FEDERICI (Fedrici, De Federici, dei Fedrici), Cesare
Figlio di Girolamo, nacque ad Erbanno in Val Camonica (ora Comune di Darfo Boario Terme, in provincia di Brescia) nel 1521, come si deduce dal necrologio. Non si sa altro di lui fino a quando, nel 1563, con un capitale di 1.200ducati investito in diverse merci, non s'imbarcò sulla nave "Gradeniga" a Venezia, dove s'era presumibilmente trasferito per far fortuna esercitando la mercatura. Sbarcato a Cipro, su una nave più piccola raggiunse Tripoli di Siria, con l'intenzione di proseguire subito per Aleppo, "oltra modo desideroso - come scrive - di vedere le parti di Levante". Invece s'ammalò in casa di Regolo degli Orazi, forse di peste, come il fratello minore di questo mercante, che ne morì. L'Orazi si prese cura d'affidare la merce ad una carovana, che per la strada venne saccheggiata, lasciando al F. soltanto quattro cassoni di vetri, molti dei quali rotti. Gli erano costati 70 ducati. Con questo modestissimo capitale, arrotondato da qualche prestito, si mise in cammino per l'India. Del lungo viaggio, che si concluse col ritorno a Venezia dopo circa diciotto anni, il 5 nov. 1581, egli redasse un "mernoriale" che ce ne ha conservato la testimonianza.
L'itinerario , suggerito dalle prospettive commerciali, non è sempre facile da seguire, per la scarsa precisione delle indicazioni. Altre incertezze derivano dal fatto che per tre volte il viaggiatore fu indotto da vicissitudini varie ad abbandonare il canunino per Venezia e a tornare indietro. Da Aleppo, in compagnia di mercanti armeni e arabi, raggiunse Bīrecik, per discendere l'Eufrate su solide barche a fondo piatto, fino a Falluja, un tragitto che normalmente veniva percorso in quindici-diciotto giorni, ma che per la magra del fiume ne richiese quarantaquattro, con fastidiosi trasbordi, pagamento di dazi e continua minaccia di furti durante le soste nottume. Da Falluja in un giorno e mezzo arrivò a Baglidad, nelle cui vicinanze poté visitare la leggendaria torre di Nembrod (le rovine di ‛Aqar Quf) e proseguì per Basra, impiegando diciotto giorni di navigazione sul Tigri, su barche lunghe come "fuste" e perfettamente calafatate, con largo impiego del bitume locale.
A Basra s'imbarcò per Hormuz e da qui proseguì per Goa, fermandosi a Diu, a Kanbāyah, più a lungo, e in altri centri della costa occidentale dell'India, tra i quali Daman, Bassein, Chaul, Dabul, con puntate verso città dell'intemo, come Aḥmadâbâd. Da Goa, tra la fine del dicembre 1565 e i primi del gennaio 1566, quindi tre anni dopo la partenza da Venezia, si trasferì a Bezeneger (Vijayanagar), dove concluse i suoi affari in un mese, ma fu costretto a fermarsi per altri sei perché le strade erano bloccate dal brigantaggio.
È qui che per la prima volta l'India gli svela i suoi aspetti deteriori, le "cose strane e bestiali" degli idolatri, come la cremazione dei nobili, il rogo delle vedove, quelle di casta inferiore murate col cadavere del marito e "altre infinite bestialità ". La città sarà poi abbandonata dalla corte e dalla popolazione nel 1567, dopo la sconfitta di Talikota, le case intatte, invase dalle tigri e da altri animali feroci.
Nel ritorno a Goa, nel luglio 1566, fece l'esperienza di viaggiare a dorso di bue, raggiungendo la costa ad Ancola. Nell'ultimo tratto di strada fu assalito da predoni, che gli portarono via tutto, lasciandolo nudo. Per sua fortuna aveva nascosto i gioielli nel cavo di una canna, così poté portarli in salvo a destinazione.
