COLAGOGHI (dal gr. χολή "bile" e ἄγω "conduco")
Col termine di colagoghi si definivano, sino a non molto tempo fa, tutti i medicamenti capaci d'aumentare l'evacuazione della bile. Le esperienze farmacologiche fatte su animali portatori di fistole biliari permanenti hanno dimostrato che i farmaci considerati come colagoghi (il rabarbaro per esempio) non aumentano o aumentano di ben poco la secrezione della bile. Le recenti nozioni di fisiopatologia epatica e le applicazioni sperimentali cliniche del sondaggio duodenale hanno condotto alla conclusione che i veri colagoghi nel senso antico ed etimologico della parola, i farmaci suscettibili, cioè, d'agire in modo se non esclusivo almeno preponderante sull'evacuazione biliare, sono pochissimi. La nuova dottrina dei coleretici o eccitatori della secrezione biliare (Brughs e Horsters), il fatto che molti dei vecchi colagoghi agiscono piuttosto come stimolatori della cellula epatica, ne hanno ridotto di molto il numero. Sul meccanismo d'azione dei colagoghi si discute tuttora. Essi agirebbero in virtù d'un riflesso a sede probabilmente duodenale per cui, collo spasmo delle pareti vescicolari, si apre lo sfintere del coledoco e la bile fluisce in maggior copia. La loro azione sarebbe puramente meccanica. Tra i colagoghi veri vanno tuttora compresi la bile e i sali biliari, l'olio d'ulivo e soprattutto il solfato di magnesio al 25-33%, iniettato nel duodeno attraverso la sonda di Einhorn, nella dose di 20-30 cmc. Il peptone (5-10%) agisce analogamente al solfato di magnesio. Anche l'estratto del lobo posteriore d'ipofisi (pituitrina) introdotto sottocute (i cmc.) fa contrarre la cistifellea (Pituitrin-reflex), agendo come colagogo.
In terapia i colagoghi devono essere riservati ai casi di stasi biliari con lesioni epatiche lievi e recenti, quando nessun ostacolo meccanico preclude il libero flusso della bile; vanno usati nell'epatismo, nella stipsi abituale, nell'enterite mucomembranosa, nella atonia della cistifellea.