FREGOSO (Campofregoso), Cesare
Nacque probabilmente nel 1502, figlio di Giano, fuggito a Roma nel 1488 da Genova in seguito a uno dei frequenti conflitti tra le fazioni, e della patrizia corsa Ardabella da Leca. Avviato alla carriera militare dal padre, che si trovava al servizio dei Veneziani dal 1514, avrebbe assistito alla battaglia di Marignano (13-14 sett. 1515) come paggio del celebre Bartolomeo d'Alviano. Ottenuto il primo comando dai Veneziani nel 1524, il F. si distinse combattendo i Francesi nel Milanese.
Accanto alle qualità militari, si manifestarono precocemente anche le sue ambizioni su Genova, che dopo convulse vicende politiche - tra cui anche un breve dogato del padre Giano tra il 1512 e il 1513 - era stata, nel 1522, conquistata da eserciti imperiali, saccheggiata e consegnata agli Adorno, rivali dei Fregoso. L'adesione di Venezia alla Lega antiasburgica di Cognac e l'inizio della guerra, nel 1526, offrivano un quadro favorevole: ma l'occasione si presentò solo all'arrivo in Italia, nell'estate 1527, dell'esercito francese al comando di O. de Foix, signore di Lautrec. Così, alla metà di agosto, al F., che aveva combattuto con alterni successi nei mesi precedenti nel Milanese e nel Veronese, fu affidato il comando di una spedizione francoveneta contro Genova, stretta nel contempo dal mare dalle flotte di Pedro Navarro e di Andrea Doria.
L'apertura di un secondo fronte parve facilitare il successo dell'impresa: dopo la cattura della flotta genovese e la conquista dell'importante approdo di Portofino da parte di Andrea Doria, i Genovesi si arresero e il Lautrec incaricò il F. di prendere possesso della città a nome di Francesco I. Tuttavia, quando il grosso dell'esercito francese si diresse verso il Milanese, gli accordi furono rinnegati e il F. dovette subire una sortita dei Genovesi. Superate con freddezza le prime difficoltà, il F. seppe tuttavia capovolgere la situazione e il 18 ag. 1527 fu accolto pacificamente in Genova.
La vittoria ebbe l'effetto di inanimare la fazione del F., che cercò di imporre il padre Giano come governatore in luogo del doge fuggito, Antoniotto Adorno. Ma Francesco I, secondo i suggerimenti delle famiglie Fieschi, Adorno e Doria, nominò a quella carica un proprio generale, Teodoro Trivulzio. Per qualche giorno si rischiò un tumulto. Poi però il F. cedette, lasciando la città con le forti somme ricevute in premio.
In autunno, egli seguì l'esercito francese negli assedi di Alessandria e Pavia. Ma quando, all'inizio del 1528, il Lautrec si diresse a Sud contro il Regno di Napoli, il F. rimase al seguito degli eserciti della Lega in inconcludenti operazioni, nella Lomellina e nel Bresciano. In settembre il Senato veneto gli affidò il comando del presidio di Cervia e Ravenna (con 1.200 ducati annui di stipendio), che, conquistate a papa Clemente VII nel 1527, venivano ormai reclamate con insistenza. Ma il F. era preso dai nuovi scenari genovesi: infatti, Andrea Doria, passato nel campo di Carlo V, aveva scacciato il Trivulzio e sancito l'allontanamento della sua famiglia dalle cariche di governo. Prima che la situazione a Genova si consolidasse, il F. propose ripetutamente a Venezia, ma senza trovare ascolto, un'azione di forza: così, tra il 1528 e il 1529, passò segretamente agli stipendi di Francesco I, fornendo informazioni sulle ambigue mosse diplomatiche della Serenissima.
