CERBANI, Cerbano
Nacque a Venezia, con ogni probabilità alla fine del sec. XI.
È verosimile che il C. appartenesse alla stessa nobile famiglia, originaria di Equilio sul Piave, cui appartennero Domenico, patriarca di Grado dal 1073 al 1084, e Pietro, che compare in un documento del doge Vitale Falier del 1090 (G. L. F. Tafel-G. M. Thomas, Urkunden zur älteren Handels-und Staatsgeschichte der Republik Venedig, Wien 1856, p. 59), Tutto quel che si sa su di lui fino all'anno 1125 è stato tramandato dallo stesso C. nella sua Translatio mirifici martyris Isidori a Chio insula in civitatem Venetam, conservata nel solo codice Marciano latino, cl. IX, 27 (ff. 234-239) del secolo XIV. La breve cronaca, dedicata al vescovo di Castello Bonifacio Falier (1120-1133), racconta il rinvenimento e la traslazione da Chio a Venezia delle reliquie del martire Isidoro ucciso durante la persecuzione di Decio del 250-251. Nella dedica il C. afferma di voler narrare anche la passione del martire sulla base di testimonianze scritte greche e latine e anche di affreschi visti probabilmente nella chiesa di S. Irene a Chio, ma il testo pervenutoci non contiene accenni al martirio e si conclude con l'arrivo a Venezia delle reliquie. Nell'antefatto il C. fornisce alcuni importanti dati della sua biografia.
Fin dall'epoca dell'imperatore Alessio I Comneno (m. 1118) il C., che si definisce "quidam Venetiarum clericus, Cerbanus nomine et cognomine", risiedeva alla corte di Costantinopoli in una posizione di un certo prestigio e importanza su cui tuttavia il racconto sorvola. Con la salita al trono di Giovanni II e il conseguente deterioramento delle relazioni tra l'impero d'Oriente e Venezia a causa del rifiuto da parte del nuovo sovrano di riconoscere i privilegi commerciali accordati alle navi venete da Alessio I, la posizione del C. a corte si fece difficile, fino a indurlo a chiedere il permesso di recarsi in pellegrinaggio a Gerusalemme. Di fronte all'ostinato rifiuto di Giovanni II il C. si decise alla fuga, che venne però, interrotta al largo dell'isola di Nicaria nell'Egeo dal fortuito incontro col catepano di Creta. Il funzionario imperiale, trovato il C. privo di litterae dimissoriae, lo rinviò nella capitale. A Costantinopoli il C. fu condannato alla prigione per aver contravvenuto alla volontà del sovrano, ma gli riuscì una seconda e definitiva fuga. Imbarcatosi a Crisopoli (l'odierna Scutari, sulla riva asiatica del Bosforo) sotto le mentite spoglie di un siciliano, rischiò di naufragare durante una tempesta nell'Egeo e, sbarcato fortunosamente a Chio, fece solenne promessa al locale patrono s. Isidoro, cui si era raccomandato già in occasione del forzato ritorno a Costantinopoli, di riportarne le spoglie a Venezia. Ripartito dall'isola, raggiunse a Rodi la flotta veneziana al comando del doge Domenico Michiel, reduce dalle vittoriose imprese di Ascalona e Tiro contro i musulmani. I Veneziani decisero di trascorrere proprio a Chio l'inverno 1124-1125 e fu durante questo periodo che il C. riuscì a convincere un certo numero dei suoi compatrioti a ritrovare e portar via le reliquie di s. Isidoro. In un'angusta cripta della chiesa di S. Irene, il 7 dic. 1124, fu scoperto il corpo del santo insieme con altri quattro, dal C. prontamente identificati per quelli dei santi Afra, Ilaria e Mirope, nonché del figlio di quest'ultima. In un primo tempo i Veneziani pensarono di trasportare a Venezia tutti i resti ritrovati, ma in seguito, per non dispiacere troppo ai fedeli di Chio, decisero di limitarsi alle reliquie del solo s. Isidoro.
