CICLOPI (Κύκλωπες, Cyclüpes)
Figure favolose delle antiche credenze greche, di statura gigantesca e forniti di un solo occhio in mezzo alla fronte. La testimonianza più antica è probabilmente il libro IX dell'Odissea (vv. 106-564), dove, tuttavia, i Ciclopi sono descritti in modo tale da far comprendere che essi erano già noti al pubblico al quale il cantore si rivolge; poiché la loro caratteristica più mirabile, l'unico occhio, non è enunciata né nella descrizione che introduce l'episodio (vv. 105-115) né, almeno chiaramente, altrove, ma è sempre sottintesa. Subito in principio, invece, si dice che essi non lavorano i campi, ma hanno solo l'incomodo di raccogliere ciò che loro produce una terra incantata, e che non conoscono assemblee né leggi, ma abitano negli spechi, e ciascuno dà leggi alla propria famiglia senza curarsi degli altri; ciò che agli occhi già del greco omerico, avvezzo a vivere nella polis, contrassegna indisconoscibilmente lo "stato di natura", il puro selvaggio.
Ulisse, venendo dai Lotofagi, giunge a un'isola presso la loro costa e approda per curiosità alla loro terra. Per curiosità con solo dodici compagni si reca nell'antro, dove uno di essi, Polifemo, pernotta con il proprio gregge. Costui è rappresentato come un antropofago: a Ulisse che invoca ospitalità in nome di Zeus, risponde che i Ciclopi non si curano degli dei perché più forti di essi, e senza riguardi di sorta, afferrati due dei compagni e uccisili sbattendo loro la testa contro il terreno, li divora. Ulisse escogita allora un mezzo per vendicare i compagni e insieme per scampare, benché sappia che la fuga è resa difficile dall'immenso masso con il quale il Ciclope suole chiudere la porta dell'antro. Egli si taglia un palo dalla mazza d'olivo del Ciclope e lo nasconde nello stabbio. Quando la sera del giorno seguente il Ciclope, tornato dal pascolo, gli ha mangiato altri due compagni, Ulisse gli offre un otre di vino squisito. Il Ciclope, grato, lo assicura che lo mangerà per ultimo e gli chiede il nome: Ulisse risponde di chiamarsi οὖτις ("nessuno"). Il Ciclope, ebbro, cade addormentato: Ulisse allora, arroventato il palo, glielo conficca con l'aiuto dei compagni nell'unico occhio sì da accecarlo. Invano Polifemo chiede aiuto ai compagni; ché questi, appena sentono che Nessuno fa a lui male, si ritirano. Il Ciclope cieco, rimossa la grande pietra, fa passare a uno a uno gli animali del gregge tastandoli; ma Ulisse e i suoi compagni, legandosi sotto il ventre, egli di un ariete, gli altri di agnelli, riescono a fuggire. Giungono così alla nave in salvo, per quanto Ulisse troppo baldanzosamente provochi il Ciclope rivelandogli il proprio nome vero, e allora questi, pur cieco, sia per colpire la barca con un pezzo di monte staccato e lanciatole contro. Polifemo si vendica di Ulisse, eccitando contro di lui lo sdegno del proprio padre Posidone.
La narrazione, popolarissima ed efficacissima, non è tuttavia chiara nei particolari né esente da contraddizioni anche grossolane. Si ha l'impressione, in certe parti del canto, che Polifemo sia un mostro solitario; in altre, come in principio, che esista tutt'un popolo di Ciclopi. Critici moderni hanno tentato di provare che questo episodio, appunto perché celebre, fu rielaborato, ma un'analisi definitiva sembra mancare ancora. Ma che i Ciclopi non siano invenzione omerica, che anzi il poeta omerico conosca su essi tradizioni svariate, è certo anche per altre considerazioni. Non molto, per vero, importa che essi, come attesta Pausania (II, 2,1), avessero culto sull'istmo di Corinto, perché un tale culto può essere tardo frutto di reminiscenze omeriche; molto più, che in svariatissime parti del mondo greco i Ciclopi fossero noti come artigiani abilissimi: in Eubea quali i più antichi fabbri di armi, nell'Argolide quali costruttori di quelle mura formate di blocchi immensi non legati da malta che in tutto il mondo si sogliono da loro chiamare ciclopiche. I Ciclopi omerici stessi, che per l'Odissea sono allo estremo occidente, nel mondo delle favole, sono presto localizzati in Sicilia (già da Tucidide, VI, 2), per lo più nella Sicilia orientale; ma anche colà, in contrasto inconciliabile con la narrazione omerica, essi non sono considerati quale una popolazione primitiva di pastori, ma quali fabbri di demonica abilità, che lavorano per lo più sotto la direzione di Efesto: la loro officina è collocata in regioni vulcaniche, per lo più nell'interno dell'Etna, dagli Alessandrini nelle Lipari, oppure nei cosiddetti Faraglioni, scogli presso la costa a circa 8 km. a nord di Catania. Essi fabbricano tra l'altro il fulmine a Zeus. E una simile concezione pare essere già nota alla teogonia esiodea (v. 140), che fra i figlioli di Gea e Urano conosce tre Ciclopi che hanno ciascuno un sol occhio in fronte, Bronte, Sterope e Argo, cioè il Tuono, il Lampo e lo Splendore. Il verso 141, che dice chiaramente ch'essi fornirono a Zeus il fulmine, è forse interpolato, e del pari interpolato sembra il passo 501-506 secondo il quale Zeus libera tutti gli Uranidi tenuti prigionieri sotto la terra dal loro padre, e questi (dunque in primo luogo i Ciclopi) lo ricambiano col dono del fulmine.
