DAMIANO (D. di Priocca), Clemente
Nacque il 23 nov. 1749 a Torino, dodicesimo figlio di Giuseppe Maria Damiano Del Carretto, XI conte di Priocca, signore di Castellinaldo e Piobesi, marchese di Saliceto, collare dell'Ordine Supremo, e di Costanza Eleonora Gennara Ferrero Fieschi di Masserano. La famiglia Damiano (o Damiani: cfr. Manno, Patr. subalp., sub voce) era una delle prime di Asti, e anche la madre del D. discendeva da un casato illustre in Piemonte e in Spagna.
Il D. rivelò sin dall'infanzia un temperamento franco, gentile e posato e una precoce disposizione agli studi umanistici; compì ampi studi letterari e si diede alla lettura degli antichi: Tucidide, Senofonte, Plutarco, ecc. Anche quando si fu orientato verso gli studi di giurisprudenza, che erano allora, i più adatti a favorire la carriera a corte di un giovane aristocratico, non trascurò i suoi interessi letterari: fu in intimità con P. Balbo, F. San Martino, G. F. Galeani Napione, G. Vernazza, G. Franchi Di Pont, I. Durandi, T. Caluso di Valperga, B. di San Raffaele, F. R. Orsini di Orbassano, A. Tana, autore della tragedia Coriolano, V. Alfieri, che aveva già pubblicato alcune poesie, e col quale il D. lesse Dante e Petrarca. Laureatosi m giurisprudenza a Torino nel 1771, fu eletto dai condiscepoli rettore degli studenti dell'università, carica simbolica, ma pur significativa, che conferiva tra l'altro il compito di dare inizio all'anno accademico pronunciando una prolusione rivolta al sovrano.
Divenuto noto per la sua dottrina nella legislazione civile e soprattutto nel diritto ecclesiastico, oltre che per la sua posizione ideologica di deciso sostenitore delle prerogative della sovranità, in accordo con Pindirizzo giurisdizionalistico ormai tradizionale della monarchia di Savoia, nel 1774 fu aggregato al Collegio dei giureconsulti e nominato (5 luglio) referendario del re nel Consiglio dei memoriali. Il 10 nov. 1778 fu nominato membro del Senato di Piemonte (i Senati negli Stati di terraferma, istituiti ad imitazione degli antichi Parlamenti di Francia, costituivano la suprema magistratura giudiziaria, riunivano in sé l'autorità dei tribunali di ultima cognizione e avevano competenza anche su alcuni aspetti del governo civile). Del primo presidente di questa istituzione, C. Peyretti da Saluzzo, il D. divenne presto amico, essendo nata fra i due una reciproca, profonda stima. Il 24 dicembre dello stesso anno il D. ricevette la nomina a giudice straordinario del Consolato. L'anno seguente fu nominato giudice aggiunto nella delegazione sopra l'Ospizio di carità (30 novembre) e giudice ordinario del Consolato (10 dicembre). Fu inoltre insignito della gran croce dell'Ordine dei SS. Maurizio e Lazzaro. L'11 sett. 1786 venne scelto per l'incarico, particolarmente delicato, di ministro plenipotenziarlo pre sso la corte pontificia. Il D. dovette essere considerato all'altezza di un tale incarico sia a causa della sua profonda competenza nel diritto ec clesiastico, sia per la sua indole prudente e riflessiva, modesta, ma capace di notevole fermezza.
I rapporti fra la corte di Torino e quella romana erano, tradizionalmente, minati da numerosi e complessi problemi. Il Piemonte, cattolico e deciso a rimanerlo, ma t anto meno potente dei grandi Stati cattolici, come la Francia, la Spagna e l'Impero, non poteva, come questi, ritenersi al sicuro da un'ingerenza della Chiesa, sempre tesa ad insinuarsi dovunque potesse attestarsi in posizioni di potere; né voleva, per non tradire la propria vocazione a una partecipazione più attiva alla vita politica, o le proprie esigenze interne di rinnovamento, ridursi, nei confronti dell'ingerenza romana, a un atteggiamento prevalentemente passivo, dal quale, nel corso dei Settecento, tutti gli Stati, in diversa misura, si erano venuti affrancando; né infine avrebbe abbracciato la via di una aperta e costante ostilità, come Venezia. Il mantenere un equilibrio fra queste opposte posizioni, il rimanere cattolica e amica del papa e al contempo conservare una sostanziale indipendenza costava alla corte di Torino uno sforzo diplomatico costante e arduo; e per questo essa scelse, nel XVIII secolo, come suoi ministri a Roma, uomini particolarmente abili e capaci, come il marchese d'Ormea, autore del difficile concordato del 1727, il conte di Rivera, il Valperga di Maglione, il Graneri.
