Concordato in appello
In linea con la speditezza processuale e semplificazione delle impugnazioni penali a cui è finalizzata la l. 23.6.2017, n. 103 ha reintrodotto il cd. concordato sui motivi d’appello. Tuttavia, l’attuale fisionomia del concordato sui motivi, pur presentando tratti comuni con le precedenti versioni, si caratterizza per una serie di previsioni inedite e per la sua collocazione in un più ampio contesto di riforma del sistema dei riti speciali di primo grado e delle impugnazioni. Il richiamo va, in particolare, alla collocazione dell’istituto nel nuovo giudizio di appello (con particolare riguardo alla tematica della specificità dei motivi di appello, alla quale il concordato appare connesso) e al percorso semplificato per la declaratoria di inammissibilità dei ricorsi per cassazione proposti avverso le sentenze che ratificano l’accordo delle parti.
Fra i meccanismi che sono stati reintrodotti dalla cd. riforma Orlando si annovera il concordato sui motivi d’appello. L’istituto a base convenzionale ha avuto una vita travagliata: introdotto sulla base di precise scelte logico-sistematiche dal nuovo codice di rito nel 19881, censurato, non senza critiche2, nel 1990 dalla Corte costituzionale3 fu ripristinato nel 19994 e abrogato con la l. 23.5.2008, n. 92. L’insuccesso del negozio stipulato dalle parti con accoglimento «in tutto o in parte, dei motivi d’appello e con rinuncia agli altri eventuali motivi» si fondava, in un primo momento, sostanzialmente sull’irragionevolezza di un meccanismo che consentiva di “negoziare” non soltanto il quantum ma anche l’an della responsabilità penale, da un lato, e che consentiva eccessive riduzioni “ai limiti della legalità” della pena, con un forte ridimensionamento dell’accesso ai riti speciali in primo grado, dall’altro. Pareva, infatti, del tutto incoerente ammettere un modello di “giustizia negoziata” estesa anche alla sfera della responsabilità. Reintrodotto in ragione dell’esigenza insopprimibile di una più agevole soluzione dei giudizi e del maggior ruolo che le parti dovevano avere nel processo, l’istituto venne abolito in ragione di una scelta politica tesa ad un maggior rigore, generata da allarmanti esigenze di sicurezza pubblica, ora, la durata ragionevole del processo, anche d’ impugnazione, ha indotto il legislatore del 2017 a riprendere quel modello, fondato essenzialmente sull’assenza di rischi, apportandovi delle necessarie (ma non del tutto coerenti) modifiche per rimediare alle patologie segnalate dall’esperienza passata.
È noto come il cd. concordato sui motivi d’appello abbia alleviato il carico dei giudici delle impugnazioni, consentendo la definizione sollecita di giudizi di appello, a volte pesanti per il numero degli imputati e delle imputazioni, e dei successivi, purtroppo non infrequenti, pretestuosi ricorsi per cassazione, destinati a concludersi con semplici dichiarazioni di inammissibilità: è sulla scorta di tale esperienza che la cd. riforma Orlando ha ripristinato, apportandovi le necessarie modifiche, quell’istituto. La sua reintroduzione è elemento qualificante della riforma con effetti benefici non solo sul giudizio di seconde cure ma anche sul ricorso per cassazione.
L’istituto trova ora una propria autonomia sistematica agli artt. 599 bis e 602, co. 1-bis, c.p.p.: esso tende a stimolare le parti verso l’individuazione consensuale, quando sia possibile, delle richieste che meritano l’accoglimento, con l’abbandono delle altre, in piena conformità alla logica negoziale e dispositiva che irradia il giudizio d’appello: non sono previsti effetti premiali. Il testo dell’art. 599 bis c.p.p. e dell’art. 602, co. 1-bis, c.p.p. offre una formulazione lineare: si stabilisce che la Corte provvede in camera di consiglio quando le parti, nelle forme previste dall’art. 589 c.p.p., ne fanno richiesta dichiarando di concordare sull’accoglimento, in tutto o in parte, dei motivi di appello, con rinuncia agli altri eventuali motivi. Se i motivi dei quali viene chiesto l’accoglimento comportano una nuova determinazione della pena, il pubblico ministero, l’imputato e la persona civilmente obbligata per la pena pecuniaria indicano al giudice anche la pena sulla quale sono d’accordo. Come si comprende nessun riferimento è (espressamente) volutamente operato alla pena. Se la pluralità delle parti coinvolte si conforma alle esigenze, di volta in volta, determinate dall’oggetto dell’accordo che si connota per geometrie variabili, a seconda del contenuto, l’assenza di limiti sul versante oggettivo-contenutistico lascia emergere come il concordato possa coprire qualsiasi motivo d’appello ovvero tutti i temi devoluti alla cognizione del giudice (pena, benefici, formula di proscioglimento, circostanze). Nonostante le vicende del passato, l’accordo può avere contenuto integrale: sotto tale aspetto il legislatore del 2017 non ha, dunque, ritenuto di porre alcun limite oggettivo. Se i motivi dei quali viene chiesto l’accoglimento comportano una nuova determinazione della pena, il pubblico ministero, l’imputato e la persona civilmente obbligata per la pena pecuniaria indicano al giudice anche la pena sulla quale sono d’accordo: quello sulla pena è effetto indiretto o implicito dell’accordo. L’accoglimento del concordato sui motivi, con conseguente statuizione d’inammissibilità (sopravvenuta) di quelli esclusi dal negozio, riposa su uno schema negoziale. L’applicazione degli artt. 599 bis e/o 602, co. 1-bis, c.p.p. implica «un progetto di dispositivo» non vincolante per il giudice in ottemperanza al principio di legalità della pena. Il profilo contrattuale della vicenda penale è opportunamente controbilanciato dal sindacato del giudice: al decidente è inibito modificare i termini della negoziazione o statuire ricezioni parziali del patto. Il giudice mantiene, tuttavia, ampi poteri cognitivi e decisionali: egli può accogliere o meno l’accordo «allo stato degli atti». Piena ed insindacabile è l’autonomia decisionale del giudice, anche sul versante della non congruità della pena, potendo legittimamente non ratificare l’accordo5. In caso di diniego restituisce alle parti le loro facoltà diritti, fra cui quello di “ri-contrattare i motivi” riproducibili al giudice in sede dibattimentale ex art. 602, co. 1-bis, c.p.p. L’accordo comporterà, peraltro, una motivazione fortemente semplificata, con altrettanti benefici sul piano della riduzione degli spazi del suo controllo in Cassazione. Deve, infatti, ritenersi inammissibile il ricorso per cassazione relativo a questioni, anche rilevabili d’ufficio, alle quali l’interessato abbia rinunciato in funzione dell’accordo sulla pena in appello, in quanto il potere dispositivo riconosciuto alla parte dalla disciplina sul concordato in appello non solo limita la cognizione del giudice di secondo grado, ma ha effetti preclusivi sull’intero svolgimento processuale, ivi compreso il giudizio di legittimità, analogamente a quanto avviene nella rinuncia all’impugnazione.
La necessità di garantire l’economia processuale e nel contempo le esigenze securitarie giustificano le modifiche apportate alla disciplina dal legislatore del 2017. Il rinvio va, in primo luogo, ai limiti applicativi per taluni delitti (art. 51, co. 3-bis e 3-quater, c.p.p. e artt. 600 bis, 600 ter, co.1, 2, 3 e 5, 600 quater, co. 2, 600 quater.1, relativamente alla condotta di produzione o commercio di materiale pornografico, 600 quinquies, 609 bis, 609 quater e 609 octies c.p.); inoltre non possono beneficiarne coloro che siano stati dichiarati delinquenti abituali, professionali o per tendenza. Le interdizioni si pongono a chiaro presidio del particolare rigore sanzionatorio che il sistema intende, comunque, mantenere nei confronti di determinate tipologie di reato ovvero di soggetti, arginando, in tal modo, i rischi di un effetto favorevole sulla pena irrogata in sede d’appello. L’intento indubbiamente apprezzabile, viene, tuttavia, perseguito in maniera irragionevole. Non solo viene confermato il rafforzamento del “doppio binario” tra reati comuni e reati di particolare allarme sociale6, ma le preclusioni coincidono, in larga parte, con quelle stabilite per l’accesso al cd. patteggiamento allargato: l’analogia è, alquanto, inopportuna posto che essa incrementa una uniformità tra comparti normativi sistematicamente e logicamente alquanto diversificati per struttura, sequenza e funzione7. Peraltro, pur ragionevole sul versante pratico, l’esclusione sollecita alcuni dubbi di conformità costituzionale8, posto che l’istituto è ben lungi dal rappresentare una forma di patteggiamento rispetto al quale quei dubbi sono stati già superati. In secondo luogo, la parità trattamentale, la garanzia del rispetto della legalità della pena e la tutela rafforzata dalla decisione di primo grado passa attraverso la scelta di rimettere al potere di indirizzo gerarchico del Procuratore Generale l’adozione delle linee-guida (all’esito di un confronto con i magistrati dell’ufficio e con i procuratori della Repubblica del distretto) tenuto conto della tipologia dei reati e della complessità dei provvedimenti, volte ad orientare la valutazione dei magistrati del pubblico ministero nell’udienza, ferma restando la loro autonomia in udienza9. Si dovrebbero, così, evitare gli eccessi e uniformare i comportamenti processuali dei sostituti. Ora, al di là delle diversità