Chiesa
Si potrebbe molto sbrigativamente affermare che D. ebbe della C. la concezione ortodossa vigente al suo tempo, accettò le dottrine ecclesiologiche elaborate dai pensatori cristiani e dalle autorità cattoliche che lo avevano preceduto, si uniformò alle opinioni allora correnti e diffuse intorno a tutto quello che concerneva la società religiosa esistente da molti secoli e dominante tuttora nell'area territoriale da lui conosciuta (ossia l'Europa occidentale, che formava la ‛ christianitas ', 1 '‛ orbis christianus '). Dicendo questo si superano di un balzo le posizioni anacronistiche e assurde di coloro che hanno presentato un D. quasi anticattolico, e di certo anticlericale nel significato moderno del termine, e si riporta invece il personaggio nel suo ambiente perché anch'egli - malgrado la sua statura intellettuale d'eccezione - rimane pur sempre un uomo non avulso da un preciso contesto storico e culturale; nondimeno, con quella precisazione, non si è fatta molta strada nella comprensione della figura e del pensiero di D., in quanto - benché sia stata riconosciuta obbiettivamente la sua fede cattolica ed evidenziata la sua accettazione di un complesso di verità e di norme costituenti il patrimonio religioso cattolico tradizionale - non si è ancora chiarito quale fosse effettivamente, verso la fine del Medioevo, quel ‛ depositum fidei ', e come poi esso venisse inteso e rivissuto non solamente da D. ma anche da tutti i suoi contemporanei.
Data quindi per indubbia la cattolicità di D., la sua appartenenza sincera e totale, convinta e impegnata, alla C. in cui era nato, bisogna ancora sapere quale fosse la sua concezione di tale C., quali, a suo avviso, gli elementi costitutivi di quell'istituzione, quali le sue funzioni più significative e i compiti affidatile, quali le relazioni con le altre società esistenti e concorrenti, quali le possibilità future, gli sviluppi e i cambiamenti auspicati o temuti. Né sono da trascurare le notizie sui più importanti uomini di chiesa coevi a D. che furono in contatto più stretto con lui, o le informazioni sugli esponenti ecclesiastici che maggiormente colpirono la sua fantasia e sensibilità.
Conviene soffermarsi distintamente, per comodità di esposizione, su due tipi di ‛ note ' che D. ricorda parlando della C., ed elencare, dapprima, le qualità che dipingono la natura strettamente religiosa, poi quelle che sottolineano l'ordinamento gerarchico ecclesiastico. Nel primo caso la C. risulta soprattutto non un effetto della natura, ma voluta immediatamente da Dio (Mn III XIII 2), fondata da Cristo (X 7), indefettibile, santa (Pg III 137 e passim), una (Ep XI 13); essa pertanto è la sposa di Dio o di Cristo (Ep XI 6 e 26, Mn III III 12, Cv II V 5,Pd X 140, XI 32, XII 43, XXVII 40) o la bella sposa che Cristo si acquistò con la sua passione (XXXII 128); del pari è la vigna (XII 86), l'orto di Cristo o cattolico (XII 72 e 104, XXVI 64); viene curata studiosamente, soccorsa nei pericoli e travagli (VI 95, XII 107, XXVII 63); infine è mater piissima (Ep VIII 15) che deve essere venerata e seguita, fruisce di parecchi poteri e se, considerata nel suo essere temporale, è militante (Ep XI 5, Pd XXV 52), forma però un tutto unico con la C. purgante e trionfante essendo il corpo mistico di Cristo (Mn III XIV 3).
Ma quella stessa C. era stata commessa dal fondatore a Pietro (Ep VI 3, Pg XXXII 129, Pd XI 119-120, XXXII 124-126) e ai suoi successori a edificazione e non a distruzione (Mn III VIII), e si presentava quindi nella storia come la sposa del papa (If XIX 57, Pg XXIV 22), una monarchia apostolica (Ep VI 8, Pd XVIII 122-123), con sede a Roma (If II 24, Pg XVI 127), ricca di un patrimonio che va posto al servizio dei poveri e impiegato a scopi pii (Mn II X 1, 2 e 3, III X 17, Pd X 108, XXII 82), fornita di autorità e poteri per dare leggi, sciogliere dalle scomuniche, collocare i beati nell'Empireo, stabilire le astinenze e i digiuni, combattere gl'infedeli e gli eretici (tra le numerose citazioni in proposito si possono vedere Cv II III 10, V 5, III VI 2, IV XXIII 15, Pg III 137, Pd IV 46, V 35 e 77, IX 126, XV 144, XXVII 130-132). Inoltre, in Fiore XCVIII 2 è ricordata la Santa Chiesa esposta all'assalto dei lupelli che approfittano della sua scarsa difesa; in CLXIV 10, invece, la C. è ricordata solo come edificio. Questa stessa accezione di C.-luogo si trova in If XXII 14, allorché D., deprecando la compagnia dei diavoli, conclude: ma ne la Chiesa / coi santi, e in taverna coi ghiottoni. Inoltre, in Pg XII 101 è ricordata la Chiesa che soggioga, perifrasi per indicare S. Miniato al Monte di Firenze; in Pd XVI 113, nel trattare della famiglia dei Visdomini (pressoché tutti i commentatori sono concordi in questa identificazione)., D. allude al loro compito di tutori del vescovo di Firenze, sempre che la vostra Chiesa vaca.
Se i precedenti rinvii sono quelli che concernono ‛ ad litteram ' la C. così come ricorre nelle pagine di D., è troppo evidente che non sono sufficienti da soli a esaurire l'argomento ecclesiologico dantesco; pertanto il discorso va ripreso e allargato tenendo presente, tuttavia, che nella ricca fioritura dottrinale della scolastica la parte relativa all'ecclesiologia era tra le più carenti (lo stesso s. Tommaso non compose mai un trattato ‛ de ecclesia ' o qualcosa del genere), non costituiva insomma un problema come poi fu in altre epoche e situazioni storiche, limitandosi a essere un dato di fatto accettato come ovvio. Soprattutto non si deve dimenticare che nel Medioevo (almeno fino alla riforma gregoriana) il termine ‛ ecclesia ' (e il corrispondente concetto) non indicava soltanto la società religiosa cattolica ma l'intero gruppo civile umano, perché quest'ultimo formava una ‛ christiana respublica ' e quindi aveva unità d'intenti con la prima, i capi dell'uno erano anche responsabili dell'andamento dell'altra (Carlomagno era chiamato ‛ rector ecclesiae '), la politica aveva una funzione missionaria mentre la religione svolgeva anche mansioni temporali, che però restavano sussunte e transvalutate da finalità spirituali.
Fu proprio tale mondanizzazione della C. che provocò una reazione a sfondo moraleggiante e diede luogo a iniziative riformistiche, a energici richiami di responsabilità in nome delle specifiche attribuzioni ecclesiastiche e dell'autentica natura dell'istituto ecclesiale; a questo punto s'inserisce di nuovo D., che è sempre stato tenuto presente nella rapidissima panoramica testé compiuta. Tutto il secolo XIII fu pervaso da movimenti di tal natura, che furono giudicati eretici o no, ma che, per lo studioso, presentano caratteri simili e rispondono a identiche esigenze, globalmente definibili come spiritualistiche e pauperistiche, intrecciate con rivendicazioni sociali e con esplicite richieste di autonomia del temporale; messisi per quella via, non si tardò a porre in discussione anche la struttura della C., a dubitare del posto privilegiato e delle funzioni eminenti del clero, ma su quel terreno D. non si addentrò e le sue aspre critiche non intaccarono mai la natura clericale e gerarchica della C. cattolica.