Le istruzioni che il D. ricevette dal re insistevano nel raccomandare una "vigilante attenzione all'esatta osservanza di quanto... si trova convenuto e stabilito... un occhio pronto agli abusi assai facili e frequenti nella Curia romana intenta sempre a tutto ciò che accrescer possa la sua podestà, ed ampliare i suoi diritti, la sua autorità, i suoi vantaggi", e definivano la Curia romana "facile così a piegarsi ad un tuono, autorevole come ad irrigidirsi dove.trova dolcezza". In particolare il D. avrebbe dovuto tenere informata la corte di Torino "intorno agli affari Ecclesiastici, che... in oggi occupano l'attenzione del Mondo Cattolico, massime riguardo alle Corti di Vienna, di Toscana, di Napoli, di cui sono... note le tante novità... che sembrano mirare... ad una generale riforma di disciplina in quei Stati con scapito immenso d'autorità e di lucro alla Curia Romana...": informazioni preziose perché "con Roma... giovano ben sovente... gli esempi soli che possano allegarsi di cosa già da essa praticata".
La lunga durata del suo mandato induce a ritenere che il D. svolgesse soddisfacentemente il difficile compito, e diverse testimonianze concordano nell'affermare che egli seppe altresì conquistarsi la stima e l'affetto del papa Pio VI. A Roma ebbe agio di occuparsi intensamente di arte e di Jetteratura. Frequentò G. B. ed E. Q. Visconti, C. Fea, G. G. De Rossi, l'ambasciatore di Spagna cavalier don José Nicolas de Azara e inoltre R. Cunich, B. Stay, G. Pikler. Si dedicò sovente ad aiutare con la propria influenza e il proprio denaro gli studenti piemontesi di belle arti a Roma.
Con lo scoppio delle ostilità tra la Francia rivoluzionaria e il Regno di Sardegna, le mansioni del D., fino allora limitate, oltre che ad osservare l'attività palese e segreta della corte pontificia per riferirne al suo governo, per lo più al disbrigo di affari concernenti i benefici ecclesiastici vacanti, le dispense per matrimoni, eventuali informazioni o raccomandazioni, mutarono per il sorgere di un nuovo grave ed urgente problema. La guerra che la Francia combatteva contro il Piemonte minacciava in realtà tutti gli Stati italiani, ma solo il Piemonte ne sopportava il peso, di vite umane e di ricchezze, e la diplomazia torinese si adoprava ad ottenere un aiuto militare e finanziario dagli Stati della penisola. L'aiuto militare avrebbe dovuto concretizzarsi, nei progetti diplomatici perseguiti dal re sabaudo, in un primo tempo in un accordo con l'Austria mirante ad ottenere da questa l'invio di truppe; il che fu realizzato solo anni più tardi e con obiettivi militari interessanti la politica austriaca, e non la salvezza del Piemonte. Anche un secondo piano sabaudo, volto alla costituzione di una lega degli Stati italiani contro l'offensiva francese, fu ostacolato dall'Austria, che temendo un evolversi successivo della situazione italiana in senso ostile al suo predominio nella penisola, tentò di strumentalizzare il progetto di lega subordinandolo al proprio controllo e facendone uno strumento della propria politica. Questi ostacoli, facendo ricadere tutto il peso della guerra sulle sole forze piemontesi, rendevano più urgente il bisogno di denaro, giacché le finanze sabaude e ben presto l'intera economia piemontese versavano in condizioni sempre più critiche - i quattro anni di guerra avrebbero difatti portato il paese al collasso - e per queste ragioni il D. fu incaricato di ottenere con urgenza un aiuto finanziario dalla S. Sede.
