Bizantina, Civiltà
Il primo problema che ci dobbiamo porre è se D. ebbe una conoscenza concreta e precisa della cultura greco-bizantina. La risposta è in gran parte negativa: D. non sa nulla dell'inno mariale bizantino, che pur ebbe diffusione in Occidente; nulla della evangelizzazione degli Slavi e della questione del trilinguismo liturgico; nulla di s. Isidoro di Chio, di s. Teodoro e nemmeno del s. Marco veneziano onorato con uno splendido tempio; nulla di un patriarcato aquileiese o gradense, nulla di uno scisma tra Chiesa greca e Chiesa latina, nulla dei rapporti tra Venezia o le regioni dell'Italia meridionale e Costantinopoli. Ciò che può forse stupire ancor più è che egli taccia completamente di un Impero latino orientale che durò dal 1204 al 1261, cioè fino a qualche anno prima della sua nascita.
Ma nell'utopia politica imperiale di D., costruita ‛ a priori ' su un impianto teologico-metafisico e su una giustificazione cristiana dell'Impero romano, concepito come ‛ unico ' nella sua genesi e nel suo sviluppo, non c'era né ci poteva più essere posto per un ‛ altro ' Impero al di fuori di quello romano germanico. Si ricordi l'argomentazione della Monarchia a proposito della ‛ donatio ' di Costantino: poiché l'Impero consiste in unitate monarchiae universalis, Costantino non poteva far donazione dell'Impero al papa se non contravvenendo al suo specifico ufficio di conservatore dell'Impero: Patet igitur quod nec Ecclesia recipere per modum possessionis, nec ille conferre per modum alienationis poterai (III X 15). Né paia in contraddizione l'esaltazione di Giustiniano fatta da D. nel VI canto del Paradiso: per D. Giustiniano rappresentava ancora l'Impero legittimo trasmigrato contr'al corso del ciel e trattenuto (si ritenne) ne lo stremo d'Europa, cioè a Bisanzio, e rappresentava un ideale di principe e legislatore cristiano, oltre che l'unico grande imperatore che avesse tentato di riunire Oriente e Occidente attraverso la riconquista dell'Italia, dell'Africa e della Spagna. Ma la legittimità di questo Impero sarebbe decaduta, secondo D. - che seguiva la teoria ben nota della Translatio imperii, propugnata già da Ottone di Frisinga e seguita da tutti i controversisti e i giuristi del suo tempo -, al momento in cui Carlo Magno soccorse la Chiesa nel 773, quando il dente longobardo la morse. A parte l'errore storico e cronologico sia nella Monarchia (III XI 1), sia nella Commedia (Pd VI 94-96), per cui è anticipata l'incoronazione di Carlo Magno di ben 27 anni, la coerenza del suo pensiero politico è ineccepibile. E altrettanto ineccepibile quindi la glorificazione di Arrigo VII (Pd XX 133-138).
L'Impero era da Carlo Magno in poi unicamente ed esclusivamente ‛ latino ', e non c'era quindi posto per qualsiasi altro Impero, fosse esso bizantino o latino-orientale. " L'ignoranza di Dante - ha osservato giustamente il Nardi a proposito della tragedia di Ulisse nell'Inferno - su questo come su altri punti, non sorprende chi conosca le non poche lacune della cultura del poeta fiorentino, il quale mostra d'avere assai più meditato e osservato di quel che non abbia letto ". Ciò malgrado, un'eco, sia pur vaga, della conquista franco-veneta dell'Impero bizantino e della sua spartizione, è certo da vedere in quella non comune dizione 'l duca d'Atene applicata a Teseo (If XII 17). Si ricordi che, un po' dopo, anche il Boccaccio dipingerà l'eroe nel suo Teseida come " duca d'Atene ". E così è detto certo a somiglianza dei signori De la Roche che, dopo la conquista di Costantinopoli, regnarono su Atene come ‛ duchi '. Altro ricordo di uno degli ultimi lembi dell'Impero latino d'Oriente è nell'invettiva contro la casa d'Angiò, quando il poeta allude al grido di dolore degli abitanti dell'isola di Cipro, passata dal 1285 sotto la signoria di Arrigo II di Lusignano, d'origine francese (Pd XIX 145-148), principe, a quanto dice D., dissoluto e crudele.