Negli ultimi mesi del 1566 partì da Goa per Malacca, su un galeone della Corona portoghese che andava a Banda a caricare spezie. La rotta passava al largo di Ceylon, per il canale delle Nicobare e Sumatra (che il viaggiatore chiama Taprobana). Fu, a quanto sembra, un viaggio diretto, senza relazione con altre località descritte nel racconto forse per completezza geografica. La loro successione si colloca su un itinerario diverso, quello costiero, che certamente fu percorso dal F. in un altro viaggio: Honowar, Mangalore, Cannanore, Granganore, Cochin, Quilon, capo Comorin, i bassifondi del golfo di Manar, davanti all'isola di Ceylon, Ceylon, Nagapatan, San Tomè; si aggiunge, dalle Nicobare alla Birmania, "una catena d'isole infinite", le Andamane. Egli scrive di non essere andato più a Oriente di Malacca ma di riportarsi, per quei paesi, a ciò che sapeva "per buona informatione" di chi c'era stato, in particolare di un persiano che aveva dimorato per tre anni a Nanchino. Ripartì da Malacca in direzione di San Tomè su una "nave grossa", sulla quale avevano preso imbarco più di quattrocento persone, ma il vento la fece vagare per settantaquattro giorni, trascinandola fino ad Orissa, sulla costa orientale dell'India. La nave aveva levato le ancore precipitosamente per timore d'essere coinvolta in azioni belliche; non aveva fatto in tempo a rifornirsi d'acqua, così che molti di quelli che erano a bordo morirono di sete, e il F., costretto anche a disfarsi a poco prezzo di uno schiavo che lo accompagnava, per non dover dividere la razione con lui, restò per un anno con la gola arsa. Da Orissa andò a Satigam e Bliator, alla foce del Gange, per tornare poi a Cochin, nel Malabar, e successivamente a Malacca, da dove intraprese poi il viaggio per il Pegù (Birmania) prevedendo che durasse venti-venticinque giorni. Invece s'impiegarono quattro mesi: dopo tre mesi erano soltanto al largo di Tenasserim, sulla penisola di Malacca. Con una barca il F. e altri ventisette uomini cercarono di raggiungere il porto per fare provvista di viveri, ma, non riuscendo ad orientarsi, errarono affamati per nove giorni, finché non furono aiutati a ritrovare la loro nave a Martaban.
Qui il viaggiatore riuscì prudentemente a scampare ad una rappresaglia contro i Portoghesi, ma ne ebbe egualmente un gran danno, perché rimase bloccato per ventun mesi, senza poter vendere le sue merci. Su barche simili alle "peate" veneziane per schivare le insidie delle fortissime maree, si portò poi a Pegù, capitale del regno dello stesso nome. Rimase qui fino all'agosto 1569, quando deliberò di rientrare in patria, ritenendo d'aver guadagnato abbastanza. Per non perder tempo scartò la rotta di San Tomè, che per i monsoni contrari era praticamente chiusa fino al marzo successivo, ma affidatosi a quella costiera del Bengala incappò in una terribile tempesta che disalberò la nave e la mandò in secca sulla costa dell'isola di Sandwip. Ripreso il cammino, fece sosta a Chittagong, e poté giungere a Cochin solo quando l'ultima nave per il Portogallo aveva già fatto vela. Allora prese la risoluzione di tornare a Venezia per la strada di Hormuz e perciò s'imbarcò su una galera diretta a Goa. Sfortunatamente, bloccato qui dall'assedio della città (1570), contrasse una malattia che gli durò quattro mesi, costringendolo a liquidare a basso prezzo una partita di rubini. Vedendo che il suo viaggio orientale era ormai economicamente fallito, quando gli fu possibile vendette anche le gioie che gli restavano; il ricavato decise d'investirlo a Cambay, nel Gujarat, in oppio e di andarlo a commerciare in Birmania. Quando da Goa arrivò a Cochin apprese che la nave sulla quale aveva spedito tre balle di cotonine aveva fatto naufragio, e la sfortuna non cessò di perseguitarlo perché quella sulla quale s'era imbarcato alla volta di San Tomè sbagliò rotta e fu costretta a tornare indietro. Egli riuscì a raggiungere San Tomè con una barca. Sembrava che dovesse diventare ricchissimo, perché in Birmania l'oppio si vendeva molto bene e il F. era l'unico mercante ad esserne fornito; invece una nave dirottata da una tempesta ne scaricò una quantità grandissima che fece crollare il prezzo. Per non perdere tutto il F. restò due anni in Birmania, probabilmente nel 1571 e 1572.