Allo scopo di precisare sempre meglio la ‛ forma mentis ' medievale su questo argomento si può partire dalla definizione data da Isidoro nelle sue Etimologie (VIII 1), ma si tratta di poco più di una tautologia: " congregatio vel adunatio vel convocatio multorum fidelium "; assai più chiarificatore è il concetto di " regnum Christi " che ricorre di continuo in quei secoli e che aveva il vantaggio di poggiare sopra un solidissimo fondamento scritturale e di sostenersi poi sul valido appoggio di s. Agostino d'Ippona (del quale vanno ricordati sia la tripartizione: " domus, civitas, regnum " - e quest'ultimo, più vasto, composito, potente, ben si addiceva alla società ecclesiastica - sia il " regnum mundi " che era il correlativo del regno di Cristo e dava pertanto un'impostazione combattiva, polemica, a tutta la visione medievale dell'essenza della Chiesa).
Ma proprio l'idea di regno portava con sé molte conseguenze, riscontrabili con diversa intonazione nella pubblicistica in materia che fiorì press'a poco all'epoca di D.: anzitutto riportava al Re, cioè a Cristo, che per effetto della sua opera redentrice riuniva sotto di sé tutti gli uomini, li avviava al cielo, aveva la pienezza dei poteri, faceva regnare (ossia rendeva legittimi) gli altri potentati; in secondo luogo metteva in evidenza gli obbiettivi che il regno doveva proporsi di realizzare, i quali erano la giustizia e la pace, l'ordine e la fede (anche queste sono nozioni tipicamente agostiniane, che andrebbero illustrate con numerosi esempi tratti da scritti del tempo, per bene intendere lo speciale significato annesso a quelle parole troppo abusate e di uso corrente); per ultimo postulava la presenza e l'azione di un ‛ vicario ' (o come altrimenti lo si voglia chiamare) che agisse in nome, per virtù, con la competenza del Re, fruisse di una sua giurisdizione sovrana e attuasse le finalità prefisse.
Era questa una traccia assai chiara nella dottrina ecclesiologica medievale - nei limiti ristretti entro i quali, come si disse, allora il tema era trattato -, che nei primissimi anni del Trecento venne codificata in alcuni scritti (come il De Regimine christiano di Giacomo da Viterbo, che è del 1301-1302 e che il suo editore, l'Arquillière, non ha esitato a definire " il ‛ primo ' trattato sulla Chiesa "); però vi era pure un'altra corrente di pensiero che dalle medesime premesse traeva conseguenze quasi antitetiche, insistendo sul fatto che Cristo era stato un re umile e sofferente, distaccato dai beni e poteri terreni, e, di conseguenza, il suo regno (la C.) doveva lottare ognora contro le tentazioni di dominio, vivere nascosto, limitarsi nell'esercizio delle sue prerogative, in una parola spiritualizzare al massimo la sua fisionomia per non tradire la missione assegnatagli e non deviare dall'esempio dell'" apostolica vivendi forma ".
Non resta che fare menzione del grande mutamento sopravvenuto con s. Tommaso d'Aquino, che, introducendo l'aristotelismo e quindi il concetto di natura, provocò una chiarificazione ma anche recò profonde modifiche perché distinse meglio i campi che erano propri della C. (società nata da una rivelazione, muoventesi nell'ambito soprannaturale, fornita di carismi, proiettata verso l'aldilà) da quelli spettanti alla ragione umana (filosofia, politica, ecc.); nelle dottrine tradizionali, anche a non voler pretendere, per quei tempi e in quel contesto culturale, la precisione raggiunta in seguito (e fors'anche l'eccessiva sottigliezza dialettica a cui arrivò la teologia ulteriore che s'inaridì in astrazioni), è certo che una grande cesura si verificò nel momento in cui la natura riconquistò la sua autonomia perché la C. venne circoscritta nelle sue competenze e ingerenze, mentre a tutto quello che era umano fu ridato un valore, fu consentita maggiore libertà di azione.
D. si trovò a vivere e a comporre i suoi scritti nella fase più delicata dei dibattiti e, pur risentendo l'influenza di varie correnti, arrivò anche a una sintesi originale e - in quelle circostanze - ardita, che, almeno provvisoriamente, accontentò l'autore costituendo per lui una conquista notevole e consolante. Essa era fondata, in sostanza, sopra una divisione settoriale la quale dava a ciascuno il suo ma, con questo stesso, rivendicava per tutto quello che rientra nel campo naturale una vasta e impegnativa responsabilità come da parecchio tempo non gli era più stata riconosciuta. Di tale posizione dantesca si possono ritrovare sicure tracce in alcune sue opere, come testimonia, ad esempio, il passo di Mn III XV 7 che il Vinay interpreta osservando che, essendo l'uomo capace di attuare da sé con le sue proprie forze tutta la sua natura, la C. non ha alcuna interferenza su questo piano; invece essa " è chiamata ad un'opera assolutamente diversa, cioè ad amministrare i doni che Iddio le ha fatto,non per sostituirsi all'uomo o guidarlo nell'attuazione che compie ogni giorno di se stesso, ma per offrirgli dei beni che la natura non gli può dare. Essa è la voce dell'eterno che scende nel tempo per illuminare la fatica e la lotta quotidiana dell'uomo, perché nel suo laborioso tormento senta ad ogni istante la certezza che la sua umanità non è nave alla deriva. La Chiesa gli viene incontro e lo soccorre rivelandogli le verità che hanno una autorità fuori del tempo e delle possibilità discorsive della ragione e la sua opera si estrinseca nella predicazione delle verità teologiche, nella amministrazione dei sacramenti, sul terreno pratico nella operazione della carità. Non guida politica, non legislatrice e punitrice, ma annunziatrice delle promesse eterne e luce di amore perfetto... Perché si compia il miracolo della congiunzione del contingente con l'assoluto occorre la grazia: la Chiesa prepara l'uomo all'opera della grazia... l'opera della Chiesa è un dono assolutamente gratuito ".
Senza entrare in merito alla controversa questione delle varie fasi del pensiero di D., dell'evoluzione dei suoi atteggiamenti filosofici e religiosi, sta il fatto che a un certo momento questa interpretazione della realtà ecclesiale (e, in via subordinata, politica, per i legami esistenti tra i due aspetti storici e dottrinali della problematica) non soddisfece più D., che la superò portandosi su posizioni che davano alla C. un posto primario, quasi esclusivo, come appare soprattutto dalla Commedia. Poiché ignoriamo le date precise di composizione sia della Monarchia che della Commedia, è difficile segnare con sicurezza gli esempi probanti; però il decorso indicato sembra certo e acquista una sua coerenza anche maggiore se vengono tenute presenti le vicende biografiche di D. e le sue esperienze umane. In ogni caso è lecito guardare ora alla sua opera maggiore - in rapporto a quanto concerne l'ecclesiologia - con la convinzione che in essa la C. domina, pervade tutto, è la ragion d'essere di quanto avviene e di ciò che vi si dice; la molteplicità - e, da qualche punto di vista, la contraddizione - degli atteggiamenti danteschi sui temi più impegnativi del destino umano e del cammino da percorrere per realizzarlo nella sua forma migliore, degl'istituti ai quali rifarsi per avere gli aiuti più pertinenti, ha provocato una notevole diversità d'interpretazioni proprio in quello che concerne il giudizio di D. sulla Chiesa.