In sostanza D. conosce ben poche cose dell'Impero e della Chiesa di Bisanzio: è già una fortuna se si incontrano i nomi di due santi greci, come Macario (Pd XXII 49), discepolo di s. Antonio - forse l'Alessandrino, morto nel 404 - e Nicola di Mira (Pg XX 32), da tempo già penetrati nella tradizione occidentale. Dei padri greci, come è noto, non sono ricordati che Giovanni Crisostomo (Pd XII 136-137) e Dionigi pseudo-Areopagita (X 115-117 e XXVIII 130-132), il primo da s. Bonaventura, l'altro da s. Tommaso e poi da Beatrice, ma anch'essi già da tempo penetrati in Occidente. Ci saremmo aspettati i nomi anche di altri padri greci come Basilio, Atanasio, Gregorio di Nazianzo, ecc., giunti molto presto in Occidente.
Il poeta non conobbe nemmeno, malgrado la supposizione di qualche dantista, la leggenda bizantina di Belisario, prima di tutto perché i versi del poema là dove si tocca del generale di Giustiniano non danno adito a fare tale supposizione, e in secondo luogo perché la leggenda, diffusasi a Bisanzio un po' prima del sec. XII, non ebbe diffusione in Italia e in Occidente prima dell'inizio del '500.
Bisanzio e la sua civiltà non hanno lasciato grandi tracce in D.: basti pensare ai vari ricordi di Ravenna (If V 97 e XXVII 40, Pd VI 61): nulla c'è che ci possa far pensare che D. sia rimasto particolarmente colpito dai suoi monumenti bizantini o dagli splendidi mosaici delle sue chiese giustinianee, ivi compresi quelli di San Vitale, in cui aveva visto rappresentati Giustiniano e Teodora (per un eventuale legame o almeno per una consonanza di gusto tra la descrizione della processione di Pg XXIX, in particolare per il gruppo dei seniori, e i mosaici bizantini di S. Apollinare Nuovo, cfr. U. Bosco, D. vicino, pp. 289 ss.). E questo è forse il silenzio più strano che si possa registrare del sommo poeta, che pure fu nella città, e a lungo. A meno che il silenzio di D. non sia intenzionale e non voglia suonare riprovazione della ‛ maniera greca ', quella maniera che seguiva ancora Cimabue, ma che Giotto aveva già superato, sì che la fama di colui è scura (Pg XI 94-96).
A proposito di fonti, un problema interessante è stato sollevato da C.A. Trypanis: se la tesi sostenuta da questo studioso fosse accettabile, dovremmo ammettere che D. avrebbe utilizzato per l'ordinamento morale delle colpe dell'Inferno un trattatello bizantino che passa sotto il titolo: De Virtutibus et passionibus o De Virtute et vitio, attribuito ora a s. Efrem siro, ora a s. Giovanni Damasceno. In ogni caso esso è anteriore al sec. XII, epoca del manoscritto più antico che ce lo ha tramandato. Anche ammesso, per un momento, che D. possa averlo conosciuto, bisogna pensare che l'abbia letto in una versione latina medievale, compiuta tra il sec. XII e il XIII. Ma in proposito non si ha alcuna notizia. Di s. Efrem l'Occidente non conobbe, prima del sec. XIII, che un corpus di sei prediche, tra le quali non figura il nostro trattatello, tradotte un po' prima del sec. IX; di s. Giovanni Damasceno soltanto un paio di prediche mariali, tradotte anch'esse prima del sec. X, oltre che la ben nota leggenda di Barlaam e Iosafat.
Il trattatello è una compilazione da fonti diverse e può esser diviso in tre parti che sembrano giustapposte l'una all'altra. La prima, basata sulla distinzione aristotelica tra anima e corpo, tra facoltà e sensi, enumera aridamente 46 ‛ vizi ' dell'anima e 33 ‛ vizi ' del corpo, preceduti da altrettante virtù. La seconda, che si ispira ai trattati di ascetica monastica - da Nilo a Massimo confessore - i quali ponevano come radici dei vizi dell'anima l'intemperanza, l'ambizione e l'avarizia, cerca un accordo con la parte precedente in cui i 46 vizi dell'anima erano stati ridotti nella loro radice a tre: all'oblio (colpevole), all'ignavia e all'ignoranza, e ricataloga parte dei peccati già enumerati come derivati tutti dall'intemperanza, che a sua volta è generata dalla philautia', cioè dall'amor di sé. La terza parte infine, partendo da altra distinzione, quella platonica dell'anima, in intellettiva, irascibile e concupiscibile, cerca di disporre i peccati a seconda del loro rapporto con questa tripartizione, aggiungendo infine gli otto λογισμοὶ che inducono al peccato, consacrati da una lunga tradizione (gola, fornicazione, avarizia, ira, tristezza, accidia, vanagloria, superbia) e distinguendo in essi i vari gradi di adesione dell'anima.