Finalmente poté riprendere la strada per l'India e per Hormuz con una grossa partita di lacca. Da Hormuz tornò a Chiaul e qui l'esperienza precedente gli suggerì di comprare oppio, ma non in grande quantità. Fece male, perché il prezzo salì e in Birmania, dove si recò ancora una volta, gli si sarebbe nuovamente offerta l'occasione di far fortuna. Ma guadagnò egualmente abbastanza per decidere di tornare a casa. Partito da Pegù, trascorse l'inverno a Cochin e quindi andò a Hormuz. Il tratto successivo, fino a Basra, lo percorse a bordo di un "navilietto" che noleggiò in compagnia col veneziano Francesco Beretin. A Basra i due soci dovettero aspettare quaranta giorni che si formasse un convoglio di barche per risalire il fiume senza pericolo di subire assalti di predoni; anche a Baghdad, dopo cinquanta giorni di viaggio, restarono fermi per la stessa ragione quattro mesi, finché non si radunò una carovana per Aleppo. Erano quaranta giornate di strada, trentasei delle quali nel deserto, ma, forniti di una tenda da campo e di cavalli e di mule, oltre ai cammelli sui quali caricarono la merce, viaggiarono ottimamente, con acqua in abbondanza e mangiando ogni giorno carne fresca di castrato.
Prima d'imbarcarsi a Tripoli, sulla nave "Ragazzona", sempre in compagnia col Beretin, il F. andò in pellegrinaggio a Gerusalemme, forse per adempiere un voto. Poi, "con l'aiuto divino, dopo tanti travagli" arrivò finalmente a Venezia.
Egli era partito per l'India con poche decine di ducati e ritornava "con buon capitale". Erano paesi, quelli nei quali aveva condotto i suoi affari, dove "con fatiche e viaggi" era "facil cosa di niente fare assai", a patto di comportarsi in modo corretto, evidentemente perché, in difetto di una tutela adeguata delle istituzioni mercantili, il sistema dei rapporti funzionava solo con l'onestà reciproca. Le occasioni di guadagno non mancavano. Da quello che traspare dal suo racconto, il F. operava nel commercio a largo raggio, speculando sulle varietà di prezzo nello spazio e nel tempo, talvolta fortemente aleatorie, come nel caso dell'oppio che sulla piazza birmana, quando egli si apprestava a vendere, crollò da 50 unita di moneta locale a due e mezzo. Egli trafficò in vetri, cotonine indiane, lacca, oppio, pepe, legno di sandalo, porcellane cinesi, rubini e altre gioie, secondo la pratica veneziana di trattare un ampio ventaglio di prodotti, ponendosi - come scrive - "a sbaraglio in molte cose", ed è probabile che nei suoi trasferimenti a lunga distanza sulle rotte costiere abbia esercitato anche il commercio itinerante, traendo profitto dalle varie occasioni che si presentavano. In una circostanza, a Sandwip, è lui che compra vacche da salare, cinghiali e galline per la nave. In alcune piazze commerciali si tratteneva a lungo; in Birmania si fece costruire una casa di canne di bambù spaccate e disposte ad intreccio secondo l'uso del luogo. Conosceva perfettamente le spezie: infatti descrive le piante del pepe e dello zenzero, la prima rampicante, coi "corimbi o i graspi come fa l'edera", la seconda simile al panico, con un grosso rizoma; l'albero della noce moscata, che nien gran somiglianza con l'albero delle nostre noci, ma non troppo grande", quello dei chiodi di garofano simile al nostro lauro. Di altre indica la provenienza.
Ma in India si specializzò soprattutto nel commercio delle pietre preziose. È significativo che nel ritorno in patria si sia accompagnato con Francesco Beretin, di Giovanni, che in documenti più tardi figura in tale attività, in particolare nell'agosto 1583, in partenza da Venezia per Costantinopoli, con una grossa quantità di smeraldi. Il F. non parla di questa merce nella prima parte del viaggio, fino al ritorno da Bezeneger a Goa, ma poi ne tratta in modo particolareggiato, diffondendosi anche sulle condizioni della loro contrattazione in Birmania.
Dopo il rientro in patria, nei documenti il F. figura di regola come gioielliere, al centro di una complessa rete d'affari. Nel 1589 arrivò a Costantinopoli dall'India una partita di rubini e di zaffiri nella quale egli era il maggior interessato: era "roba vistosa e granda" che non solo non riscuoteva il favore della piazza ma scoraggiava altre spedizioni commerciali del genere. Nel novembre 1587 compì un viaggio in Sicilia per ricuperare un credito di 100 zecchini presso la vedova di un suo agente morto intestato, e al ritorno andò direttamente a Costantinopoli, dove giunse il 3 ag. 1588. Negli anni tra il 1590 e il 1592 fece altri viaggi a Costantinopoli, dove lo troviamo spesso nella cancelleria del bailo veneziano, per azioni contro debitori insolventi e questioni varie. La principale fu con un altro suo agente su quella piazza, Zuane Lullier, per la vendita al patriarcato greco locale, nell'aprile 1587, di gioie per 10.000 scudi d'oro per riscattare dalle mani dei Turchi il patriarca Geremia e certi beni della Chiesa. La lite era ancora aperta nel giugno 1600, dopo la morte del Lullier. A Costantinopoli un'altra forte somma gli era dovuta da un mercante ebreo per una collana d'oro ornata di gioielli, e a Napoli, nel 1594, aveva un credito col gioielliere Matteo Storaco per due pugnali gioiellati e denaro vario.