È quasi una banalità ricordare la data scelta da D. per il suo immaginario viaggio ultraterreno, però sta il fatto che essa coincide con la settimana santa del primo anno giubilare cristiano indetto per il 1300 da un pontefice romano; si è sottilizzato molto in proposito osservando anche che nel corso della Commedia sono rare le menzioni di quell'avvenimento (cfr. If XVIII 29, Pg II 98 ss.); tuttavia resta il dato di partenza e il riconoscimento esplicito di un potere ecclesiastico preciso, solenne, determinante. Ma l'osservazione può essere subito allargata ed estendersi a tutta la funzione storica della C., nel pensiero di D., svolgentesi secondo un piano divino in un lungo decorso temporale; a tale proposito sono d'importanza eccezionale gli ultimi canti del Purgatorio, e in particolare il XXXII, che illustrano - con richiami biblici e con ricostruzioni storiche, con simboli e allegorie, con esposizioni dottrinali e annunci profetici - il posto assegnato da D. alla C., le realizzazioni a suo avviso ottenute e le manchevolezze di cui essa era gravata, i compiti che ancora l'attendevano e i pericoli dai quali doveva guardarsi.
Nella divina foresta spessa e viva posta al sommo della montagna del Purgatorio (XXVIII 2) appare una lunga e solenne processione in cui campeggia il carro trionfale della C., che avanza su due ruote ed è tirato da un grifone, che è Cristo stesso e presenta la sua duplice natura - divina e umana - effigiata nei due colori delle sue membra; tralasciando la descrizione delle singole figure (i seniori, gli animali, altri simboli personificati, ecc.) e anche l'aspro rimprovero di Beatrice, nonché la purificazione di D. nel fiume Lete, veniamo al problema di fondo, al tema principale del carro e dello sviluppo civile ed ecclesiastico dell'umanità. Sembra quasi che, avvertendone tutta l'importanza, D. giri intorno all'argomento, si prepari ad affrontarlo, disponga gli strumenti adatti alla sua retta e completa intellezione, come ha osservato il Sapegno scrivendo che la serie degli episodi pregni di significato è " premessa e preannuncio di una solenne investitura e di una precisa missione " evidenziate nel canto XXXII, nel quale la C. campeggia e domina con una consapevolezza che D. ha avvertito perfettamente (l'inciso del v. 104 al carro tieni or li occhi può essere assunto non soltanto come la sintesi di questo canto ma finanche come l'epigrafe di tutto il poema dantesco, la chiave che lo spiega e lo disvela tutto e ne fa un messaggio eternamente valido). Dopo il lungo preambolo si raggiunge un'alta tensione negli ultimi versi del canto, toccando il punto al quale si mirava fin dal principio del ciclo (i sei canti finali del Purgatorio) e manifestando la missione di testimonianza e profezia che proprio a lui, per una speciale grazia divina, era stata affidata; presentando in rapidi scorci la storia della C. e chiarendo la natura di essa, D. si fa ammonitore della sua età affinché, con la conoscenza del passato e il presentimento del futuro, potesse tentare l'avvio dei suoi simili verso un migliore cammino. Il dramma storico diventa mistero liturgico, le visioni sono emblemi di un severo giudizio morale.
Compiuta un'elaborata conversione per dirigersi nella sua marcia verso Oriente, il carro della C. viene a trovarsi davanti a un albero, che significa la giustizia di Dio offesa dal peccato e soddisfatta dal sacrificio di Cristo; infatti il grifone lega il timone del carro all'albero e questo rinverdisce perché la C. - unita mediante la croce di Cristo alla giustizia divina - l'amministra e conserva, la sviluppa e diffonde, fermo restando che è ognora il sangue di Cristo quello che alimenta e giustifica l'attività e i risultati della C. stessa. Dopo aver ricevuto da Beatrice, seduta ai piedi dell'albero, l'invito di cui si è detto sopra, l'esortazione a impegnarsi, lo stimolo a tenere ognora presenti le ragioni del viaggio nell'oltretomba, D. - il quale, usando una formula quasi barocca, afferma che ai piedi / d'i suoi [di Beatrice] comandamenti era divoto (Pg XXXII 106-107) - assiste nel breve giro di soli 27 versi a quattro scene aventi per protagonista il carro, il triunfal veiculo, poi dedica altre poche terzine alla descrizione di mutamenti radicali sopraggiunti sempre nel carro e per ultimo racconta il laido spettacolo svoltosi sul carro stesso, impiegando parole volgari e crude espressioni per far conoscere il ribrezzo e la vergogna provati, la riprovazione e condanna emesse in quel contesto.
Un'aquila piomba giù dalla cima lungo il tronco dell'albero rompendone sia la scorza sia i fiori e le foglie rigenerate, e va acolpire il carro facendolo ondeggiare e sussultare come una nave in tempesta. Poi sopraggiunge una volpe che si avventa contro la cavità del carro ma viene messa in fuga da Beatrice (la sapienza teologica unita all'autorità dei padri e dei concili) e le vengono rinfacciate le sue laide colpe. Per la stessa via onde era venuta prima, ritorna ancora l'aquila e si abbatte nel fondo del carro lasciandovi sparse le sue penne, mentre si ode dal cielo una voce di rammarico. Infine si apre la terra tra le due ruote del carro e ne esce fuori il demonio stesso in forma di drago che s'insinua e penetra nell'opera della C.; strappata con la coda una parte del fondo del carro, si allontana lentamente ma, avendovi immesso il suo veleno, questo si deforma e corrompe, anzi si trasforma in mostro, sul timone appaiono tre teste (un'altra testa appare ad ognuno dei quattro angoli), le prime con due corna ciascuna, le altre con uno solo, così che complessivamente il mostro ha sette teste e dieci corna. Al posto di Beatrice poi compare, seduta sul carro mostruoso, una meretrice orgogliosa e priva di ogni freno, che volge intorno lo sguardo lascivo ed è affiancata da un gigante; i due dapprima si baciano, poi il gigante flagella la donna non appena avverte che il popolo cristiano (raffigurato in questa situazione da D.) li guarda; finalmente il carro viene sciolto dalla pianta dall'iroso e crudele gigante e portato nella selva (per indicare che la sede della C. era trasferita dal suo soggiorno naturale e legittimo).
Non è necessario, in questo momento, far presente che tutto questo bagaglio di richiami e immagini - a noi risultante senza dubbio un po' pesante e farraginoso anche se in D. è ognora lievitato da un afflato poetico e da una straordinaria capacità artistica che vivifica anche le nozioni più aride, i ‛ topoi ' più tipici della cultura medievale - risale specialmente all'Apocalissi giovannea, un libro allora assai letto e adoperato correntemente dai pittori per i loro mosaici e affreschi e dai letterati e storici per le loro dettagliate illustrazioni dello ‛ status ' dell'umanità passata, presente, futura. A quel testo va aggiunto il libro profetico di Ezechiele, poi qualche spunto di Daniele, e soprattutto la Epistola ad Paulinum di s. Girolamo, che fu la fonte nella quale D. trovò delineata già tutta la simbolica vicenda del suo XXXII canto. Gli studiosi medievali - e con loro D. - ricavavano soprattutto da quel patrimonio dottrinale due concetti, l'unità e la sacralità del processo storico umano, e vi inserivano la C. a pieno diritto, in veste di protagonista, quale punto di arrivo di un primo, lungo periodo (quello dell'attesa messianica) e punto di partenza del secondo, definitivo ciclo (quello della salvezza cristiana, del regno temporale divino).