Già da questo breve sommario ci si accorge che l'operetta è un coacervo di fonti diverse, in cui si tenta di accordare i vari modi di catalogare le passioni o i peccati presso i teologi bizantini. Ora, secondo il Trypanis, sarebbe applicabile all'ordinamento morale dell'Inferno dantesco la tripartizione platonica ripresa e perfezionata cristianamente. Secondo questa distinzione del trattatello dipenderebbero dall'anima intellettiva i seguenti peccati: la mancanza di discernimento, l'ingratitudine, l'assenso ai peccati corporali. Da quella irascibile la durezza di cuore, l'odio, l'insensibilità, il rancore, l'invidia, l'omicidio e i pensieri ad essi connessi. Da quella concupiscibile infine la ghiottoneria, la voracità, l'ebbrezza, la lussuria, l'adulterio, l'impurità, la scostumatezza, l'avarizia, la vanagloria, il desiderio di beni terreni e dei piaceri del corpo.
La tesi centrale del Trypanis, oltre ad alcune annotazioni marginali riguardanti il significato morale delle tre fiere (If I 31-51) - che si appellerebbe alle ‛ radici ' dei vizi proposte nella seconda parte del trattatello - e il cibo del Veltro (If 1104) - che corrisponderebbe alle tre principali virtù delle tre parti dell'anima - la tesi centrale, dunque, è che D. avrebbe compreso nei cerchi II-IV (lussuriosi, golosi, avari e prodighi) i peccati dell'anima concupiscibile, nel V (iracondi e accidiosi) i peccati dell'anima irascibile, e nei cerchi VI-IX (eretici, violenti, fraudolenti e traditori) i peccati dell'anima intellettiva.
Cominciamo prima di tutto con l'osservare che D. non sembra aver mai accettato la distinzione platonica dell'anima in intellettiva, irascibile e concupiscibile, bensì unicamente quella aristotelica in intellettiva, sensitiva e vegetativa. In secondo luogo, che la teoria dantesca sul peccato si ispira visibilmente ancora ad Aristotele e a s. Tommaso, commentatore dell'Etica, sia che essa abbia una base triplice (incontinenza, malizia, bestialità) o duplice (incontinenza e malizia). In terzo luogo che soltanto con molta buona volontà si può procedere a un'identificazione simile a quella proposta dal Trypanis, perché alcuni peccati contemplati da D. non hanno il minimo corrispondente nell'operetta pseudodamascenica: per esempio, la prodigalità della concupiscibile e buona parte dei peccati di violenza e di frode dell'intellettiva. Al contrario, alcuni peccati contemplati nella triplice distinzione platonica non hanno corrispondenza nell'Inferno dantesco: per esempio, la stoltezza, la mancanza di discernimento, l'assenso al peccato dell'intellettiva; quasi tutti i peccati dell'irascibile e alcuni della concupiscibile, come la vanagloria e il desiderio di beni o di piaceri della carne. Basti pensare, del resto, che l'omicidio, classificato da D. come peccato di violenza contro il prossimo, cioè secondo la distinzione proposta dal Trypanis come dipendente dall'anima intellettiva, appare nel trattatello come dipendente dall'irascibile. È vero che, come cerca di giustificare il Trypanis, il trattatello bizantino è molto sommario in questo punto, specie nell'elencazione dei peccati, ma non è una buona ragione per attribuire ad esso ciò che in esso manca. Certi peccati contemplati da D., come la seduzione, il lenocinio, la simonia, la baratteria, ecc., non appaiono in nessuno degli elenchi di peccati offerti dal trattatello bizantino, mentre quella ‛ philautia ' o amor di sé stessi che è additata come la vera e unica ‛ causa e madre ' di tutti i vizi in quella parte che si ispira alla tradizione ascetica non ha in D. alcun rilievo. Si può dunque concludere tranquillamente che la tesi del Trypanis non ha alcuna probabilità di riscuotere l'approvazione non solo dei dantisti, ma direi anche dei bizantinisti.