È probabile dunque che il poeta di questa parte dell'Odissea abbia - egli - innovato, applicando motivi fiabeschi, specie quello dell'orco, a fabbri demoniaci. E già l'arte arcaica, dal sec. VII in poi, riproduce con predilezione quello che può dirsi l'unico Ciclope dell'Odissea, Polifemo: la più antica illustrazione dell'Odissea è nel cratere di Aristonoo, trovato a Cere, in Etruria, ma di arte ionica. Altrettanto popolare è il motivo di Ulisse e dei suoi che scappano dalla caverna, legati a montoni: qui la più antica figurazione è una situla di avorio trovata a Chiusi. Ma l'episodio del Ciclope (Cuclu) si trova anche in opere d'arte genuinamente etrusca. Già Epicarmo scrisse una commedia intitolata il Ciclope. Del pari Cratino 'Οδυσσῆς "gli Ulissi", cioè, pare, la commedia di Ulisse: ambedue queste opere sono perdute. Il Ciclope di Euripide è il solo dramma satiresco conservato per intero: in obbedienza alle tradizioni del genere, il poeta inventa che Ulisse liberi dalla schiavitù di Polifemo Sileno e i suoi satiri capitati lì, mentre vanno alla ricerca del proprio signore, Dioniso. Anche Timoteo aveva scritto un ditirambo, il Ciclope. Un grande artista di musica della seconda metà del sec. IV, Filosseno di Citera, vissuto gran tempo in Sicilia, dove Polifemo era ormai una figura poetica nazionale, umanizza il Ciclope in un giovane rozzo ma sentimentale, che s'innamora della ninfa Galatea (v.). La sua opera, perduta, divenne presto popolare, come mostra la parodia in una scena del Pluto Cristofaneo (v. 290 segg.). Questo Polifemo (v.) ingenuamente malinconico e un po' comico riappare in un idillio (l'XI) del siracusano Teocrito (v.), che è tra i meglio riusciti e i più celebri.
Virgilio nell'Eneide (III, 569 segg.) inventa che i suoi Troiani fuggitivi guidati da Enea approdino ignari al lido dei Ciclopi, anche qui identificato con la regione etnea, e che colà si presenti loro, ridotto in stato miserevole. Achemenide, un compagno di Ulisse dimenticato dai suoi, che vive tra i boschi, per sottrarsi ai Ciclopi. A un tratto i Troiani scorgono di lontano Polifemo e fuggono in fretta con la loro nave. Polifemo udendo il rumore, dopo aver tentato invano di raggiungerli, chiama con un grido a raccolta i compagni, che Enea e i suoi riescono ancora a vedere di lontano. I Ciclopi sono qui, secondo la tendenza dell'arte virgiliana, più maestosi che in Omero e senza elementi grotteschi.
Bibl.: L'art. di Eitrem, in Pauly-Wissowa, Real-Encycl., XI, coll. 2328-2347, non tratta di letteratura ellenistica e romana, ma è per il resto ottimo (solo, forse, incauto nella parte che riguarda Esiodo, per la quale il miglior aiuto è, per ora, l'edizione del Jacoby della Teogonia, Berlino 1930); v. anche W. H. Roscher, in Lexikon d. gr. u. röm. Myth., II, i, 1676 segg.; B. Sauer, ibid., III, 2698 segg. (speciale riguardo all'arte figurativa in genere e alla poesia ellenistico-romana); Preller-Robert, Griech. Myth., I, p. 622 segg.; e specie C. Robert, Griech. Heldensage, Berlino 1926, p. 1346 segg. Per l'Odissea, A. Mülder, in Hermes, XXXVIII (1903), p. 414 segg.; E. Schwartz, Odyssee, Monaco 1924, pp. 28 segg., 209 segg. Per la tradizione figurata Fr. Müller, Die antiken Odyssee-Illustrationen, Berlino 1913, p. 2 segg. Per Polifemo e Galatea, R. Holland, in Leipziger Studien, VII, p. 141 segg.