Ma gli affari dovevano comunque andare bene, perché il F. mostra di avere larghe disponibilità di denaro investito in varie imprese. Nel 1595 conferi un capitale di 3.000 ducati in società con Francesco di Bernardo Buschi per il commercio di cordovani e nel 1596 diede il suo apporto in capitale ad una società "per il viaggio delle Indie", della quale Giovan Paolo Mariani era il socio viaggiante, accompagnato da un Giob. Federici, forse parente del F., come apprendista. Dalla sentenza arbitrale di liquidazione, del 1599, abbiamo notizia di molte delle operazioni compiute, per la maggior parte riguardanti il commercio di gioie. La società col Bruschi chiuse i conti in perdita, nel 1600, ma l'operazione ha tutta l'Iaria di un mutuo simulato. Il F. prestò anche denaro a livello francabile ad Antonio e Pietro Mazzocchi, mercanti di panni, e al convento di S. Michele di Murano.
Dai testamenti che fece il 4 apr. 1590, alla vigilia della partenza per Costantinopoli, e il 4 dic. 1599, con numerosi lasciti a chiese, ospedali, zitelle, apprendiamo il nome della moglie, Ortensia (o Orsetta) Maragna, alla quale destinò un cospicuo legato che includeva la restituzione dei 1.850 ducati della dote; tutto il resto doveva essere diviso tra i quattro figli dei suoi fratelli Zuan Maria e Bernardino.
Il testamento del 1599 fu pubblicato il 7 nov. 1601, alla sua morte, che curiosamente nel Necrologio della Sanità veneziana appare invece registrato l'8 novembre. Moriva ottantenne, di una malattia polmonare, in otto giorni.
Il F. affidò il "memoriale" che aveva steso del suo viaggio in India a Bartolomeo Dionigi da Fano, perché lo elaborasse per la stampa. Letto più volte dall'autore e riconosciuto "vero e fedele" venne pubblicato "a commune delettatione ed utile" nel 1587. La non eccelsa personalità letteraria del Dionigi, compilatore di cronologie ecclesiastiche e di compendi di fatti memorabili, fa pensare che nella sua sostanza il testo originale sia rimasto intatto, né è scomparso del tutto il colorito veneto del discorso. È invece probabile che sia opera del Dionigi il tentativo di fare una descrizione sistematica dell'India, sul modello di quella della Sarmazia europea di Alessandro Guagnino che qualche anno prima egli aveva tradotto dal latino per la grande raccolta del Ramusio. Ne è risultato un compromesso tra il diario di viaggio e l'abbozzo di una geografia, che non sempre trova un suo equilibrio.
Sotto l'aspetto geografico non ci sono molte cose nuove, in particolare nella parte che riguarda l'India, ma la sua è tra le prime descrizioni particolareggiate del viaggio da Aleppo al Golfo Persico. Modesto, come rileva Olga Pinto, è anche il suo contributo linguistico, limitato a poche parole delle parlate indocinesi. La relazione è invece apprezzabile per il suo realismo e infatti non accoglie credenze del tipo di quella araba che la sorgente di bitume nelle vicinanze di Hit, nel Vicino Oriente, sia la bocca dell'inferno, limitandosi ad ammettere che "in vero è cosa molta notabile". Non ci sono concessioni ad elementi fantastici neppure per i luoghi sui quali il F. scrive per sentito dire. Di quello che gli sembra stravagante cerca molte volte di fornire la ragione riposta, come a proposito degli abiti di linea troppo audace delle donne birmane, che avevano la funzione di allontanare i maschi dall'omosessualità, e della crudele sorte riservata alle vedove, per rendere le mogli più fedeli, perché in passato molte di loro non esitavano ad avvelenare il marito per il minimo torto che subivano.