Un punto invece fondamentale per rendersi conto fino a che punto può aver influito su D. la concezione religiosa dei Bizantini è costituito dalla conoscenza che egli ebbe dell'opera mistica di Dionigi pseudo-Areopagita. I dantisti non sembrano aver molto approfondito questo punto, specie in relazione alla visione del Paradiso dantesco. L'opinione prevalente, ancor oggi, è che il Paradiso sia strutturato soprattutto sulle dottrine medievali di origine orientale molto in voga al tempo di D. circa il simbolismo dei cieli, cioè sui principi astrologici e astronomici contemperati da alcuni principi morali e teologici. Per comprendere fino a che punto il pensiero mistico di D. è stato permeato da quello pseudo-dionisiano, occorrerà non dimenticare che egli lo conobbe attraverso le versioni medievali, in cui il colore, il tono, la pregnanza mistica e adorante del testo greco originale o vennero inconsciamente attenuati o si perdettero interamente, per quel fenomeno ben noto del ‛ trasporto ' da una lingua in un'altra di spirito differente, fenomeno che già D. aveva messo chiaramente in rilievo. Avvenne che i teologi occidentali attinsero, più che al linguaggio, alle idee e ai concetti che lo pseudo-Dionigi aveva espresso. D. segue questo filone di mistica pseudo-dionisiana già occidentalizzata, un po' diverso da quello che si formò nell'oriente bizantino, assai più aderente allo spirito originario, e che tuttora vive nella teologia mistica ortodossa. Ma anche così inteso, il merito di D. di aver accettato e fatto suo il pensiero mistico pseudo-dionisiano, non è poco: è chiaro che egli sentì in tale mistica, sia pure in modo approssimato, un qualcosa che esprimeva meglio di ogni altra teoria quell'anelito verso l'ascesa, verso la visione divina, verso la luce increata, a cui cercò di dar forma poetica nel Paradiso.
Il problema dell'influsso pseudo-dionisiano su D. richiede, a mio avviso, un'altra precisazione. Occorre chiedersi subito: D. conobbe le opere pseudo-dionisiane direttamente attraverso le versioni latine medievali che correvano ancora al suo tempo, oppure attraverso le citazioni numerosissime che fa di tali opere s. Tommaso nelle due Summae? È noto che il poeta, nella famosa epistola a Cangrande della Scala, sulla cui autenticità completa o parziale tanto si è discusso anche ai giorni nostri, allude a un passo del De Coelesti hierarchia. Vero è che, dato il carattere della citazione, riassuntiva di tutto un paragrafo (Coel. hier. III 2), non è possibile dire nemmeno a quale delle traduzioni esistenti al suo tempo si sia ispirato: se a quella di Hilduin di Saint-Denis, o a quella di Giovanni Scoto Eriugena, o a quella di Giovanni Saracino o a quella di Roberto Grossatesta. In ogni caso possiamo però dire con certezza che tale passo non è stato ispirato da s. Tommaso, perché esso non appare in nessuna delle sue opere. È possibile che D. abbia avuto più di una versione e forse anche alcuni dei commenti, come quelli di Ugo da San Vittore, di Tommaso da Vercelli e di Roberto Grossatesta. Non per nulla certo Ugo da San Vittore è posto da D. nel cielo dei sapienti in Paradiso (XII 133).
Ma c'è un altro punto fondamentale che ci induce a ritenere che D. ha attinto direttamente alle opere tradotte, e non attraverso s. Tommaso. Si tratta, anche qui, di un passo ben noto del Paradiso (XXVIII 98-135), in cui il poeta, contrapponendosi alla teorica gregoriana circa la disposizione delle gerarchie angeliche, professata già dallo stesso D. nel Convivio (II V 5-13), pone sulla bocca di Beatrice tutta la teorica pseudo-dionisiana.
Si suole citare a questo punto nei commenti un presunto passo del De Coelesti hierarchia; si tratta invece della versione latina che figura nella Patrol. Gr. 3, 203A, a fianco del testo greco della parafrasi di Giorgio Pachimere di De Coelesti hierarchia VI 2. Quindi, se mai, si dovrà citare a questo punto, ad esempio, la versione grossatestiana del testo autentico: " Omnes theologia coelestes novem vocavit manifestativis cognominationibus. Has divinus noster sacriperfector [Paulus] in tres segregat trinas adornationes ".