L'illustrazione di quanto è stato sopra sommariamente esposto può essere rapida essendo evidentissima la simbologia del tutto e delle parti: dapprima l'Impero romano perseguitò la C. per secoli e così facendo violò la giustizia divina (l'albero) mettendo in pericolo il carro; poi nel seno della C. scoppiarono eresie (la volpe penetrata in maniera subdola nel carro); superata quella minaccia, ecco un nuovo grave inconveniente, cioè ancora l'Impero (l'aquila) ma non più in veste di persecutore bensì quale corrompitore mercé donazioni di poteri temporali (le penne lasciate); forse - è un avverbio usato in questa occasione da D. - agì in buona fede (anche in Pd XX 55 si parla di tale retta intenzione), tuttavia le conseguenze furono disastrose, ed è superfluo citare la famosissima apostrofe di If XIX 115 ss.: Ahi, Costantin, di quanto mal fu matre, o discutere della valutazione che D. diede del celebre falso medievale circa la donazione dello stesso imperatore. Siamo sempre in un ordine di idee e in una serie di avvenimenti che sono intrecciati con l'ecclesiologia 963 dantesca e ci aiutano a intenderla meglio, a valutarla nella sua esatta prospettiva storica e dottrinale.
I guai non sono ancora terminati: dopo le persecuzioni, le eresie, le donazioni tentatrici, ecco gli scismi, tra i quali D. - come gli altri uomini del Medioevo - metteva anche il sorgere dell'Islamismo (e infatti Maometto è posto in If XXVIII 30 ss. tra i seminatori di scandali), ma soprattutto ecco le tristi conseguenze della temporalizzazione del clero, la deformazione radicale dei suoi compiti sacerdotali. È il punto più basso e vergognoso della decadenza, è la parodia stessa delle funzioni sacre e delle regole morali, tanto è vero che i sette sacramenti (o le sette virtù, tre teologali e quattro cardinali) e i dieci comandamenti diventano i vizi capitali e riprendono pari pari la figurazione apocalittica della bestia " plenam nominibus blasphemiae " (Apoc. 17, 3). Quanto alla meretrice, essa non poteva essere che la curia romana, come andavano ripetendo tutti gli scrittori spirituali del tempo di D. e come aveva già previsto s. Giovanni nelle sue visioni, adoperando senza perifrasi e mezzi termini le formule più crude e le immagini più spinte; D. mescolò con somma libertà libri biblici e libelli ereticali, nozioni tradizionali e riferimenti più contingenti senza legarsi ad alcun autore specifico. Però sono indiscutibili le sue conoscenze degli scritti di Pietro di Giovanni Olivi, un francescano provenzale che visse a lungo a Firenze e insegnò in Santa Croce proprio negli anni in cui D. frequentava - a sua stessa testimonianza - le scuole de li religiosi (Cv II XII 7), né si può dimenticare un condiscepolo del poeta alla scuola dell'Olivi, Ubertino da Casale - menzionato in Pd XII 124 - autore di un Arbor vitae crucifixae, uscito nel 1305, che riprendeva ancora una volta la battaglia anticuriale e la simbologia apocalittico-gioachimita (intorno alla quale, e ai suoi richiami ecclesiologici e storici, non va neppure trascurato il Liber figurarum scoperto dal Tondelli e recante impressionanti parallelismi pittorici con le immagini poetiche create da D. nel canto di cui trattiamo e in tutto il corso della Commedia).
Infine il gigante non può essere altri che il re di Francia, anzi si tratta personalmente di Filippo IV il Bello, che sostenne una lunga lotta con Bonifacio VIII, stigmatizzata in Pg XX 86-87 con i noti versi: veggio in Alagna intrar lo fiordaliso, / e nel vicario suo Cristo essere catto, un altro esplicito tocco all'ecclesiologia dantesca da affiancare al monito di Pd V 76-77 Avete il novo e 'l vecchio Testamento, / e 'l pastor de la Chiesa che vi guida; fu Filippo infatti a far trasportare la sede pontificia in Avignone per averla meglio sotto il suo controllo e influenzarla a suo piacimento.
Elevandoci dai particolari, potremmo conchiudere - confortati dai più recenti e autorevoli dantisti che hanno toccato questo argomento - che, componendo gli ultimi canti del Purgatorio, D. dimostrava di non avere fiducia in altre forze storiche fuori della C. cattolica e di ritenere che essa solamente potesse recare la salvezza anche temporale all'umanità; d'altronde D. stesso, per bocca di Beatrice, dichiarava davanti a s. Giacomo: La Chiesa militante alcun figliuolo / non ha con più speranza (Pd XXV 52). Quale crisi spirituale sia sopravvenuta nel giro di pochi anni (tra il 1313 e il '16 press'a poco), quale faticoso processo intellettuale abbia compiuto D. non importa adesso esaminare in dettaglio, ma il risultato evidentissimo fu che nell'attenzione di lui venne dato un posto assai più rilevante alla C. e ai problemi ecclesiologici, mentre in precedenza egli li ignorava o li guardava solo in relazione al fatto politico imperiale; componendo la Commedia lo stato d'animo è completamente diverso e, diciamo pure, antitetico, la preoccupazione dominante in D. è quella di fare leva sulla sancta ecclesia per mettere fine alla corruzione in cui è caduto il mondo (benché la C. stessa sia a sua volta gravemente colpevole e necessiti urgentemente di riforma e miglioramento interni; ma questo è un altro discorso da fare più avanti). Alla luce di tale programma restano ridimensionati anche altri punti centrali del pensiero dantesco, per esempio la missione di Roma, la cui gloria diventa assai più ecclesiastica che civile come ben testimoniano i versi di If II 22 ss. la quale e 'l quale [l'Impero romano] ... / fu stabilita per lo loco santo / u ' siede il successor del maggior Piero. Roma, unificato il mondo per rendere più facile la diffusione dei benefici della redenzione cristiana e assicurata la pace in terra, diventava la sede legittima della C., era la città santa dalla quale comandava il capo della nuova religione; forse quando Beatrice rimproverò D. di essere caduto in vari errori volle rammentargli anche le sue false dottrine ghibelline, cioè l'avere atteso dall'Impero una rigenerazione dell'umanità che poteva venire soltanto per altre vie e con nuovi fattori. Ciò conferma ad abudantiam che il messaggio della Commedia è religioso, che D. era trapassato dall'Aquila alla Croce (pur conservando per il sacrosanto, benedetto segno ammirazione e deferenza ma distaccandosi da ogni passione politica per immergersi nel misticismo della fede).
