classi e ceti sociali
Gruppi omogenei per condizione economica o stile di vita
Sino al 18° secolo il termine classe veniva usato soltanto nelle scienze naturali, al fine di indicare i principali gruppi di animali o piante; per indicare i gruppi sociali, invece, si utilizzavano termini come ‘ceto’ o ‘stato’, che riflettevano una concezione gerarchica della società. Con la conquista dell’eguaglianza civile e l’avvento della società industriale, nel 19° secolo, il termine classe passò a indicare, su basi esclusivamente economiche, i principali gruppi sociali (borghesia e proletariato). Nel corso del 20° secolo la società è divenuta molto più complessa e si è tornati a parlare di ceti, definiti sulla base della professione, del prestigio sociale, dell’istruzione e dello stile di vita
Tutte le società umane sono caratterizzate da un grado più o meno ampio di disuguaglianza: al loro interno si formano sempre gruppi sociali che differiscono per funzioni, potere, ricchezza, prestigio e così via. Se la disuguaglianza è sempre esistita – anche nelle società che si proclamavano ugualitarie – vi è tuttavia un’enorme differenza tra le società in cui essa è fissata una volta per tutte dalla tradizione e dalla legge e le società in cui dipende dalle capacità e dall’impegno individuali. Le prime, tipiche dell’età premoderna, sono società statiche, dove in un certo senso conta soltanto il passato: l’appartenenza a un gruppo sociale, infatti, dipende quasi sempre dalla nascita ed è impossibile o molto difficile, per un individuo, passare da un gruppo sociale all’altro nel corso della vita. Le seconde, sviluppatesi in Occidente a partire dal 18° secolo, sono invece società dinamiche: l’appartenenza a un gruppo sociale è senz’altro condizionata dal passato (le condizioni di partenza della famiglia cui si appartiene), ma l’eguaglianza civile e giuridica permette a ogni individuo di progettare e realizzare, sia pure con sforzo, un futuro diverso. Grazie alle proprie capacità e al proprio impegno nello studio e nel lavoro, ogni individuo ha la possibilità di passare da un gruppo sociale all’altro, migliorando la propria condizione.
Un tipico esempio di società fondata sui ceti è quella che si sviluppò in Europa a partire dall’8° secolo fino al 18°, ossia dalle origini del Feudalesimo alla Rivoluzione francese (antico regime). Essa rifletteva una concezione particolare dell’ordine sociale, detta organicistica, in virtù della quale i ruoli sociali – come le funzioni di un organismo – erano assegnati una volta per tutte. La distinzione iniziale fu tra oratores, bellatores e laboratores – ossia tra coloro che pregano (clero), coloro che combattono (nobili) e coloro che lavorano (contadini).
La struttura sociale col tempo si complicò – soprattutto nel ceto dei lavoratori, dove si sviluppò la borghesia – ma il modello rimase sostanzialmente intatto sino alla Rivoluzione francese. I nobili erano tali per nascita e trasmettevano titolo e prerogative ai loro eredi; facevano la carriera militare o quella di magistrati, non pagavano le tasse e avevano una giustizia a parte. I borghesi svolgevano, insieme ai contadini, tutti i lavori produttivi e nei casi più fortunati, invero molto rari, potevano comprare un titolo nobiliare, che la monarchia vendeva per fare cassa (ma i nobili di recente nomina erano guardati con disprezzo dai nobili di vecchia data). I contadini, in genere, restavano tali per tutta la vita e in rarissimi casi potevano ‘imborghesirsi’. Soltanto al clero non si accedeva per nascita, ma le cariche più importanti erano riservate ai nobili.
L’appartenenza a un ceto o stato comportava il godimento di certi diritti e l’esclusione da altri, l’ammissione a certe carriere o l’esclusione da esse. Vigeva una disuguaglianza di principio, ossia una gerarchia fissata una volta per tutte, che consentiva soltanto limitate eccezioni. Conformemente a tale organizzazione, le forme di rappresentanza – cioè i Parlamenti – erano assemblee cetuali, in cui erano rappresentati non gli individui e le loro idee politiche, ma i ceti e i loro interessi sociali (e infatti si votava non ‘per testa’, ma ‘per ceto’).
