CENSORE (lat. censor; gr. τιμητής)
Era il nome di due magistrati creati periodicamente in Roma con l'esclusiva missione di compiere il census populi (v. censimento). Il nome deriva da censere ed esprime il carattere soggettivo e arbitrario, non legato a rigide prescrizioni legali, della loro attività. Il census risaliva al re Servio Tullio, e fu compiuto dal re e poi dai consoli fino all'istituzione, nel 443 a. C., dei censori (Livio, IV, 8), creati per sollevare i magistrati supremi, assorbiti specialmente dal comando militare, da un'operazione che diveniva sempre più complicata e che difficilmente essi potevano compire entro i limiti annui della loro carica. Così la tradizione, che è in sostanza accettabile, nonostante i dubbî e le ipotesi dei critici moderni. I primi censori sarebbero stati in carica cinque anni (Livio, IV, 24), e una lex Aemilia del 435 avrebbe ridotto questo periodo a 18 mesi; ma è probabile che questa legge abbia invece portato la durata della censura a 18 mesi, se era annuale, o l'abbia limitata a 18 mesi se era indefinita. La carica fu in origine riservata ai patrizî, ma quando i plebei ottennero l'accesso al consolato dovette essere aperta loro anche la censura: il primo censore plebeo fu C. Marcio Rutilo nel 351; un collegio di due censori plebei si ebbe solo nel 131. Per la sua importanza morale e materiale, la censura fu per consuetudine rivestita quasi sempre da ex-consoli. L'iterazione della censura ricorre una sola volta (C. Marcio Rutilo censore nel 294 e nel 265) e fu poi vietata; si dànno invece casi di cumulo della censura con altre cariche annuali o straordinarie.
I censori venivano eletti, come i consoli, nei comizî centuriati. Il censo si sarebbe dovuto tenere, in teoria, a intervalli regolari, quinto quoque anno, che venne normalmente inteso "a intervalli di cinque anni compiuti", tempus quinquennale. Ma in pratica il censo fu tenuto a intervalli diversi, specialmente nei tempi più antichi e più recenti, e l'intervallo dei cinque anni è solo il più frequentemente applicato, ma regolarmente soltanto dal 209 per un periodo di 55 anni. Fra un collegio e l'altro di censori, se occorreva regolare affari di competenza censoria, i consoli o i pretori ne facevano le veci. La censura era insomma una magistratura intermittente alla quale furono poi affidate anche pratiche amministrative continue; cosa per noi strana, ma tipico esempio della mentalità romana stretiamente legata ai suoi concetti tradizionali. I censori erano in origine e in diritto magistrati di secondaria importanza; e mancano loro infatti parecchi dei diritti essenziali della magistratura suprema: i littori, l'imperium e lo ius agendi cum populo, che possono convocare solo per il censo e per il lustrum, il diritto di convocare il senato, di cooptare e di presiedere l'elezione di colleghi o di successori; la loro giurisdizione è limitata e non sono eponimi; viceversa hanno gli auspicia maxima come i magistrati cum imperio, possono multare entro i limiti della provocatio, hanno praecones e viatores, la sedia curule, la toga con l'orlo di porpora, e il diritto, che non spettava ad altri magistrati, di esser ravvolti dopo morti in un paludamento purpureo. I censori sono anch'essi sottoposti all'intercessione dei tribuni della plebe, ma era norma sempre osservata che questi intercedessero solo contro atti di giurisdizione, non contro operazioni del censo, che potevano sospendersi solo per impedimenti religiosi o per dichiarato disaccordo col collega. Azioni penali dei tribuni contro i censori furono intentate, ma per l'energico intervento del senato mai furono condotte a termine. La cooperazione dei censori era molto più stretta che quella degli altri magistrati. ll lustrum veniva celebrato da uno dei censori che presiedeva anche la prima contio del censo; per le successive si doveva adottare un turno. Ma per la validità degli atti relativi alla lista dei cittadini o a quella del senato era necessario l'accordo preventivo o l'accettazione da parte di ambedue i censori. Le somme attribuite ai censori per le costruzioni erano ripartite d'accordo, o spese in comune. Il census populi, cioè la revisione dei ruoli dei cittadini e dei loro beni, avveniva nel Campo di Marte (v. censimento). Il censore riceveva (in censum accipere) le dichiarazioni del cittadino con l'assistenza degli iuratores (così detti, pare, dal giuramento che essi facevano prestare al dichiarante), e la faceva trascrivere sui registri (in censum referre); l'atto del dichiarare si diceva dedicare (o deferre) in censu (o in censum). Il censore fissava poi in una cifra (aestimare) la dichiarazione patrimoniale, e poteva a suo arbitrio aumentare la cifra, e quindi l'imponibile, per ragioni morali, p. es. per colpire il lusso o il celibato. I beni da dichiarare (censui censendo) erano originariamente solo gli schiavi e il bestiame, poi i fondi rurali e le res mancipii, infine, da una certa epoca, tutto il complesso della