Per precisare ancor meglio questo concetto essenziale si può dire che la Commedia fu scritta sotto l'impulso di un'esperienza spirituale vera e propria, quando D. era in una tensione apocalittica che gli faceva già delineare i caratteri della futura società, rinnovata politicamente ed ecclesiasticamente, senza svalutare o respingere i valori mondani della humana civilitas né l'idea di cui Roma antica era stata portatrice, bensì sintetizzando mirabilmente tutto e dimostrando che non ci sono fratture nella storia, ma vi è il coronamento di un disegno divino già da molto tempo in atto. Era stato Virgilio - dopo che per lungo silenzio parea fioco (If 163) - a fare intendere a D. la provvidenzialità della conquista romana al di là della violenza dei singoli episodi e delle apparenti ingiustizie, perché attraverso quello strumento inadeguato si gettavano le basi della costruzione duratura e perfetta della C. di Cristo. Ammesso un fine trascendente, tutto il corso plurisecolare dell'umanità trovava una spiegazione e assumeva un significato, come poteva confermare anche s. Agostino, un autore forse troppo trascurato quando si cerca di conoscere la formazione culturale, religiosa, ecclesiologica di D., invece importantissimo, specialmente per il suo De Civitate Dei, che è appunto un trattato ‛ de ecclesia ' nei limiti e forme che potevano essere accettati e applicati allora.
Nel poema D. delineò una " storia ideale eterna " (l'espressione vichiana è quanto mai pertinente in questo caso) secondo uno schema storiografico che riusciva a mettere in fila il primo peccato e le virtù naturali, l'età antica e il tempo della redenzione, il sapere razionale e la rivelazione, la politica e la religione; ma nel suo complesso l'umanità restava illuminata 964 solamente dalla C., perché questa continuava il mandato divino e lottava per la diffusione della verità avanzando organizzata come un esercito. La Commedia diventava in tal modo un " Itinerarium mentis in Deum " che considerava ogni atto e persona nella prospettiva dell'eternità, ossia - per usare un linguaggio attuale - D. dava un significato escatologico alla storia facendone una " storia della salvezza " o il " tempo della Chiesa ", con piena aderenza alle più autentiche e valide impostazioni ecclesiologiche cattoliche tradizionali.
Di suo, più personale e caratteristico, D. aggiungeva invece l'insistenza sulle deviazioni verificatesi in quella stessa storia ecclesiastica di cui riconosceva l'importanza e la peculiarità; la " storia ideale " sopra indicata risultava, a suo avviso, assai meno rettilinea e positiva di quello che si poteva immaginare perché la temporalizzazione della C. aveva rotto l'equilibrio, e i depositari del soccorso divino offerto agli uomini per la loro salvezza perdevano il tempo e s'infangavano occupandosi di questioni che non erano degne di loro quando non erano senz'altro immorali o disoneste. Erano la sincera fede e l'incrollabile adesione al cattolicesimo che portavano D. ad assumere un atteggiamento - che a quei tempi appariva molto meno strano o urtante o irrispettoso di quello che poi fu in altre epoche e situazioni - per nulla cordiale e deferente verso la gerarchia ecclesiastica o a mettere in discussione alcune prerogative del clero; tuttavia anche a tale proposito bisogna andare assai cauti prima di emettere giudizi globali su tale materia. Infatti, senza stare a menzionare i dissidi e gli urti che erano all'ordine del giorno nella vita delle città e dei comuni medievali in materia di giurisdizione e privilegi goduti dal clero e rivendicati dai laici, basta fare riferimento a una ben individuata letteratura satirica, alle stesse prediche che amavano sferzare le colpe dei sacerdoti, falsi ministri di Dio; alla lor volta le scomuniche e gl'interdetti lanciati con troppa facilità da pontefici e vescovi facevano perdere loro ogni efficacia o consistenza reale, tanto che è sicuro che l'impressione suscitata oggi da un gesto del genere sarebbe inversamente proporzionale al livello medio della pratica religiosa odierna nei confronti di quella del tempo di Dante. Insomma, gli audaci enunciati polemici coinvolgenti il potere degli ecclesiastici e i loro rapporti con i laici non avevano, neppure nelle intenzioni dei loro autori, il valore di dichiarazioni di principio; di conseguenza non dobbiamo stupirci delle affermazioni dantesche quasi fossero un, ‛ unicum ', arrivassero a posizioni estremistiche; il difetto è nostro, che non abbiamo più l'abitudine di leggere le pagine dei suoi contemporanei (che furono anche gl'ispiratori del suo pensiero e atteggiamento).
Le precisazioni precedenti nulla tolgono al valore delle celebri invettive di D., ai suoi accorati appelli, alla sua sofferta ansia di perfezionamento ecclesiale, ma offrono per lo meno la chiave esatta per una loro interpretazione nello spirito di chi le ha proferite: era un intento apostolico che muoveva D., non un guizzo di ribellione; egli aveva l'anima del paladino, non del ribelle; era inflessibile nelle condanne, però si premurava di vedere restaurata in tutta la sua bellezza la vigna che era stata guastata, non intendeva affatto saperla definitivamente spiantata. Le citazioni sono abbondantissime e assai note, tuttavia non può essere taciuta del tutto l'intemerata di s. Pietro in Pd XXVII 40-66, sia per l'autorevolezza di chi la pronuncia sia per la lunghezza e precisione dell'analisi dei mali ivi compiuta; inoltre conviene citare l'Ep XI ai cardinali - specialmente a quelli italiani - diretta da D. a quegli autorevoli membri della gerarchia ecclesiastica tra la morte di papa Clemente V (aprile 1314) e l'elezione del successore, Giovanni XXII, avvenuta oltre due anni dopo. È un documento importantissimo per conoscere l'ecclesiologia dantesca nell'ultima fase della sua vita: iniziando con un lamento del profeta Geremia, egli piange per l'abbandono di Roma, cui, post tot triumphorum pompas, et verbo et opere Christus orbis confirmavit imperium, quam etiam ille Petrus, et Paulus gentium praedicator, in apostolicam sedem aspergine proprii sanguinis consecravit (§ 3). I cardinali, che sono Ecclesiae militantis veluti primi praepositi pili (§ 5), hanno agito male portando il carro della C. - le solite immagini che ritornano sotto la penna di D. - fuori della sua strada e gettando il gregge loro affidato nel precipizio; D., pur essendo una delle ultime pecorelle di Cristo, osa parlare in difesa della C. pericolante perché vuole farsi interprete di tutti i cristiani in un'ora mortale per la madre Chiesa.
Egli sentiva con piena consapevolezza di avere una missione, ardita e pericolosa ma urgente e indispensabile - è il motivo tematico della Commedia, come abbiamo sottolineato più sopra -: quella di pronunciare alcune dure verità nei confronti della C. stessa, ma in vista di una restaurazione religiosa, che egli riteneva fosse un'opera santa e provvidenziale. L'epistola termina con la rinnovata esortazione a combattere pro Sponsa Christi, pro sede Sponsae quae Roma est (§ 26), e per tutta la società umana peregrinante sulla terra e destinata al cielo. È stato acutamente osservato dal Passerin, non soltanto che questa è " la più grande delle epistole dantesche ", ma soprattutto che " essa ci prova senza possibilità di dubbio che la Chiesa, e non lo Stato, è divenuta ormai la maggiore preoccupazione di Dante "; lo stesso Passerin mostra le numerose espressioni presenti qui e nel poema, che creano un notevole parallelismo di pensiero e di forma tra i due scritti danteschi.