Il nutrito carteggio fra il D. e il ministro sabaudo degli Esteri, conte Giuseppe Perret de Hauteville, fra il 1792 e il 1796, edito da F. Olmo in La Rivoluzione francese nelle relazioni di un ministro piemontese a Roma, Milano-Roma-Napoli 1915, è ricco di notizie e di osservazioni interessanti su questo argomento. Ne appare un quadro complesso di uno Stato e una corte fatiscenti, dove il popolo conservava un "fondo di Religione... in mezzo ai vizi e alla ferocia"; dove i ministri dei grandi Stati cattolici imponevano a una Curia debole e internamente divisa il volere dei propri sovrani, come l'Azara, "attentissimo in adoperare li abbondanti mezzi che gli procura la propria Corte, di tenere questo Ministero nella massima dipendenza del Gabinetto di Spagna"; dove il papa, "avido di gloria... irregolarissimo e ineguale…, così pronto ad impegnarsi come facile a ritirarsi dall'impegno...", era circondato da cardinali come il Bernis, magnifico e potente, che amava "sostenere il tuono d'un Ministro superiore a tutti li altri...", lo Zelada, vecchio e ammalato, non assuefatto alla politica, il Carafa che, "sprovveduto di cognizioni vuol comparir dotto, niente edificante nella sua condotta vuol comparir... Zelante", che era ostile alla corte di Torino e ne era ricambiato, e il "cui fanatico zelo gli fece dire più volte che la nostra Corte [di Torino] è la più fiera nemica dei diritti della S. Sede". In tale quadro, il re di Sardegna si affannò invano, per il tramite del suo ministro: per quanto insistentemente tornasse all'attacco, invocando le "stesse bolle di Sisto V" per convincere "S. Santità" ch'essa era "autorizzata... a soccorrere S. M. coi denari medesimi di Castel S. Angelo", e ripetendo che il soccorso richiesto era, infine, per lo stesso Stato della Chiesa, giacché, "forzata la porta d'Italia", nulla avrebbe trattenuto ormai i Francesi dal giungere in ogni angolo della penisola, e sebbene lo stesso Zelada prima e vari altri cardinali poi avessero dovuto riconoscere la giustezza delle richieste piemontesi, non fu possibile distogliere il papa dal suo timore di attirare le ire francesi mostrandosi deliberato a una politica più energica.
Aggrappandosi tenacemente alla speranza che le armi dell'Austria e degli alleati sarebbero state sufficienti a dissipare la minaccia francese e adducendo a motivo la scarsità di mezzi finanziari, papa Pio VI rimandò continuamente la risposta e il soccorso richiesto non fu mai accordato. Il D. vedeva così dolorosamente confermato il proprio giudizio, secondo cui "non vi è da sperare soccorso da questa Corte" (lett. 6 ott. 1792); avrebbe ribadito, due anni dopo: "io non posso sperare... sia mai questa Corte per dare aiuto a' Principi guerreggianti, essendo fissa nel principio, che a lei tocca l'essere difesa dagli altri senza suo concorso" (lett. 11 genn. 1794).
Amaro giudizio sugli egoismi e le meschinità del centro del Cattolicesimo dato da un cattolico fervente, che diventava constatazione sconsolata quando il D., suddito sinceramente fedele al suo re, doveva constatare quanta sotterranea ostilità separasse questi due poli della sua devozione: "Bisogna assicurarsi che le idee, le massime, i principi di Roma ci saranno sempre contrari" (lett. 18 genn. 1792). Constatazione che doveva essere pervasa da una impazienza impotente, se si riflette che, mentre il papa dava prova di non aver visto ancora chiaro nel carattere radicale e'indomabile della Rivoluzione, tanto da considerarla ancora una sorta di sinistra follia, che sarebbe stata ben presto rintuzzata dalla severità delle forze coalizzate, oppure si sarebbe e punita ed estinta da sé, per la stessa forsennata violenza dei propri contrasti intemi, il D. aveva penetrato ben più profondamente la portata dell'evento, la sua volontà inflessibile e la sua forza . Se certo non l'approvava - cosa che la sua coscienza, fedele alle concezioni politiche e religiose tradizionali, non gli avrebbe mai concesso - tuttavia poteva affermare: "Ragionando... sui dati umani e coi principi dei nostri vecchi, a ma pare non potersi prevedere altro che una totale sovversione di tutto il mondo" (lett. 22 marzo 1794), e "[i Francesi] ... non possono riuscir nel loro intento se non giungono a sconvolgere o in un modo o nell'altro il mondo-tutto" (lett. 15 nov. 1794); e ancora: "Lungi dall'estinguersi il fermento dello spirito rivoltoso sparso da' Francesi per tutto il mondo, se ne vanno scoprendo i tristi effetti in ogni parte" (lett. 17 maggio 1794).