Nel giugno 1529, dopo la discesa in Italia di un nuovo esercito francese, al comando del conte di Saint-Pol, François de Bourbon, l'impresa di Genova parve realizzabile, anche per l'assenza del Doria. Ma la sconfitta del Saint-Pol, a opera delle truppe di Antonio de Leyva il 21 giugno presso Landrino, vanificò le speranze del Fregoso.
La sua posizione, divenuta delicata con l'uscita della Francia dal conflitto (pace di Cambrai, luglio 1529), parve ancora più incerta alla morte del padre Giano, in agosto, senza grossi lasciti. Nondimeno, tramite il suo segretario M. Bandello, riuscì a ottenere dal Senato nuovi incarichi: in autunno tentò, pur con scarso successo, di ostacolare, tra Brescia e Verona, un'improvvisa calata di truppe imperiali, mentre nel gennaio 1530, sul finire delle ostilità, fu nominato governatore militare di Verona, con 2.500 ducati annui di provvisione.
Gli anni veronesi (1530-36) furono caratterizzati da un'intensa vita di corte, che il F. riunì nella dimora cittadina e nei suoi possedimenti gardesani: il Bandello, che compose in quel periodo le Tre parche, ne rammenta in alcune Novelle i fasti e i personaggi di maggiore spicco, quali F. Berni e G. Fracastoro. Vi intervenivano, nondimeno, anche G. Dolfin, influente patrizio veneziano, e i nobili veronesi Serego, partigiani dell'imperatore, che garantivano al F. gli appoggi indispensabili per muoversi in un contesto politico favorevole - dopo la pace di Bologna (1530) - a Carlo V. Un effetto di ambigua equidistanza avevano avuto anche le sue nozze con Costanza Rangoni, concluse con la mediazione del solerte segretario nell'autunno 1529, che lo avevano reso cognato di Guido Rangoni, uomo d'armi di simpatie francesi, e di Luigi Gonzaga di Castel Goffredo, capitano imperiale. Rimase tuttavia fedele servitore della corte francese alla quale trasmetteva le notizie inviategli dai corrispondenti genovesi, dai cognati e dalle spie veneziane, tra cui alcuni magistrati veneziani.
Nel 1536, quando Francesco I riprese la guerra in Italia invadendo il Piemonte, con l'obiettivo di impossessarsi del Ducato di Milano, il F. lasciò Verona, attirandosi di conseguenza il bando veneziano per diserzione. Posto a capo, col Rangoni, dell'armata italiana, concentrò nella Mirandola circa 12.000 fanti e 600 cavalleggeri e quando l'esercito si mosse, in luglio, per raggiungere in Piemonte i Francesi, tentò di sorprendere Genova, vitale punto di appoggio, in quel frangente, per la controffensiva intrapresa da Carlo V in Provenza. Ma la reazione dei cittadini fu decisa, le sperate sommosse non ebbero luogo e, alla fine di agosto 1536, il F. dovette ritirarsi.
Ricongiuntosi presso Carignano con l'esercito del Rangone, partecipò alla liberazione di Torino dall'assedio degli Imperiali, recandosi quindi a Lione, alla corte di Francesco I, che lo ricompensò, soprattutto per la segreta attività diplomatica, con l'Ordine di S. Michele. Quando in autunno passò ai quartieri d'inverno a Pinerolo, era ormai ai vertici del comando francese d'Italia, guadagnandosi per questo l'aperta ostilità di Francesco Gonzaga, il Cagnino, e Gian Paolo da Ceri.
Alla ripresa delle operazioni in Piemonte, nella primavera 1537, il F. prese Barge e Bricherasio. In estate, dopo il ritiro dei Francesi, a causa dei continui problemi logistici, passò a difendere Cherasco, che fu costretto a cedere, in agosto, all'esercito imperiale guidato dal marchese del Vasto, Alfonso d'Avalos. Questo scacco non ebbe però conseguenze sui rapporti con Francesco I, il quale, in autunno, si preparava a scendere in Italia con un nuovo esercito. Nominato luogotenente generale della cavalleria, il F. partecipò alla campagna successiva che, in poche settimane, diede ai Francesi il possesso del Piemonte, confermato dalle tregue del 1538.