Sembra, dunque, lecito conchiudere che il senso ecclesiale fu vivissimo in D., specialmente nell'ultimo periodo della sua esistenza; la vita beata, la vita felice - da lui più volte presentata come meta ideale dell'uomo (e anche in questo egli era agostiniano) - non soltanto assumeva una colorazione spiccatamente religiosa nelle sue opere più tarde, ma per esplicite dichiarazioni era unicamente la C. ad avere il potere di prepararla e donarla con i mezzi appropriati di cui disponeva. Qui si potrebbero indicare i sommari accenni danteschi ai sacramenti, dal battesimo, che è quello più ricordato varie volte (If IV 35), all'eucarestia (Pd XVIII 129), dall'ordine (Pg XXIX 50; ma l'allegoria dei candelabri è dubbia) alla penitenza, di cui si tratta ovviamente spesso e in dettaglio nella Commedia. Più di ogni altra cosa è nelle mani della C. la Sacra Scrittura, che è il fundamentum fidei ma che ha bisogno di essere spiegata agli uomini dall'autorità ecclesiastica per guidare alla salvezza; in special modo è il pontefice ad additare a tutti la ‛ strada de Deo ', essendo il custode e l'interprete della rivelazione divina contenuta nel libro sacro.
È sintomatico che, in un'epoca storica qual era il secolo XIII - e ancor più il successivo - che già vedeva messa in dubbio la distinzione di clero e laicato nell'interno della società religiosa e che fortemente criticava non tanto i singoli chierici ma il sacerdozio come tale, in quanto cioè era una categoria dotata di speciali doni e poteri (si può dire che tutta la polemica ereticale del basso Medioevo poggia su siffatti concetti ed enunciati), D. non abbia mai messo in forse tale dicotomia e non abbia concepito in alcun modo possibile un ‛ sacerdozio dei fedeli ' almeno nel significato eterodosso dell'espressione. In altri termini, là dove finora abbiamo parlato di poteri e compiti della C., dobbiamo più concretamente dire che erano gli ecclesiastici, i sacerdoti, ad avere la missione divina di guida spirituale dell'umanità, erano essi ad assolvere un compito storico essenziale e benefico, stava in loro la custodia e l'amministrazione, il giudizio e la decisione di quanto concerneva il supremo destino dell'uomo. D'altronde anche questa posizione di D. verso il clero rientra nel tipo di religiosità da lui preferita, che - come è stato più volte osservato - è più affine a quella veterotestamentaria che a quella evangelica: Dio è visto da lui come giustiziere e come inebriante verità ancor più che padre amoroso e compagno di strada; l'incarnazione del Figlio è avvertita nel suo valore teologico, assai meno però nella profonda umanità contenuta in quel gesto; la C. è in primis una conseguenza del peccato, uno strumento di redenzione, e poi è madre e comunità (non si può mancare di ricordare che nella lunga spiegazione di Pd VII 35-120 sui motivi dell'incarnazione, nulla è detto sulla continuazione dell'opera salvifica del Cristo nella sua Chiesa). In tale contesto i sacerdoti ministri di Dio sono il polo positivo del rapporto tra decadenza e rigenerazione, tra disordine e restaurazione.
Ma a questo punto si ritorna al solito discorso: D., per la profonda e salda convinzione nutrita intorno alla funzione della C., elevò terribili accuse contro ogni deviazionismo e manchevolezza da parte degli ecclesiastici. Avendo già detto qualcosa in argomento, si può procedere e chiederci: quale fu la causa dei mali macroscopicamente constatabili al tempo di D.? dove stava la ragione prima del grave peggioramento che ormai dilagava un po' dappertutto? Nella risposta a tali interrogativi sono contenuti altri importanti coefficienti dell'ecclesiologia dantesca, e una retta comprensione del tema aiuterà a far superare alcune apparenti contraddizioni in cui sembra che sia caduto il poeta, ora dando prove manifeste della reverenza de le somme chiavi (If XIX 101), della vostra [dei pontefici] dignitate (Pg XIX 131), ora invece parlando di pastor sanza legge (If XIX 83), di usurpatori, ecc.
La cagion che 'l mondo ha fatto reo (Pg XVI 104) è l'avere giunta la spada / col pasturale (vv. 109-110), ossia - come si legge in Mn III X 14, che a tal proposito conserva tutto il sub valore anche se D. ha cambiato parere in altri settori -: Ecclesia omnino indisposita erat ad temporalia recipienda per praeceptum prohibitivum expressum, ut habemus per Matheum. Che sia stata la donazione di Costantino a creare tale confusione e a provocare tanti inconvenienti è per D. un dato sicurissimo, ma dopo quel primo errore se ne sono accumulati tanti altri dovuti ai sacerdoti, i quali, mentre avevano avuto da Dio la prerogativa di godere un'autorità nell'ambito spirituale, si arrogarono anche quella di porre mano alle leggi, di esercitare la giustizia terrena, di sostituirsi ai legittimi poteri. In una parola, il clero ebbe la ‛ cura temporalium possessionum ', che era un male non tanto per ‛ la possessio ' in sé quanto per la ‛ cura ', l'affanno che inevitabilmente portava seco.
E D. continuava: 'l pastor che procede, / rugumar può, ma non ha l'unghie fesse (Pg XVI 98-99): può cioè illustrare la Sacra Scrittura, perché possiede la scienza divina, ma vi è in lui un'insufficienza intrinseca per quello che concerne il temporale, non avendo egli la piena potestà ecclesiastica e civile unite, come avviene solamente in Dio. Anche la celebre promessa di Cristo: Et quodcunque ligaveris super terram... (Mn III VIII 1; cfr. Matt. 18, 18) si riferisce, a parere di D., all'offitio clavium regni coelorum (Mn III VIII 10), non a una facoltà di sciogliere tutto, perché questo sarebbe un male e recherebbe nocumento alla vita quotidiana dei singoli e dell'intera società, come D. illustra con vari esempi; al pontefice pertanto il cristiano deve rispetto e obbedienza perché è il vicario di Cristo e successore di Pietro, nondimeno a lui non quicquid Cristo, sed quicquid Petro debemus (III 7), e poco più oltre D. ripete: successor Petri potest [" ha tanto potere "] quicquid Petrus potuit (VIII 3), ossia meno del potere posseduto da Dio stesso e dal suo Figlio.
D. sapeva benissimo che, assumendo siffatta posizione, si metteva in aperta polemica con i fautori della ierocrazia, molto diffusi al suo tempo, ma oggi a noi consta anche che essi erano esponenti di una ‛ opinio modernorum ', cioè fuori della linea tradizionale cattolica risalente almeno a papa Gelasio i (492-496), e che quell'indirizzo era un prodotto delle speciali condizioni in cui il pontificato era venuto a trovarsi tra il XII e il XIV secolo, ma esagerava le premesse dottrinali sulle quali l'istituzione si fondava, anzi le deformava con grave pericolo e danno per la causa che quei difensori a oltranza intendevano sostenere in buona fede e con sincero entusiasmo. Altri, autori coevi a D. (per esempio il Giovanni da Parigi studiato dal Leclercq) erano invece in un ordine d'idee assai più moderato e fecondo.