Dopo l'armistizio di Cherasco (28 apr. 1796) e il trattato di Parigi - (15 maggio dello stesso anno), il D. fu richiamato a Torino e incaricato di sostituire il De Hauteville al ministero degli Esteri (7 giugno). In un primo momento rifiutò la nomina, adducendo a propria giustificazione la consapevolezza di essere impari al compito; sollecitato dal re, accettò poi, chiamando presso di sé, quale segretario, Carlo Boucheron, che alla morte del D. ne avrebbe rievocato la vita, con toni commossi, in una lettera a Prospero Balbo, che in quegli stessi giorni in cui il D. assumeva il dicastero degli Esteri riceveva la nomina ad ambasciatore sardo a Parigi. L'anno seguente (21 gennaio) passò a reggere la segreteria degli Affari Interni. I problemi con i quali dovette misurarsi in questo periodo furono di estrema difficoltà: la Francia stava tentando di forzare la situazione relativa ai rapporti con il Piemonte allo scopo di fare di questo, di diritto o di fatto, una propria dipendenza. Il D. dovette così trattare, con il Direttorio, un'alleanza alla quale Carlo Emanuele IV non era riuscito a sottrarsi; e in seguito, quando la Francia si adoprava a fomentare disordini nel territorio, sobillando i facinorosi, come si esprime il Boucheron, o, secondo un'interpretazione storiografica più matura, appoggiandosi alla quinta colonna costituita dai simpatizzanti piemontesi della Rivoluzione, onde indurre il re a prendere provvedimenti che diventassero motivo di lagnanze e fornissero alle autorità francesi l'occasione per intervenire, il D. riuscì solo per breve tempo a prevenire e a far fallire questi tentativi, come negli episodi di Novara e di Asti. Un successivo episodio ebbe il successo sperato dai Francesi: il castello di Carosio, posto sulla frontiera con la Repubblica di Genova, che era divenuto il principale rifugio dei gruppi protetti e utilizzati dai Francesi, non si poteva raggiungere che con l'assenso di Genova. Quando il re di Sardegna, per distruggere questo nido di disordini, assalì il castello, Genova si appellò ai Francesi, i quali ne trassero occasione per esigere da Carlo Emanuele IV la consegna, a garanzia di pace, della cittadella di Torino; grave scacco militare e diplomatico di cui fu accusato, anche con pesanti calunnie, il D., il quale tuttavia le sopportò con equanimità e pazienza. Doti di sopportazione ancorá maggiore, e di fedeltà, il D. rivelò poco appresso, quando non sconfessò il re che, sia pure costretto, aveva sconfessato lui. Il 5 dic. 1798 il generale Joubert intimò al re di abdicare e il D., nella sua qualità di ministro degli Interni, emanò un documento (7 dicembre) nel quale, oltre a incoraggiare il popolo in questa incerta congiuntura, giustificava, al cospetto dell'Europa, la condotta del sovrano: questi non aveva mancato alla propria parola e cadeva vittima di un tradimento. Di fronte a questa iniziativa il re, sia perché sollecitato dai Francesi, desiderosi di ottenere da lui una presa di posizione che contribuisse a coonestare il loro colpo di Stato, sia per evitare al paese maggiori difficoltà favorendo un tassaggio di poteri il più possibile senza scosse, si indusse a sconfessare l'operato del D. e a "disapprovare la pubblicazione della proclamazione sparsasi dal suo ministro, ed ordinare al Cavaliere Damiano di rendersi alla Cittadella come garante della sua fede, e della sua ferma intenzione che alcun ricorso di qualunque natura non avrebbe potuto essere portato contro quell'aitto di rinunzia" (art. 3 dell'atto 9 dic. 1798). Il D. obbedì e, fatto testamento, si consegnò alla cittadella, dove fu trattenuto per due mesi, che impiegò scrivendo un commentario sulla morte.