riscontrabili sul punto, nonostante le buone intenzioni, il nuovo criterio appare poco soddisfacente: infatti, se il Procuratore non seguisse i criteri stabiliti non è prevista alcuna responsabilità disciplinare, né sanzione processuale10. Del pari non convince la previsione di un “controllo” gerarchico, poco conforme al soddisfacimento degli interessi processuali delle parti. Una loro prima lettura delle riferite indicazioni solleva molte perplessità circa il ruolo e la portata assegnata alle nozioni legali di gravità dei reati e complessità del procedimento richiamati, ma non definiti, dal legislatore del 2017 quali criteri di “salvaguardia” del sistema. Ebbene, si è da subito evidenziato come quel potere non avrebbe dovuto comportare la creazione di ulteriori parametri di sbarramento o di parametri aggiuntivi rispetto alle preclusioni tipizzate nella nuova norma (in effetti le preclusioni sono tratteggiate all’art. 599 bis c.p.p. ma nessun dubbio circonda il fatto che esse operano anche in seno all’art. 602 bis c.p.p.); le prime linee guida assunte dalle Procure lasciano emergere l’adozione di veri e propri limiti (ulteriori), suscettibili d’integrare delle fonti secondarie integrative del precetto normativo, che, capaci d’originare interpretazioni legate alle differenti sensibilità, anche, territoriali, compromettono il rispetto della legalità e dell’equo trattamento a cui deve essere improntato il sistema processuale. Da subito troppo diversificati appaiono i parametri dirimenti delineati e fondati, ora, su veri e propri «limiti di pena minimi tendenziali» per tipologie di reato contemplate in astratto (omicidio colposo da violazione delle norme antinfortunistiche o da circolazione stradale; furto in abitazione; stupefacenti; reati contro il patrimonio); ora su valutazioni ancorate alla gravità del fatto in concreto (determinazione ai sensi dell’art. 133 c.p., valutazione dell’allarme sociale suscitato, natura degli interessi lesi e capacità a delinquere dell’interessato)11. Un tale recupero è auspicabile possa venire realizzato attraverso il ruolo non secondario svolto proprio dall’art. 1, co. 72, l. n. 103/2017 in base al quale i Presidenti delle Corti d’appello, nella relazione annuale sull’amministrazione della giustizia, elaborata ai sensi dell’art. 86 ord. giud., hanno l’obbligo di riportare anche dati e notizie sull’andamento dei giudizi d’appello definiti ai sensi dell’art. 599 bis c.p.p.: si richiede, infatti, ai Presidenti delle Corti d’appello di monitorare l’andamento dei giudizi d’appello così definiti, nonché fornire indicazioni sulla durata dei giudizi d’appello nei confronti delle sentenze di condanna. Dati e valutazioni andranno riferiti nella relazione annuale sull’amministrazione della giustizia.
La decisione “concordata” implica a mente del nuovo art. 610, co. 5-bis, c.p.p. che l’inammissibilità del ricorso per cassazione proposto nei suoi confronti venga dichiarata de plano, senza contraddittorio e senza formalità di procedura, con possibilità di successivo (eventuale) ricorso ex art. 625 bis c.p.p. Così, da un lato, sarebbe stato introdotto un regime specifico che prevede quale unico mezzo di impugnazione esperibile il ricorso straordinario ex art. 625 bis c.p.p., circoscrivendo il controllo della Corte ai soli errori materiali o di fatto che hanno investito l’accordo raggiunto dalle parti. La legge mutua quell’elaborazione giurisprudenziale particolarmente restrittiva riguardo alla ricorribilità per cassazione tanto delle sentenze di patteggiamento quanto delle sentenze di concordato in appello che, muovendo, dalla natura negoziale dell’accordo tra le parti, dalla rinuncia agli altri motivi, e dalla carenza d’interesse ad impugnare, esclude la sua piena sindacabilità in sede di legittimità. Tale soluzione non va esente da critiche nella parte in cui attribuisce al consenso delle parti una funzione surrogatoria dell’accertamento giudiziale ed una efficacia sanante dei vizi relativi agli atti posti a base della sentenza concordata in appello che mal si concilia con l’art. 111, co. 7, Cost.; peraltro, il regime dell’inammissibilità è analogo a quello previsto per la sentenza di patteggiamento per la quale, invece, la l. n. 103/2017 indica, riducendoli tassativamente, i motivi di ricorso, diversamente da quanto accade per la decisione “concordata”. È indubbio che quest’aspetto della disciplina avrebbe meritato una maggiore attenzione da parte del legislatore. Così facendo, infatti, non solo si continuano a confondere i due meccanismi, ma si palesa l’assenza di una piena consapevolezza dell’autonomia logico-sistematica e indipendenza, già indicata, del meccanismo negoziale in esame.