Il F., le cui gesta furono esaltate dal Bandello nel quarto dei Canti XI, trasse cospicui vantaggi dalla guerra: tra il 1538 e il 1539 le sue entrate aumentarono fino a circa 6.000 scudi all'anno, contando anche cospicui donativi del re, mentre si fecero più strette le sue aderenze a corte con Margherita di Navarra e con il conestabile Anne de Montmorency. Se ne ebbe chiaro esempio allorché Pietro Aretino gli mosse l'accusa di aver fatto avvelenare, complice Luigi Gonzaga, il duca di Urbino Francesco Maria Della Rovere (agosto 1538). Fallirono infatti tutti i tentativi di coinvolgerlo nelle inchieste e Francesco I, forse non estraneo a un delitto che decapitava il comando della Lega venetoimperiale di quell'anno contro i Turchi, lo dichiarò innocente. Si giovò nello stesso periodo anche della relativa distensione delle relazioni tra Asburgo e Valois, ottenendo, per intervento della corte imperiale, la revoca del bando veneziano e la restituzione dei beni. Fissò, nondimeno, come sua dimora, la piccola corte del Gonzaga a Castel Goffredo, che divenne il centro della sua attività politica e diplomatica.
Oltre a mantenere i contatti con gli ambienti genovesi, nella mai abbandonata speranza di conquistare Genova, il F. favoriva la ripresa della politica antiasburgica di Francesco I, imperniata sull'alleanza con Solimano e sul distacco di Venezia dalla lega stretta con Carlo V. In questo quadro, ebbe un ruolo nella pace tra Turchi e Veneziani, conclusa nel maggio 1540 a caro prezzo per questi ultimi, trasmettendo in segreto all'ambasciatore francese a Costantinopoli - perché le facesse conoscere al sultano - le istruzioni per il plenipotenziario Alvise Badoer.
Il riavvicinamento tra la Serenissima e la Francia era a portata di mano: all'inizio del 1541 Francesco I, convocato il F. a Blois, gli affidò un'importante missione: guadagnare Venezia a una lega contro Carlo V o, almeno, ottenere la sua neutralità in caso di un attacco francoottomano ai domini asburgici in Italia e in Ungheria. Durante il viaggio verso Venezia, il F. doveva altresì scortare Antonio Rincón, artefice dell'amicizia con Solimano, in procinto di tornare presso la Porta.
I due diplomatici giunsero il 1° luglio 1541 a Rivoli, in Piemonte, dove incontrarono G. du Bellay, governatore di Torino, che tentò invano di dissuaderli dal compiere il tragitto navigando sul Po. Il marchese del Vasto, governatore di Milano, colse l'occasione e, nonostante il parere contrario dell'imperatore - che non intendeva correre il rischio di una rottura della tregua proprio alla vigilia della spedizione su Algeri -, ordinò una imboscata per la notte tra il 2 e il 3 luglio. Per lungo tempo si diffusero notizie contraddittorie sulla sorte dei due ambasciatori. I disegni francesi apparivano però protetti, perché le istruzioni diplomatiche erano giunte a Venezia per altra via. Al marchese del Vasto non restò che negare ogni addebito, incolpando qualche nemico personale del F., ma ben presto si chiarirono le sue responsabilità. Solo all'inizio di ottobre 1541 i corpi furono ritrovati, non lontano dal luogo dell'agguato, alla confluenza del Ticino con il Po, presso Pavia. Si diffuse il sospetto che l'Avalos, presi gli ambasciatori prigionieri, li avesse fatti uccidere e portare cadaveri sul posto.
Il F., che lasciava quattro figli, fu sepolto a Castel Goffredo, mentre Francesco I, considerata rotta la tregua, ebbe validi pretesti per riprendere, nel 1542, la guerra.
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