Nella sua polemica D. distinse sempre il pontefice stesso - indotto ad avanzare quelle pretese zelo fortasse clavium - dai suoi troppo audaci alleati, come distinse tra alii gregum cristianorum pastores (forse gli agostiniani Egidio Romano e Giacomo da Viterbo, che furono arcivescovi, e altri scrittori politici ‛ teocratici ' anch'essi rivestiti della dignità episcopale) ed alii quos credo zelo solo matris Ecclesiae promoveri; esistevano infine quidam alii, che si dicevano figli della C., ma erano (secondo D., naturalmente) privi del lume di ragione, indemoniati e ribelli (cfr. Mn III III 7 ss.). Ma il contributo più nuovo e interessante recato in proposito da D. risiede nella sua presa di posizione contro i decretalisti, perché, facendo perno su quel punto, egli finì con il presentare come valida e a lui gradita una concezione della C. diversa da quella corrente al suo tempo e più conforme ai vecchi schemi ecclesiali. Per questo l'Evangelio e i dottor magni / son derelitti, e solo ai Decretali / si studia (Pd IX 133-135); lo mondo, per cui mo s'affanna / di retro ad OstÏense e a Taddeo (XII 82-83); inoltre, in parecchi passi della Monarchia e delle Epistole. D. è troppo insistente ed esplicito per non riuscire a convincerci che aveva un obbiettivo preciso nei suoi attacchi, la critica dei decretalisti, i quali - si noti - non erano tutti gli studiosi del diritto canonico (il maggiore dei secondi, Graziano, è onorato insieme ai grandi dottori della scolastica: Pd X 104), ma soltanto quei commentatori delle bolle pontificie, ignoranti di teologia (la ‛ sacra doctrina ' dei medievali), litigiosi (invece la teologia non soffera lite alcuna, Cv II XIV 19), esclusivisti e - a suo parere - mezzi eretici, perché altezzosamente asserivano traditiones Ecclesiae fidei fundamentum (Mn III III 10); invece, come già si disse, per D. Post Ecclesiam... sunt traditiones quas ‛ decretales ' dicunt ( § 14), mentre il verace fondamento della fede risiede esclusivamente nel Vangelo dato da Cristo agli Apostoli (Pd XXIX 109-111); posporre le tradizioni umane alla divina Scrittura è un grave torto e, pur non negando che le decretali auctoritate apostolica sunt venerandae, nessuno può ritenere che siano da anteporre fundamentali... Scripturae (Mn III III 14).
Ci troviamo così nel cuore di un contrasto che divise nella seconda metà del Duecento dottori e religiosi e armò ciascuna delle parti con argomenti sottili e vasta erudizione; D. si schierò decisamente a favore dei teologi, perché comprese che i giuristi arrivavano inevitabilmente a sostenere nuove teorie anche in campo politico e civile, trasformavano la supremazia sacerdotale in una superiorità clericale temporalistica, fuorviavano la gente che dovrebbe esser devota (Pg VI 91) secondo il preciso ordine dato da Dio ai chierici, di occuparsi solo di cose spirituali.
A questo punto, inevitabilmente, s'introduce il discorso sul pensiero dantesco circa le relazioni tra la C. e lo stato, e in particolar modo l'Impero, che è un tema molto importante, dibattuto, poliedrico, del quale in sede di ecclesiologia sarà sufficiente fare cenno da un particolare angolo visuale, che ora cercheremo d'illustrare. A differenza di quanto si riteneva un tempo, ormai tutti i migliori studiosi sono d'accordo che nella concezione globale del mondo e della vita accolta da D. " la politica non può esaurientemente discutersi staccandola dalla religione " (Passerin), ovvero che " le teorie politiche di D., come esse vengono talvolta ambiguamente chiamate, erano parte integrante del suo credo religioso " (Moore), ovvero ancora: " la politica è un momento della sua meditazione sulla vita, la provvidenza, l'uomo " (Vinay); insomma " per il nostro Poeta non si tratta già della piccola politica ma dell'ordinamento voluto dalla Provvidenza perché l'umanità viva secondo richiede la sua natura in questo mondo e si prepari alla beatitudine eterna dell'altro " (Barbi). Pertanto anche in questa sede - studio del concetto e della funzione della C. in D. - si può trattare di quello che per comodità continueremo a chiamare il pensiero politico dell'Alighieri, pur sapendo che è piuttosto un momento del suo processo intellettuale e morale di chiarificazione da inserire nell'intera storia della sua personalità spirituale.
Se nella Monarchia l'uomo era guardato come ‛ cive ' ed erano tenute presenti anzitutto le esigenze di un ordine terreno universale retto da un monarca al quale D. attribuiva gli stessi titoli che il Vangelo applica al Cristo (II I, III), nella Commedia il tono è del tutto differente e il mondo si ricompone a unità, ma nel segno della supremazia religiosa e, quindi, della Chiesa. Ciò nondimeno D. ripeté che la distinzione tra i due sommi poteri doveva rimanere e che le relazioni tra loro dovevano essere quelle che corrono tra duo luminaria magna (Mn III 15 Pg XVI 106 Soleva Roma, che 'l buon mondo feo, / due soli aver); era mutata però la giustificazione di fondo delle rispettive indipendenze di azione tra la C. e lo stato, indipendenza esistente non più a motivo dell'autonomia della ragione umana, ma perché Dio stesso aveva fatto divieto - come già dicemmo - agli uomini di C. di occuparsi delle cose mondane, ciò che portava con sé che ad esse pensasse un'altra autorità, quella politica statale temporale.
La C. e l'Impero rimanevano, pertanto, i due rimedi al peccato dati dalla provvidenza per sanare quel tanto d'infermità che durava ancora nella specie umana malgrado la redenzione portata da Cristo; erano la vendetta del peccato antico (Pd VI 93), secondo una nozione agostiniana che sopravviveva nel pensiero di D. accanto a quella della missione universale dell'Impero sul piano naturale; ma ciascuno di essi aveva il suo fine da raggiungere e impiegava mezzi propri: guai se un sole spegneva l'altro, o se il pontefice si sostituiva all'imperatore, o se consentiva che una ‛ guida ' vacasse ne la presenza del Figliuol di Dio (XXVII 24). D'altronde, dal " Date a Cesare " evangelico al " Duo quippe sunt " di papa Gelasio I, la separazione delle due supreme potestà mondiali, la reciproca indipendenza nella rispettiva sfera di azione e la subordinazione ratione finis del ‛ primogenito ' ‛ al padre di famiglia ' (Mn III XV) erano una costante della tradizione dottrinale cattolica in tal materia, e D. né scopriva alcunché né si opponeva alla ‛ communis opinio '.
Invece la controversia poteva nascere e vertere su quella che allora veniva chiamata la ‛ potestas directa in temporalibus ', rivendicata dai curialisti e respinta non solo dai regalisti e dai difensori dell'Impero ma anche da pensatori - come D. - che restavano aderenti alle concezioni tradizionali: nella sua fervida aspirazione alla pace da raggiungersi mediante l'accordo delle massime autorità mondiali, D. fu decisamente antiierocratico e volle riportare la C. alla sua missione spirituale. Tuttavia egli non ritenne mai che la temporalizzazione di essa - iniziata con la donazione di Costantino - fosse assimilabile alla colpa di Adamo e richiedesse a sua volta, come il peccato originale, un nuovo redentore (il Veltro?), dando vita a un'umanità salvata dall'Aquila contrapposta a quella liberata dalla croce di Cristo. Nessun testo dantesco consente tali conclusioni - che sovvertirebbero tutta l'ecclesiologia ortodossa e, quindi, di D. - e se le invettive e i rimproveri contro gli atteggiamenti non degni di coloro che sono sacerdoti si ripetono, in tutta la Commedia, aspri e frequenti, una lettura spassionata dimostra che egli era sicuro che un ritorno all'ordine voluto da Dio (C. e Stato nei loro rispettivi settori in una collaborazione che non provocasse invadenze o manomissioni reciproche) avrebbe fatto funzionare tutto a dovere, con vantaggio universale.
