di condotta. D’altra parte, però, è innegabile che, nel settore in considerazione, vengono in rilievo situazioni giuridiche, per lo più di natura non patrimoniale (o, comunque, a contenuto non esclusivamente patrimoniale), connesse a interessi fondamentali della persona, che possono essere pregiudicati in modo irreparabile da condotte altrui; in tali casi, la tutela repressiva (reintegratoria e risarcitoria), per definizione, non è effettiva, in quanto la lesione subita dall’interesse non può essere riparata, né in forma specifica, né per equivalente. Si pensi ai diritti al nome o all’immagine e, ancor prima, ai diritti alla vita, alla salute, a un ambiente salubre, i quali hanno ad oggetto beni, che è difficile, e talvolta impossibile, riparare a seguito della lesione.
Si pone quindi il tema dell’ammissibilità della tutela di interessi fondamentali della persona, in via anticipata, anteriormente al verificarsi dell’illecito, quando questo sia solo temuto.
Questo tema sfugge, almeno in parte, all’indagine dell’interprete, per il quale il canone di massima strumentalità del processo rispetto al diritto sostanziale postula che la tutela giurisdizionale assicuri l’effettività delle norme materiali, ma, allo stesso tempo, non alteri l’assetto di interessi da queste dettato.
Spetta al legislatore operare un delicato bilanciamento, da un lato, tra gli interessi, che, se pregiudicati, sono definitivamente sacrificati (ad esempio, i diritti alla salute, all’ambiente salubre) e, da un altro lato, gli interessi, anch’essi meritevoli di tutela, che sono realizzati dal compimento di una determinata attività (ad esempio, l’esercizio di un’impresa, che costituisce espressione della libertà di iniziativa economica e concorre ad attuare il diritto al lavoro). Nessuno dubita che, in caso di compromissione di un interesse della prima specie, l’attività debba arrestarsi (in quanto espressione di un interesse recessivo rispetto a quello pregiudicato); molto meno sicura è la conclusione, se una determinata attività non determini una lesione attuale all’interesse, ma vi sia solo il timore o la possibilità che possa arrecarla.
Talvolta, a tutela di determinati interessi, ritenuti meritevoli di particolare protezione (si pensi, sempre in via esemplificativa, alla salute e all’ambiente salubre), il legislatore detta doveri di comportamento ispirati a una visione prudenziale dell’attività potenzialmente pericolosa (ad esempio, l’esercizio di un’industria chimica o di stoccaggio e di smaltimento di rifiuti), volti a prevenire la verificazione della lesione.
In queste ipotesi, il bilanciamento degli interessi configgenti è compiuto dal legislatore, il quale comprime o limita l’esercizio di un’attività, in modo da prevenire la lesione dell’interesse ritenuto prevalente, sì da innalzarne ed anticiparne il livello di tutela; questo, talvolta, anche rispetto ad attività, il cui carattere lesivo non può essere dimostrato, ma neppure escluso, in base allo stato delle conoscenze scientifiche (sul principio di precauzione rispetto a situazioni di mero rischio, per tutti, Gragnani, A., Il principio di precauzione come modello di tutela dell’ambiente, dell’uomo, delle generazioni future, in Riv. dir. civ., 2003, II, 9 ss., spec. 34 s.).
Quando, invece, manchi un’espressa previsione di legge, la qualificazione di illiceità di un determinato comportamento discende, per la struttura stessa del dovere di astensione, dalla sua idoneità a determinare la lesione dell’interesse protetto; ciò che occorre stabilire è se, ai fini della concessione del provvedimento di tutela, sia necessario che la lesione all’interesse protetto si sia già verificata, oppure sia sufficiente che essa possa derivare dal comportamento di volta in volta in considerazione.
Il diritto positivo non sembra impedire una ricostruzione per cui non è necessario che la lesione si sia già realizzata, ma è sufficiente che la continuazione di quella attività o il permanere di una determinata situazione di fatto sia idonea a cagionarla; dunque, una lesione non attuale ma futura, che consegue a una condotta (commissiva o omissiva) in essere.