È quasi certo che dietro questo generoso ripensamento attribuito dal C. ai suoi compatrioti si nascondesse un contrasto piuttosto netto tra lo stesso C. e il doge, tenuto in un primo momento all'oscuro dell'impresa e preoccupato per le possibili ritorsioni della popolazione di Chio. Una conferma di questa interpretazione si trova esplicitata con molta evidenza nei mosaici trecenteschi della cappella di S. Isidoro in S. Marco a Venezia, la cui costruzione, cominciata da Andrea Dandolo, fu portata a termine sotto il doge Giovanni Gradenigo nel 1355. L'immagine di Domenico Michiel che ordina al C. di riportare a terra le spoglie del santo è infatti accompagnata da una dicitura che sottolinea negativamente il ruolo del C. nella questione: "Cerbanus a duce reprehenditur quod corpus b. Isidori latenter subtractum absque ipsius conscientia ad navem detulerit ipsumque in terram deduci mandavit".
Subito dopo la Pasqua (29 marzo) del 1125 la flotta veneziana ripartì da Chio con a bordo le preziose reliquie. Il viaggio di ritorno non fu affatto tranquillo: in Dalmazia fu infatti necessario ricorrere alla forza per riaffermare il dominio veneziano. Su questi ultimi avvenimenti della spedizione il C. però sorvola, contento di aver già scritto in proposito "duos heroico carmine libellos" (dei quali si è persa traccia) e di informare il lettore che su quei fatti sta componendo un'opera in prosa uno "Iacobus Graecus", che sembra identificabile con lo "Iacobus Veneticus" o "Iacobus clericus de Venetia" traduttore di Aristotele, Alessandro di Afrodisia e altri commentatori aristotelici. La Translatio si conclude nel codice Marciano con l'affermazione "Facta fuit autem haec translatio beati Isidori martyris anno Domini MCXXV die sexta decima mensis aprilis", che non può riferirsi all'arrivo della flotta a Venezia, avvenuto in giugno. È certo singolare il fatto che il mese e il giorno indicati coincidano con la data della tradizionale visita che ogni 16 aprile doge, Senato e clero compivano nella cappella di S. Isidoro in memoria della scoperta della congiura di Marin Faliero. Poiché inoltre quest'ultimo episodio coincise quasi con la conclusione dei lavori della cappella, che l'iscrizione in caratteri gotici sull'altare pone al 10 luglio 1355 sembra legittimo dubitare della paternità cerbaniana dell'ultima frase della Translatio.
Il valore storico della cronaca è notevole, e non tanto per il resoconto della traslazione delle reliquie del martire, quanto soprattutto perché fornisce dati di prima mano sulla spedizione del doge Michiel in Oriente. Alla Translatio si rifecero pedissequamente gli storici veneziani successivi, in particolare fra' Paolino minorita, Andrea Dandolo e Marin Sanuto. Di interesse letterario non è il caso di parlare, ma la dedica lascia intravvedere nel C. un personaggio di buona cultura, conoscitore del greco e in grado di porsi sia pure rozzamente, a proposito delle diverse tradizioni della passione di s. Isidoro, il problema della critica delle fonti.
Dopo il 1125 le tracce del C. sembrano perdersi, ma una fortunata scoperta effettuata nel 1911 da Joseph de Ghellinck ha rivelato l'esistenza in Ungheria, nel secondo quarto del sec. XII, di un "Cerbanus" che ha ottime probabilità di identificarsi con l'autore della Translatio.