Ma la questione della disputa medievale sull'ordine delle gerarchie angeliche non è così semplice come D. ce la presenta. Premesso che in tutti i Padri e in tutti i commentatori medievali c'è accordo assoluto sulle prime due gerarchie (Angeli e Arcangeli) e le ultime due (Cherubini e Serafini), osserviamo che già in s. Gregorio appare una duplice sistemazione: altra è quella data in Moralia XXXII 48, fonte del Convivio dantesco, in cui gli angeli dal III al VII ordine si susseguono in Troni, Dominazioni, Virtù, Principati e Potestà; altra invece quella seguita in Homil. XXXIV in Lucam (XV 1-10), in cui gli angeli degli stessi ordini si susseguono in Virtù, Potestà, Principati, Dominazioni e Troni, di sicura derivazione pseudo-dionisiana, anche se con la variante delle Virtù al posto dei Principati e dei Principati al posto delle Virtù. Che sia pseudo-dionisiana, nessun dubbio: egli stesso ce lo dice: " Fertur vero Dionysius Areopagita, antiquus ac venerabilis pater, dicere... "; ed è assai probabile che sia venuto a conoscenza delle opere pseudo-dionisiane mentre era apocrisario a Costantinopoli, pur non sapendo il greco, attraverso qualche interprete.
D. invece, opponendosi in modo radicale a questa tradizione già fondamentalmente duplice e largamente presente in Occidente, scegliendo nel Paradiso l'ordinamento pseudo-dionisiano e condannando quasi l'ordinamento gregoriano dei Moralia, ha voluto evidentemente porre un particolare accento sullo pseudo-Dionigi e la sua teoria mistica e angelica, forse per indicarci che la sua scelta è stata fatta dopo meditazione degli scritti pseudo-dionisiani.
Ora, posto che ai tempi del Convivio (circa 1304-1307) D. non conosceva ancora lo pseudo-Dionigi Areopagita, mentre mostra di conoscerlo al tempo della composizione dell'epistola a Cangrande (1316?) e in ogni caso del Paradiso (1316-1321), occorre ammettere che egli poté avere tra le mani le opere pseudo-dionisiane soltanto in territorio lombardo-veneto. Perciò questa componente culturale di origine greca io credo che si debba rivendicare propria all'area geografica compresa tra Verona, Ravenna e Venezia.
La questione dell'ordinamento nel Paradiso delle potenze angeliche ci porta a esaminare un altro aspetto poco noto dell'influsso pseudo-dionisiano sulla collocazione dei beati nei vari cieli. Naturalmente siamo ben lungi dall'idea di negare un certo qual rapporto fra le caratteristiche delle anime dei beati e la simbologia astrologica medievale dei cieli. Ma non si può sottovalutare, come finora è stato fatto, il rapporto che esiste fra le potenze angeliche e i beati. Certo, se si tentasse di spiegare tale rapporto sulla base delle indicazioni fornite per ogni ordine angelico da s. Gregorio o da s. Isidoro - per tacere di Rabano Mauro (De Universo I 5) che copia Isidoro - o da s. Bernardo o dall'anonimo della Summa Sententiarum, ci troveremmo in gravi difficoltà. Tanto per fare qualche esempio: i Cherubini sono ritenuti dai teologi medievali occidentali come gli angeli che esprimono la " plenitudo scientiae " o " ex ipso sapientiae fonte ore Altissimi haurientes et refundentes fluenta scientiae ", o " qui prae aliis in scientia eminent ": ciò malgrado, in D. appaiono patroni degli spiriti trionfanti, nell'Empireo, non nel cielo dei sapienti; le Potestà, secondo gli stessi interpreti, sono invece ritenute più potenti delle Virtù nell'agire come intermediari e dei " signa et miracula ", " ut virtutes adversae eisque subiectae refrenentur ", " qui maligni spiritus eorum potestate coercentur ": eppure ad esse corrispondono nel Paradiso dantesco gli spiriti sapienti, non quelli attivi; così i Troni nell'esegesi occidentale sono coloro " quibus ad exercendum iudicium semper Deus omnipotens praesidet... et in eis Dominus sedet et per eos sua iudicia decernit ": certo se ne è ricordato D. nel Paradiso (IX 61-62); eppure ad essi corrispondono gli spiriti contemplanti, non quelli giusti.