Il “modello legale” del “concordato in appello” introdotto dalla l. n. 103/2017 si colloca, come nel passato, tra l’accoglimento o il rigetto (art. 599 bis e 602, co. 1-bis, c.p.p.), per cui tertium non datur, in ossequio alla regola devolutiva e negoziale e all’intera dinamica deflattiva che ispira la logica negoziale. Tuttavia, se irragionevole appare l’individuazione di tipologie di reati che inibiscono l’accesso a tale peculiare meccanismo processuale, troppo ampia appare la discrezionalità conferita ai Procuratori Generali nell’individuazione dei reati ammessi o meno a beneficiare di un meccanismo del tutto in linea con i canoni della devoluzione e della negoziabilità tipici del giudizio. Meglio avrebbe fatto il legislatore a delineare dei criteri legali, fondati, ad esempio, sui limiti massimi della riduzione di pena praticabile, a piena garanzia dell’uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge. Non si può nascondere, peraltro, che «la deviazione costituita dal ricorso indiscriminato all’istituto al fine di ottenere ingiustificate riduzioni di pena», proprio perché non incidente sulla struttura che, come si è visto, non è stata toccata dalla riforma, come indica la dottrina, ben avrebbe potuto e dovuto essere corretta attraverso l’esercizio di un più penetrante potere di controllo da parte del giudice, magari imponendo alle parti di motivare l’accordo raggiunto. Se l’effettivo ruolo che s’intende perseguire è quello della speditezza processuale, non sarebbe stato vano individuare un termine massimo entro il quale avanzare la richiesta (magari prima dell’apertura del dibattimento). Tuttavia, a condurre verso una diversa valutazione del ruolo e della funzione che il “nuovo” istituto è chiamato a svolgere inducono, da un lato, la riforma che ha interessato il “filtro” di ammissione al giudizio di appello, operato attraverso un più elevato standard richiesto alla motivazione della sentenza di primo grado ed il livello di specificità dell’atto d’impugnazione e, dall’altro, l’ampliamento dei casi di rinnovazione dell’istruzione dibattimentale in appello. L’allungamento temporale e strutturale del giudizio di seconde cure parrebbe, per concludere, far sì che il concordato divenga l’unico, autonomo, modello procedimentale alternativo, capace d’assicurare la massima contrazione dei tempi processuali, rispetto al giudizio ordinario d’appello.
1 V., per tutti, Catalano, E., L’accordo sui motivi di appello, Milano, 2001.
2 Lattanzi, G., Il patteggiamento in appello: un incompreso, in Cass. pen., 1990, 367.
3 C. cost., 26.10.1990, n. 435, in Giur. cost., 1990, 2593.
4 L. 19.1.1999, n. 14.
5 Così, Guerini, I., Il ritorno alla giustizia negoziata: il “nuovo” concordato in appello, in Legisl. pen., 11.12.2107, 7.
6 Per l’osservazione Pascucci, N., Il ritorno del concordato sui motivi di appello tra esigenze processuali e timori di malfunzionamento, in Dir. pen. cont., 2017, fasc. 11.
7 Così, v., già, Suraci, L., Il concordato sui motivi d’appello, in La riforma Orlando, a cura di G. Spangher, Pisa, 2017, 250.
8 V., anche. Ferrua, P., Soggezione del giudice alla sola legge e disfunzioni del legislatore: il corto circuito della riforma Orlando, in Dir. pen. e processo, 2017, 1265; Spangher, G., La riforma Orlando della giustizia penale. Prime riflessioni, in La riforma, cit., 31; Suraci, L., Il concordato sui motivi, cit., 253 s.
9 Parla di una vera e propria funzione “nomofilattica” Guerini, I., Il ritorno, cit., p. 5, nt. 19.
10 Così anche Bargis, M., Primi rilievi sulle proposte di modifica in materia di impugnazioni nel recente d. d. l. governativo, in Dir. pen. cont. – Riv. trim., 2015, fasc. 1, 9; diversamente ritiene possibile l’applicazione della sanzione disciplinare Guerini, I., op. cit., p. 10.
11 In senso favorevole. v., invece, Lavarini, B., La riedizione del concordato sui motivi d’appello fra vecchie e nuove ambiguità, in AA.VV., La riforma delle impugnazioni tra carenze sistematiche e incertezze applicative, Torino, 2018.