Il lungo soggiorno gli aveva insegnato a conoscere l'Oriente e a non respingere le alterità dei suoi costumi. Eccezionalmente parla di "gente molto bestiale", di "mala gente", e nel caso degli abitanti delle Andamane, di "gente selvaggia", per quanto l'attribuzione ad essi della pratica dell'antropofagia appartenga alla consueta immagine dei paesi ai confini del mondo conosciuto. Per lui "quelle parti dell'India sono paesi molto buoni". Egli non dà mai l'impressione d'aver incontrato le limitazioni di movimento e le difficoltà di comunicazione per le quali un viaggiatore ha il sentimento dello straniero sottoposto a discriminazioni. A Martaban riesce a difendere i suoi beni da una rappresaglia provocata dai Portoghesi sostenendo con fermezza di essere estraneo ad ogni questione che riguardasse costoro, essendo di un'altra nazionalità.
Però non perde l'istintiva prevenzione per ciò che non assomigli ai modelli europei. Così, disprezza i cibi dei Birmani - "tutto fa per la lor bocca, sina i scorpioni e le serpi" - i costumi coniugali di una casta di guerrieri del regno di Cochin, le città indiane. Su queste il suo giudizio soltanto di rado è moderatamente positivo, come per Aḥmadâbâd, Goa, Satigam, abbastanza belle tenuto conto che sono "città de Gentili". La sua ammirazione va alla città coloniale portoghese, dalle strade lunghe e diritte e con molte chiese. Comunque i suoi criteri di stima sono l'abbondanza dei viveri e il "gran negotio di forestieri".
Mercante, è molto attento a quello che interessa la sua professione. Descrive con competenza la forma delle barche e delle navi, definendone le caratteristiche mediante il confronto con quelle veneziane, e parla volentieri di mercati, di correnti di traffico e di modalità degli scambi, dando evidenza a quelli ineguali del commercio coloniale, i Portoghesi che importano dalla costa orientale dell'Africa avorio, schiavi, ambra, oro pagando con cotonine e conterie di cattiva qualità. Particolarmente suggestiva la descrizione della contrattazione muta delle gioie, per mantenere segreto il prezzo, toccandosi reciprocamente in modo convenzionale le dita nascoste sotto un panno. Se di molti prodotti è ben informato, come dello spodio, che in Birmania "si congela d'acqua in alcune canne", s'appaga invece della spiegazione di fantasia che gli danno della preparazione del muschio della Tartaria, ricavato dalla carne di una specie di volpe, intrisa del sangue dell'animale e finemente pestata.
Quelli orientali sono per lui soprattutto i paesi delle spezie e delle pietre preziose, ma osserva anche le manifestazioni di vita e di costume. Nel racconto trovano posto le cerimonie dell'incoronazione del re di Hormuz, il rito indiano del rogo della vedova al quale ha assistito più volte meno con raccapriccio che col fastidio del "terremoto di pianto e d'urli" che tiene dietro alla festosa allegrezza iniziale; il Gange coi lavacri degli infermi e la sommersione dei cadaveri; le donne Nāyar, nel regno di Cochin, con dei fori "monstruosamente grandi" nei lobi degli orecchi; la pesca delle perle al largo dell'isola di Ceylon; la palma del cocco (al mondo non si trova "arboro della bontà di questo e che se ne cavi più utilità") e il raccolto della cannella a Ceylon, "quando gli arbori vanno in amore". Molto particolareggiata è la descrizione della Birmania, il re con le sue trecento concubine, il cerimoniale delle udienze, i templi dai tetti cementati con lo zucchero, gli abitanti vestiti tutti allo stesso modo, la cattura degli elefanti e il loro addomesticamento per l'impiego in pace e in guerra, il miracoloso vino di palma.
In queste pagine il ritratto dell'Oriente è colorato d'esotismo ma non c'è margine per l'immaginario. L'aderenza al vero determinò le fortune dell'opera come fonte di conoscenza di paesi che s'andavano aprendo alla conquista coloniale. Vi attinsero per le loro relazioni di viaggio Gasparo Balbi e Ralph Fitch, che visitarono anch'essi la Birmania, l'accolse la grande raccolta ramusiana e fu più volte tradotta e pubblicata - anche in estratto - in olandese e in inglese.
Un'edizione moderna ne è stata condotta da Olga Pinto, che ha dedicato al viaggiatore numerosi studi. ottimo il commento, particolarmente ricco nei dati geografici e storici, con qualche incertezza nell'interpretazione di vocaboli veneziani, soprattutto dove riduzioni fonetiche o voci dialettali vengono segnalate come errori.