Durante la sua detenzione accadde un episodio oscuro nelle circostanze, ma significativo per intendere da'quali sentimenti fosse circondato. Un ignoto lo minacciò di morte se non avesse accettato di rinnegare le proprie idee: il D. rispose che, non essendo colpevole di nulla, nulla avrebbe dovuto sconfessare.
Dopo due mesi di prigionia ricevette l'ordine di recarsi a Grenoble in domicilio coatto; ottenne poi di stabilirsi a Digigne; infine gli fu consentito di andare in Spagna, con Filippo Asinari di San Marzano e la madre di questo. Dimorò alcuni mesi a Barcellona, dove incontrò P. Balbo; infine, in compagnia di quest'ultimo, si diresse verso la Toscana dove, a Livorno, incontrò il re esiliato e rifiutò un assegnamento che questi gli voleva riconoscere. Quando la battaglia di Marengo fece crollare le speranze di un sollecito ritorno del sovrano a Torino, il re partì per la Sardegna e il D. si stabilì a Pisa, dove visse sino al 1810 conducendo una vita molto ritirata, fatta di studi, preghiere e passeggiate, e della compagnia di pochi amici. Negli anni di Pisa scrisse anonimamente alcune opere: Le Tusculane di Cicerone, tradotte in lingua italiana con alcuni opuscoli del traduttore, che è una prefazione alla traduzione fatta dal Galeani Napione (Firenze 1805); Giunte, documenti, lettere su Cristoforo Colombo, un'aggiunta, all'opera del Napione Dissertazione della patria di Colombo (ibid. 1808), in cui si discuteva su una supposta origine piemontese del navigatore.
Il 10 apr. 1810 morì a Torino l'ultimo fratello superstite del D., il primogenito Carlo Vittorio, marchese di Saliceto, lasciandolo erede universale. Il D. tornò allora a stabilirsi a Torino, dove scrisse ancora Preparazione alla morte ed altre preghiere devote compilate da un illustre personaggio, tradotte dalla lingua latina nella italiana (Torino 1813); il traduttore era il Galeani Napione che fu, con I. Durandi, Franchi "da Centallo, G. Vernazza, T. Caluso di Valperga, fra gli amici che il D. ebbe accanto negli ultimi anni della sua vita. Morì a Torino il 5 febbr. 1813.
Fonti e Bibl.: Torino, Bibl. naz., A. Manno, Patriziato subalpino (datt.), VIII, pp. 21-24; [G. Galli della Loggia], Cariche del Piemonte, III,Torino 1798, p. 12; C. Boucheron, De C. Damiano Priocca, Torino 1815; C. Botta, St. d'Italia dal 1789 al 1814, Italia 1834, XV, pp. 301 s., 306-11, 313, 317 s., 339; T. Sclopis, in E. De Tipaldo, Biogr. d. Ital. ill., II, Venezia 1835, pp. 39-43; C. Boucheron, Opere volgarizzate dal dott. T. Vallauri, I, Vita del cavaliere C. D. Priocca, Torino 1837; C. Dionisotti, Storia della Magistratura del Piemonte, Torino 1881, I, pp. 381 s.; II, pp. 349 s.; D. Carutti, Storia della corte di Savoia durante la Rivoluzione e l'Impero, Torino 1892, I, pp. 350, 375, 393, 456, 487, 493; II, p. 391; F. Olmo, La rivoluzione francese nelle relazioni di un ministro piemontese a Roma, Milano-Roma-Napoli 1915; C. Calcaterra, V. Alfieri nell'Italia nuova, Asti 1939, pp. 19 s.; Id., I Filopatridi, Torino 1941, pp. 495-512; Nuovo Digesto italiano, IV, p. 523.