Il quadro però di tali rapporti sarà assai più consono alla concezione di D. se terremo presenti le indicazioni che offre lo pseudo-Dionigi per ogni ordine angelico. D'altra parte, che D. volesse porre in una certa qual relazione le anime dei beati con le potenze angeliche dei vari cieli mi sembra che si possa dedurre abbastanza chiaramente da quanto afferma Beatrice (Pd XXVIII 76-78), che cioè D. dovrà rendersi conto che c'è una mirabile corrispondenza di cielo maggiore avente maggior virtù - che è come dire di beati più virtuosi - con intelligenza angelica maggiore, e di cielo minore, di minore virtù, con intelligenza angelica minore.
Appare dunque abbastanza chiaro che D. ha tenuto presente per la sua caratterizzazione degli angeli e per il rapporto intercorrente fra questi e i beati dei vari cieli assai più il trattato pseudo-dionisiano De Coelesti hierarchia che non tutti gli altri trattati dei teologi occidentali. Nel Paradiso c'è dunque, alla base dell'angelologia, la mistica bizantina.
Ma non c'è alcun dubbio che anche la concezione generale della proporzionale partecipazione da parte degli angeli e dei beati all'effusione del raggio divino (Pd XI 19-20, XIII 55-60, XXIX 136-145, ecc.) è derivata dallo pseudo-Areopagita.
Come nello pseudo-Dionigi, così in D., la luce della divinità (Pd V 1 ss., XI 19-20, ecc.) è sempre identica a sé stessa, a qualunque livello della scala gerarchica, essendo diversa soltanto l'attitudine e la capacità delle intelligenze che la ricevono (pseudo-Dionigi De Coelesti hierarchia).
Ma ancor più rivelatrice è in D. la mistica dell'ineffabile, cioè dell'uso che egli fa, sulla scorta della mistica pseudo-dionisiana, dei vari appellativi della divinità. Il ‛ nome divino ' è usato come lode e come definizione. Basterà ricordare qui i nomi che indicano il concetto di Bontà (somma, infinita, prima), di Giustizia (viva, divina, giusta), di Sapienza (somma, mente divina, in che s'inizia... il moto e la virtute), di Potenza (divina, che aprì le strade tra il cielo e la terra), di Virtù o di Valore (primo, etterno, infinito), a cui corrispondono altrettanti ‛ nomi divini ' nel De Divinis nominibus e concordi spiegazioni teologiche. Lo stesso potrebbe esser detto per i concetti Dio-Amore, Dio-primo Motore, Dio-Sole (vivo raggio, luce etterna, etterno lume), Dio-Equalità, Dio-Verità, Dio-Principio e Fine (Alfa e 0, fontana etterna, etterno fonte), Dio-Re dei re (alto Signore, sommo Rege, Imperador che sempre regna), Essenza, Fattore, Unità, Perfezione (il primo Essere, la profonda e chiara Sussistenza, la somma Essenza, lieto Fattore, lo Motor primo, una sola Parvenza). Ma non è necessario insistere. L'influsso della mistica pseudo-dionisiana è certo molto più grande di quanto comunemente non si creda, talvolta anche nella graduale esposizione dei tempi teologici e fino ai valori liturgici impliciti nell'universo adorante dei cori angelici e delle corone dei beati.
Se D. è debitore, come abbiamo cercato di mostrare, anche solo per questo aspetto della cultura teologica e mistica bizantina, ebbene io credo che il debito, anche in questi limiti, è di grande importanza e meritevole di ulteriore approfondimento, soprattutto per i riflessi che esso ebbe sulla civiltà nostra.
Bibl. - Il contributo di F. Dölger, Die byzantinische Literatur und D., in Deuxième Congrès International des études byzantines, Belgrado 1929, 47-48, esamina sommariamente gl'influssi danteschi sulla letteratura bizantina, soprattutto l'Εἰς τὴν Σωφροσύνην di (Teodoro?) Meliteniote. Un primo tentativo, per quanto io sappia, di rilevare l'eco della civiltà bizantina in D. è stato fatto in A. Pertusi, Cultura greco-bizantina nel tardo Medioevo nelle Venezie e suoi echi in D., in D. e la cultura veneta, in Atti del Convegno di Studi organizzato dalla Fondazione Cini, a c. di V. Branca e G. Padoan, Venezia 1967, 157-197.