In questo senso possono essere valorizzate alcune norme dettate per settori specifici (in materia di concorrenza sleale, l’art. 2598 c.c. configura l’illecito per la mera idoneità della condotta contestata a recare pregiudizio alle ragioni del concorrente, di guisa che non è richiesto che la lesione si sia effettivamente verificata; in questo senso: Cass., 12.2.2009, n. 3478; Cass., 3.4.2009, n. 8119; in dottrina, Ghidini, G., La concorrenza sleale, in Giur. sist. civ. comm. Bigiavi, III ed., Torino, 2001, 255 ss., 264 s.) e gli artt. 1171, 1172 c.c. e 700 c.p.c., i quali, pur disciplinando misure giurisdizionali di natura cautelare, sembrano essere espressione di un principio di carattere generale. Infatti, se il legislatore, negli istituti da ultimo ricordati, accorda la tutela cautelare in presenza di un pregiudizio non ancora verificatosi, ma solo incombente, stabilendo che il provvedimento cautelare possa inibire la continuazione dell’attività o ordinare le misure idonee ad evitare la produzione della lesione; ciò significa che la tutela giurisdizionale, anche di merito, può essere richiesta dalla parte interessata, e concessa dal giudice, allorché da una certa attività o da una determinata situazione di fatto possa derivare un pregiudizio all’interesse protetto. Questo, oltre che nell’ambito della tutela della proprietà, dei diritti reali di godimento e del possesso (artt. 1171 e 1172 c.c.), anche nelle ipotesi, specialmente oggetto della nostra attenzione, in cui la lesione temuta assuma i caratteri della irreparabilità e concerna beni ed interessi fondamentali del persona (art. 700 c.p.c.).
Ciò posto, non ci si nasconde che i profili maggiormente problematici si annidano proprio nella valutazione, di carattere prognostico, che il giudice, in queste ipotesi, è tenuto a compiere ai fini della concessione del provvedimento di tutela; infatti, egli è chiamato ad accertare il nesso causale tra un’attività o una situazione di fatto attuale e una lesione futura.
Vi sono ipotesi, in cui, in base ai dati della logica e dell’esperienza comune, ad acquisizioni scientifiche consolidate, è possibile affermare la sussistenza di un rapporto eziologico tra un’attività o una situazione di fatto e un evento lesivo, tale per cui, salvo l’intervento di fattori esterni idonei a interrompere il decorso causale, alla prima segue il secondo; in altri casi, invece, le regole della logica e dell’esperienza, le conoscenze scientifiche disponibili non consentono di escludere, ma nemmeno di affermare, che l’esercizio di una determinata attività provochi la lesione paventata.
In quest’ultimo ordine di ipotesi, si pongono interrogativi di difficile, per non dire impossibile, risoluzione per l’interprete (confronta, Consolo, C., Il rischio da «ignoto tecnologico»: un campo arduo per la tutela cautelare (seppur solo) inibitoria, in AA.VV., Il rischio da ignoto tecnologico, Milano, 2003, 65 ss.).
In particolare, se il giudice civile possa, sulla base di una valutazione di mera probabilità o possibilità, inibire il compimento di un’attività, la quale non produce un pregiudizio attuale dell’interesse protetto (e non è possibile affermare che lo cagionerà in futuro, non essendo disponibili evidenze scientifiche che ne comprovino la potenzialità dannosa), non viola alcuna regola dell’ordinamento (o, addirittura, si conforma ai precetti, dettati da fonti primarie e secondarie o da provvedimenti amministrativi) e costituisce espressione di un diritto o di una libertà fondamentale del soggetto che la esercita. Sono questi alcuni degli interrogativi a cui si sono trovati di fronte i giudici civili, ai quali era stato richiesto di inibire all’operatore la messa in funzione di un elettrodotto o di un impianto di trasmissione per telefonia mobile, per il timore che tali attività, pur esercitate in conformità alle prescrizioni normative ed amministrative, potessero cagionare un pregiudizio alla salute di coloro che vivevano nelle vicinanze, quantunque non vi fossero evidenze scientifiche del carattere lesivo delle stesse per la salute dell’uomo (per molte, con varietà di soluzioni, confronta: Cass., 27.7.2000, n. 9893; Cass., 8.2.2006, n. 4098; Trib. Foggia, 27.2.2007, in Foro it., 2007, I, 2124 ss., con osservazioni di F. Mattassoglio; Trib. Como, 23.11.2005, in Foro it., 2007, I, 222 ss., con nota di A. Palmieri; Trib. Udine, sez. Palmanova, 8.1.2001 e Trib. Verona, 28.3.2001, entrambe in Giur. it., 2001, 2063 ss., con commento di T. Della Massara; Trib. Milano, 7.10.1999, in Foro it., 2000, I, 141 ss., con nota di R. Falco).
Artt. 948, 1079, 1218, 1453, 2599, 2818, 2953 c.c.; artt. 474, 657, 614 bis, 700 c.p.c.
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