Con la Rivoluzione francese la società di ceti (definita ‘antico regime’) fu abbattuta e venne affermato il principio dell’eguaglianza civile e giuridica. Ceti e corporazioni furono aboliti; venivano riconosciuti soltanto gli individui, portatori degli stessi diritti e doveri, uguali tra loro e di fronte allo Stato. Le carriere erano aperte a tutti, sulla base non della nascita ma del merito. Prendeva così forma la società degli individui, dove in linea di principio ognuno poteva arrivare sin dove lo avrebbero portato le sue capacità e il suo impegno.
La conquista dell’eguaglianza civile e giuridica è il presupposto della nascita delle classi: se gli individui sono uguali per principio, le differenze che sorgono tra di essi non saranno più legate alla nascita o al godimento di alcuni privilegi, ma deriveranno dalla posizione economica e dal ruolo che essi occupano nel processo produttivo.
I primi a usare il termine classe in un significato socioeconomico furono alcuni economisti del Settecento, come François Quesnay e Antonio Genovesi: volendo costruire una scienza economica sul modello delle scienze naturali, essi ripresero da queste ultime il concetto di classe e lo applicarono ai gruppi sociali, differenziandoli in base al loro ruolo produttivo. Ma la fortuna del termine classe è senz’altro legata all’avvento della società industriale e all’analisi critica che ne fece Karl Marx. Il filosofo tedesco riteneva, infatti, che tale società fosse il teatro di un gigantesco conflitto economico tra due classi sociali: coloro che possedevano i mezzi di produzione (borghesia capitalistica) e coloro che, essendone sprovvisti, dovevano vendere la propria forza-lavoro in cambio di un salario (proletariato industriale). L’appartenenza a una classe, secondo Marx, era la vera matrice del desti no umano: infatti essa determinava non solo le condizioni economiche ma anche i rapporti sociali, le istituzioni politiche, le idee e la mentalità.
Spazzando via i residui della società divisa in ceti e corporazioni, la rivoluzione industriale dell’Ottocento fece sorgere un diverso modo di produzione, incarnato dalla fabbrica, e un nuovo e vasto gruppo sociale, quello degli operai. Costoro lavoravano nello stesso luogo, vestivano nel medesimo modo (la tuta blu), vivevano negli stessi quartieri e condividevano le stesse misere condizioni di vita: tutto contribuiva a farne, in virtù della loro condizione sociale ed economica, una classe e a renderli consapevoli di ciò. I contadini, osservò Marx, non costituivano una classe perché la dispersione sul territorio impediva loro di avere una ‘coscienza di classe’: a differenza degli operai, quindi, non erano un soggetto rivoluzionario.
La società industriale dell’Ottocento era dunque caratterizzata da una netta polarizzazione tra proprietari e proletari; ma nel corso del Novecento tale situazione – invece di accentuarsi e condurre alla rivoluzione, secondo le previsioni di Marx – si attenuò, anche grazie alle conquiste sociali ottenute dai sindacati e dai partiti socialisti. La maggiore distribuzione della ricchezza portò così alla formazione di una estesa classe media, composta da molti ‘strati’, che si differenziano tra loro per fattori come il prestigio professionale, il tipo di istruzione, i modelli di consumo, in una parola lo stile di vita. Si è così tornati a parlare di ceti, cioè di gruppi sociali uniti non tanto dalla condizione economica (che può essere molto disuguale), ma da fattori di tipo sociale, professionale e psicologico che danno loro un forte sentimento di comunanza: il ceto burocratico e quello imprenditoriale, il ceto insegnante e quello accademico, il ceto politico e quello dell’informazione, il ceto dei lavoratori dipendenti e quello dei liberi professionisti, il ceto mercantile e quello dello spettacolo, il ceto dei piccoli imprenditori e quello dei grandi manager e così via.