fortuna. I fondi erano, al pari dei cittadini, assegnati a una tribù, cioè a un distretto amministrativo, e spettava al censore, se apposite leggi non lo indicavano, di attribuire le nuove proprietà romane e i nuovi cittadini alle vecchie tribù, o di crearne di nuove. In questo modo i censori dominavano per via amministrativa l'organizzazione dello stato e graduavano il diritto elettorale dei cittadini, costituendo tribù con un numero ineguale di cittadini, mentre ogni tribù aveva un solo voto e di efficacia pari a quello delle altre, e attribuendo un cittadino a una tribù più o meno favorita. Ma il censore, molto per tempo, ritenne di dover sindacare a suo arbitrio anche la condotta morale e civile, che era la base dell'onorabilità militare ed elettorale dei cittadini. Ne venne il cosiddetto iudicium de moribus, più tecnicamente animadversio censoria, celebrato dalle fonti come il punctum saliens dell'attività dei censori; esso incombeva specialmente sulla classe più elevata di Roma e contribuì molto ad accrescere l'autorità dei censori. Il iudicium censorium non è basato sulla legge come il praetorium ius ad legem, ma è ad aequum (cfr. Varrone, De lingua lat., VI, 71) e può colpire qualsiasi atto che il censore, secondo i dettami della sua coscienza, ritenga disdicevole ai boni mores e alla disciplina romana. La contestazione dell'atto biasimevole, probrum, dava luogo a una specie di processo, causa cognita, con citazione dell'incriminato, accusa sostenuta dal censore o da un terzo e giudizio. Il probrum constatato produce ignominia espressa in una nota che il censore appone sull'elenco dei cittadini, dei cavalieri o dei senatori, a seconda del caso. La nota, per esser valida, doveva essere approvata da ambedue i censori, e non valeva che per la durata del lustro: equa limitazione all'esercizio di un potere così indefinito e arbitrario. Il iudicium poteva influire sulla classificazione politica del cittadino, poiché era in facoltà dei censori di trasferire per punizione, indipendentemente dal suo patrimonio, un cittadino dalla lista dei tribules a quella degli aerarii, cioè di privarlo del voto: tribu movere et aerarium facere. Ma, dopo la scomparsa degli aerarii, la punizione, pur designata con le stesse parole, consisteva nel trasferire il cittadino da una delle tribù rurali, più considerate, in una delle quattro tribù urbane, meno considerate, e la privazione del voto non avveniva più.
I cittadini dovevano anticamente presentarsi al censo con le loro armì (e forse anche con quelle dei figli in età militare), in quanto che l'exercitus urbanus ricostituito dai censori era originariamente l'esercito per la guerra; ma poi la verifica dell'attitudine fisica del fante passò agli organi per l'arruolamento e venne meno anche il controllo delle armi. L'opera del censore si limitò quindi alla preparazione politica dell'arruolamento dell'esercito. La cavalleria permanente, cioè gli equites equo publico (v. cavalleria), venne invece sempre passata in rassegna dai censori a parte, nell'equitum census (recensus, recognitio) nel Foro. Vi dovevano comparire tutti i possessori di cavallo pubblico, che sfilavano uno per uno davanti al censore; se cavaliere e cavallo erano in ordine, il censore ordinava di traducere equum, cioè confermava nel possesso del cavallo pubblico; in caso contrario il cavaliere poteva, specialmente per cattiva tenuta del cavallo (impolitia), essere privato dell'assegno foraggio e multato, o essere anche dispensato dal servizio o per motivi legittimi o per mancanze contro l'onorabilità civica, ecc. In questo caso, una nota sulla lista indicava il motivo della radiazione (equum adimere), ordinata dal censore con le parole vende equum. I cavalieri uscenti erano sostituiti da altri (equum publicum adsignare). Dopo tutte queste operazioni, i censori redigevano le nuove liste dei cittadini divisi in varî elenchi: 1. tribules, possidenti fondiarî, divisi per tribù (dopo il 304 a. C. nelle sole tribù rustiche) e distinti, a seconda delle fortune, per classi e in queste, a seconda dell'età, in seniores e iuniores, suddivisi, in ogni classe, in un determinato numero di centurie; 2. gli aerarii, che fino al 340 a. C. comprendevano i cittadini tenuti all'imposta, ma non possidenti fondiarî, quelli col censo inferiore al minimo richiesto per essere compresi nelle classi, i cittadini collocati fra gli aerarii per punizione, i libertini, i cittadini di diritto inferiore (caerites); dopo il 304, invece, solo questi ultimi, mentre le categorie precedenti furono iscritte nelle quattro tribù urbane; 3. i capite censi, nullatenenti, dopo il 304 collocati anch'essi nelle tribù urbane; 4. gli orbi orbaeque; 5. i Latini proprietarî di fondi in suolo romano (municipes). La cerimonia del lustrum, che chiudeva il census populi, si celebrava nel Campo Marzio, di regola intorno al maggio dell'anno successivo a quello dell'entrata in carica dei censori, che erano di solito eletti nell'aprile.