I manoscritti 767 dell'abbazia benedettina di Admont nell'Alta Austria e 35 del monastero cisterciense di Reun in Stiria (scritti, almeno per la parte che ci interessa, tra la fine del sec. XII e l'inizio del XIII) conservano, rispettivamente ai ff. 1-54v e 1v-51r, una traduzione latina del De caritate ad Elpidium di s. Massimo confessore. La versione è dedicata "reverentissimo patri et domino David archimandritae", cioè abate, del monastero benedettino di S. Martino nell'Ungheria centrale. Il traduttore "Cerbanus" spiega di aver trovato nell'altra abbazia ungherese di Pastuchum (S.Maria di Pásztó), "quosdam libros... sancti Mazimi ... de quibus aliquos tractatus ... transferre … disposui". Nei due manoscritti citati, e soltanto in essi, alla versione di s. Massimo confessore segue immediatamente (ai ff. 54v-69r del codice Admont 767 e ai ff. 51r-63r del codice Reun 35) la traduzione latina adespota dei primi otto capitoli del terzo libro del De orthodoxa fide di s. Giovanni Damasceno, che evidenti analogie stilistiche fanno ritenere opera dello stesso "Cerbanus". Dal punto di vista cronologico l'identificazione del C. autore della Translatio col "Cerbanus" d'Ungheria non trova ostacolo nei termini estremi del governo dell'abate Davide, all'incirca 1130 e 1150 rispettivamente. Inoltre in nessun punto della sua dedica Cerbanus si qualifica in maniera diversa dal clericus autore della Translatio. Ma soprattutto a favore dell'identità dei due Cerbano milita la difficoltà di immaginare l'esistenza quasi contemporanea di due diverse persone dallo stesso raro nome e dalla stessa non comune conoscenza del mondo orientale e della lingua greca. Il latino delle dediche infine, più ancora di quello della Translatio e delle versioni, presenta notevoli analogie nella costruzione delle frasi e nella scelta dei vocaboli.
Le traduzioni rivelano una buona padronanza del greco, che tuttavia non evita al C. una serie di discrepanze, incomprensioni e veri e propri errori, sull'individuazione dei quali pesa tuttavia la seria riserva determinata dalla nostra mancata conoscenza del testo da lui utilizzato. Tra le due versioni riveste senza dubbio un maggior interesse quella del Damasceno, grazie alla quale per la prima volta, sia pure in forma parziale, il De orthodoxa fide ebbe modo di penetrare in Occidente ed influenzare la teologia europea del sec. XII. Una serie di confronti con la traduzione di Burgundio Pisano, effettuata verso il 1148-1150, ha permesso di stabilire che la versione del C. fu nota a Pietro Lombardo, che la utilizzò nella prima stesura, delle Sententiae. Una volta apparsa la versione di Burgundio, commissionata da papa Eugenio III, Pietro corresse le citazioni del Damasceno secondo il testo ufficiale latino, ma non in maniera da cancellare del tutto le tracce della versione del Cerbani. L'area di maggiore diffusione delle traduzioni del C. sembra costituita dal mondo germanico meridionale: ne sono conferma le numerose copie della versione di s. Massimo confessore che si trovano in monasteri austriaci e le citazioni della traduzione del De orthodoxa fide che compaiono nelle opere dei teologi Gerhoch e Arno da Reichersberg, in particolare nel Contra duashaereses (1144-1145) e nel Liber de gloria et honore Filiihominis (1163) del primo e nell'Apologeticumcontra Folmarum (1163-1164) del secondo.
Del C. sono ignoti data e luogo della morte.
La Translatio mirifici martyris Isidori a Chio insula in civitatem Venetam èedita in Recueil des historiens des Croisades. Historiensoccidentaux, V, Paris 1895, pp. 321-334 (cfr. anche introd., pp. LXVI-LXIX). La traduz. del De orthodoxa fide è stata pubbl. prima da R. L. Szigeti, Translatio Latina Ioannis Damasceni (De orthodoxa fide l. III c. 1-8) saeculo XII in Hungaria confecta, Budapest 1940, quindi per due volte da E. M. Buytaert, The earliest Latin translation of Damascene's De orthodoxa fide III 1-8, in Franciscan Studies,XI (1951), pp. 49-67, e Saint John Damascene De fide orthodoxa. Versions of Burgundio and Cerbanus, Saint Bonaventure, N. Y.-Louvain-Paderborn 1955, pp. 387-404 (cfr. anche introd., pp. V, VII, XI-XIII, XVI, XLVIII-LIV). La versione del De caritate ad Elpidium è stata edita da A. B. Terebessy, Translatio Latina sancti Maximi confessoris (De caritate ad Elpidium l. I-IV) saeculo XII in Hungaria confecta, Budapest 1944. Oltre i codici Admont 767 e Reun 35, conservano la versione dell'opera di s. Massimo confessore le abbazie austriache di Zwettl (ms. 328, ff. 85r-120r), Heiligenkreuz (ms. 236, ff. 1r-21r), Sankt Florian (ms. 15, ff. 172r-174v), e quella cecoslovacca di Vyśší Brod (ms. 120, ff. 42r-54v).
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