Edizioni: Viaggio di m. Cesare dei Fedrici nell'India Orientale et oltra l'India, nel quale si contengono cose dilettevoli dei riti et dei costumi di quei paesi et insieme si descriveno le spetiarie, droghe, gioie et perle che d'essi si cavano, con alcuni avertimenti utilissimi a quelli che tal viaggio volessero fare, Venetia, Andrea Muschio, 1587; Viaggio di m. Cesare de' Fedrici nell'India Orientale et oltra l'India, per via di Soria, in G. B. Ramusio, Delle navigationi et viaggi, III, Venezia 1606, cc. 386-398; Viaggi di C. Federici e G. Balbi alle Indie Orientali, a cura di O. Pinto, Roma 1962. Tradotto integralmente da T. Hickock, in inglese: The voyage and travaile of M. C. Frederick, merchant of Venice, into the East India, the Indies and beyond the Indies…, London 1588; The voyage and travell of M. Caesar Fredericke into the East India and beyond the Indies, in R. Hakluyt, The principal navigations, voyages, traffiques and discoveries, III 1, London 1598, pp. 213-244 (è la stessa traduzione, preceduta da un indirizzo di Caesar Fredericke to the reader, che manca nel testo italiano) e nelle edizioni successive; Voyages and travels of Cesar Frederick in India, in R. Kerr, A general history and collection of voyages and travels, VII, Edimburgh 1812, pp. 142-211. In olandese: Caesar Frederiks agtien-jarige Reys na en door Indien anno 1536 en vervolgens seer naauwkeurig door hem selfs beschreven, in P. van der Aa, Naaukerige versameling der gedenk-waardigste zee- en land-reysen na Oost en West-Indien, Leyden 1706, XVI, 3 (condotta sulla traduzione inglese); Id., 9, Leyden 1727; Id., VII, Leyden 1727. Traduzioni parziali: Extracts of master Caesar Fredericke his eighteene yeeres Indian observations, in S. Purchas, Hakluyts posthumus, II, London 1625, pp. 1702-1722; Id., X, Glasgow 1905, pp. 83-143; The voyages and travels of m. Caesar Fredericke…, in Asiatick Miscellany, I (1785), pp. 156-78, 278-85, 420-32; The voyages and travels of m. Caesar Fredericke, in App. a A. Munshy, A short account of the Maratta State, London 1787, pp. 50-111.
Fonti e Bibl.: Archivio di Stato di Venezia, Notarile, Atti not. Luca e Giulio Gabrieli, reg. 6537, ff. 21v-22; 6539, ff: 101 s. (con la copia di una sua lettera da Costantinopoli); 6540, f. 139v; 6541, f. 95v; 6542, ff. 86v-87, 129; 6546, ff. 110, 144 s., 163 s., 170 s., 282 ss.; 6547, ff. 60 ss., 118 s., 178 ss.; Testamenti, b. 533, n. 329; Atti not. Antonio Brinis, b. 466, 1589, 8 febbr. (dove compare come teste in un atto del quale è rogatario Gasparo Balbi); Miscellanea Gregolin, b. 12 ter: Salomon Rigola ad Antonio Paruta, 1589, 4 marzo, 1590, 15 settembre; Guglielmo Helman a Tullio Fabri, 1583, 27 agosto; Bailo a Costantinopoli, reg. 377, cc. 8, 13, 21v, 52, 78v, 93-94v (con sottoscrizione autografa a c. 94v); 378, cc. 11, 19; 379, cc. 1-2v, 3v, 5, 20v s., 41 s., 48-49v, 77; 380, ff. 18 s.; 381, ff. 4v, 17v, 75v; 384, f. 118v; Provv. alla Sanità, Necrologi 1601, 8 novembre; P. Zurla, Di Marco Polo e degli altri viaggiatori veneziani più illustri, Venezia 1818, II, pp. 252-58; P. Amat di S. Filippo, Studi biografici e bibliografici sulla storia della geografia in Italia, I, Roma 1882, pp. 302-06; J. Charpentier, C. di F. and Gasparo Balbi, in Geografiska Annaler, II (1920), pp. 146-61; P. Donazzolo, I viaggiatori veneti minori, Roma 1927, pp. 137 s.; O. Pinto, Viaggi di C. F. e Gasparo Balbi in Oriente nel sec. XVI, in Boll. d. Soc. geogr. ital., s. 7, XI (1946), pp. 1-5.