L'Impero non poteva arrogarsi facoltà che andavano oltre i suoi doveri, però poteva (e doveva) mettere la C. nelle condizioni migliori perché essa svolgesse la sua specifica funzione salvifica e deificante; " assicurare la redenzione dell'uomo è una responsabilità che tocca alla Chiesa ", e il " conseguimento di quella mèta " è un compito al quale attendono gli ecclesiastici qualora 967 siano liberi da cure materiali, viga nell'universo la giustizia, gli avversari di Dio siano puniti, ecc. (Passerin). Il miglior esempio d'imperatore consapevole e capace, è offerto da D. nella figura di Giustiniano, che si fece illuminare dal papa, riportò l'Impero in Italia, arricchì l'istituzione di valori spirituali, assicurò la pienezza della giustizia e diede agli uomini il massimo di felicità che è loro concessa in terra: Tosto che con la Chiesa mossi i piedi, / a Dio per grazia piacque di spirarmi / l'alto lavoro, e tutto 'n lui mi diedi; / e al mio Belisar commendai l'armi, / cui la destra del ciel fu sì congiunta, / che segno fu ch 'i ' dovessi posarmi (Pd VI 22-27).
Ma Giustiniano fu tanto esaltato da D. perché egli lo vide come l'anti-Costantino per eccellenza, quindi bisogna volgersi adesso a considerare quest'altro imperatore, che venne bensì messo nell'occhio dell'Aquila, nel cielo sesto di Giove (Pd XX 55 ss.), ma che egli considerò distruttore dell'impero (Mn III X) e contro il quale lanciò taglienti giudizi (per cedere al pastor si fece greco, Pd XX 57); come al solito, ci limiteremo a considerare le conseguenze degli atti di Costantino nella vita della C. e l'influenza da lui esercitata nella maniera d'intendere la natura e l'opera della società ecclesiastica cattolica.
La donazione - sull'autenticità della quale D. non elevò mai dubbi malgrado che già altri ne avesse intuito la falsificazione; negò invece risolutamente il valore giuridico dell'atto - fé mal frutto (XX 56) e provocò un grave danno per tutti soprattutto perché diede agli uomini di C. l'occasione di occuparsi delle cose di questo mondo contro il precetto evangelico che fissava la loro essenziale finalità di ordine spirituale e religioso. Anzi, in If XIX 116-117, D. adopera un sostantivo e un verbo quali dote e prese che fanno supporre che la colpa sia tutta dei sacerdoti che trasformarono la dote (un capitale messo a disposizione, un usufrutto posto in mano a un dispensatore di carità verso i poveri, insomma uno strumento benefico che si sarebbe dimostrato utile per i bisognosi se fosse stato impiegato opportunamente) in una vera cessione, cioè in un passaggio totale di proprietà, e s'impadronirono di quel bene andando oltre l'intenzione del donatore; colsero cioè una fortunata circostanza per fare del male, trasformando maliziosamente i propositi di colui che aveva fatto ricco un pontefice, senza però dargli il dominio sovrano sopra un territorio. Comunque sia, gli effetti della donazione furono disastrosi, e la leggenda raccontava che, in quell'occasione, si era udita una voce dal cielo che ammoniva: " Hodie infusum est venenum in ecclesia Dei "; D. prestò tanta fede a quel racconto fantastico che lo ripetè in Pg XXXII 127-129 e qual esce di cuor che si rammarca, / tal voce uscì del cielo e cotal disse: / " O navicella mia, com' mal se' carca! ". Così si coglie alla sorgente il male di cui la C. soffriva da tempo, la causa delle simonie dilaganti, dei nepotismi ciechi, delle deroghe alle rigidità monastiche, delle mollezze di vita e delle infinite altre vergogne ecclesiastiche bollate quasi in ogni canto della Commedia.
L'argomento di questa voce non può dirsi esaurito se non si fa presente - almeno per memoria - che resterebbe da menzionare quanto concerne le relazioni di D. con gli uomini di chiesa a lui contemporanei, i contatti che egli ebbe con personaggi di quell'ambiente altolocati o minori, di grande virtù o peccatori, eretici od ortodossi; inoltre sono molte le notizie da lui fornite su avvenimenti di storia ecclesiastica del suo tempo svoltisi al centro della cristianità o in periferia, con protagonisti illustri o modesti. Tuttavia tale analisi, che qui non può essere compiuta in dettaglio, non ha molta importanza ai fini di una comprensione del problema ecclesiologico che ci ha principalmente occupati e la conoscenza di quei dati - pur arricchendo la nostra cultura con informazioni preziose - resterebbe marginale, frammentaria, insoddisfacente; il nucleo del tema - a nostro giudizio - è ben altro, concernendo la coscienza ecclesiale di D., l'idea che egli si era fatta dell'essenza e attività della C. cattolica, il posto e il fine da lui assegnati a quell'istituzione; ed è un tema che, salvo errore, nell'immensa bibliografia sull 'Alighieri non ha avuto ancora fino a oggi il dovuto rilievo.
Bibl. - G. Poletto, La C. nel concetto di D., Torino 1876; M. Barbi, Con D. e i suoi interpreti, Firenze 1941; A. Passerin D'Entrèves, D. politico e altri saggi, Torino 1955; R. Manselli, La " lectura super Apocalipsim " di Pietro di Giovanni Olivi, Roma 1955; R. Montano, Suggerimenti per una lettura di D., Napoli 1956; M. Barbi, L'ideale politico religioso di D., in Problemi fondamentali per un nuovo commento della D.C., Firenze 1956, 49-68; R. Montano, Introduzione a D., Napoli 1959; B. Nardi, Dal Convivio alla Commedia, Roma 1960; P. Brezzi, Analisi e interpretazione del " De civitate Dei " di S. Agostino, Tolentino 1960; A. Pincherle, La storia della C. antica nella D.C., in Raccolta di scritti in onore di A.C. lemolo, IV, Milano 1960; G. Petrocchi, La letteratura religiosa dal Duecento al Quattrocento, in La Chiesa cattolica nella storia dell'umanità, I, Fossano 1964, 319-359; P. Brezzi, Saggi di Storia cristiana ed ecclesiastica, II, Napoli 1966; ID., Il volo dell'Aquila romana (Paradiso c. VI), in " Studi Romani " XII (1964) 151-163; ID., D. e la C. del suo tempo, in D. e Roma, Firenze 1965, 97-113; A. Frugoni, D. e la Roma del suo tempo, ibid. 73-96; R. Manselli, D. e l'" ecclesia spiritualis ", ibid. 115-135; P. Brezzi, Il canto VI del Paradiso, in Lect. Scaligera III 175-216; si veda inoltre D.A., La Monarchia, a c. di G. Vinay, Firenze 1950.