Molto si accrebbe l'autorità dei censori quando il plebiscito Ovinio, verso il 312 a. C., tolse ai consoli il completamento del senato affidandolo ai censori. Questa operazione si diceva lectio senatus e consisteva nella revisione della lista anteriore del senato, tralasciando quei senatori che si ritenevano indegni di appartenervi per constatata deficienza di onorabilità (praeteriti senatores, praeterire, senatu movere) e inserendovi in luogo di questi o dei morti, altri cittadini degni (legere in senatu). La lista era infine letta al popolo ed entrava in vigore indipendentemente dalla celebrazione del lustrum, e vi rimaneva fino alla lectio successiva. Il plebiscito Ovinio prescriveva di legere optumum quemque, e tali dovevano naturalmente essere ritenuti coloro ai quali il popolo avesse affidata una magistratura curule; gradatamente poi anche coloro che avevano gestito l'edilità plebea, il tribunato della plebe e la questura. Il diritto al senato per gli ex-edili plebei e per gli ex-tribuni della plebe fu riconosciuto poi per legge all'epoca graccana, e per gli ex-questori da Silla; dopo di che non rimase ai censori che il diritto di esclusione.
Spettava infine ai censori il regolamento di quelle entrate pubbliche (vectigalia, letteralmente "i carri di prodotti del suolo"), e delle corrispondenti spese pubbliche (ultro tributa, cioè i crediti volontariamente concessi dal senato, arbitro in questo campo), che potevano essere fissate di lustro in lustro. Le operazioni relative a questa funzione erano pure indipendenti dal compimento del lustrum.
Lo stato romano non gestiva direttamente la riscossione di queste sue entrate e alcuni pubblici servizî e l'esecuzione delle opere pubbliche, ma le appaltava, ordinariamente per mezzo dei censori, i quali vennero ad avere così accanto al senato una grande influenza sulla vita economica di Roma (cfr. Polibio, VI, 17). Ai censori spettava il fissare entrate e uscite; la riscossione o il pagamento spettavano ai questori che presiedevano all'erario. L'amministrazione finanziaria dei censori aveva per base l'inventario dei beni immobili e mobili dello stato (censoriae tabulae o libri), ed essi dovevano nei casi controversi determinare i limiti delle proprietà pubbliche, e stabilire l'uso che se ne doveva fare. Si cominciava con la revisione dei contratti esistenti, per passare poi alla conclusione dei nuovi. I contratti contemplavano gli affitti degl'immobili dello stato (agri publici) dovunque situati, le concessioni a titolo oneroso di aree pubbliche fabbricabili con riserva di proprietà (solarium), l'appalto della riscossione della quota parte dei prodotti dei fondi tributarî, come la decima, e delle imposte indirette (portoria, ecc.), dello sfruttamento delle miniere, saline, picariae (boschi resinosi per l'estrazione della pece), dei diritti di pesca, ecc.; gli appalti per la costruzione di templi e strade in Roma e in tutto il territorio romano e per le forniture statali. Anche i beni degli dei erano amministrati dai censori. Tutti questi contratti (locationes censoriae) dovevano avvenire nel Foro di Roma, in base a un'asta pubblica e a condizioni ben precisate (leges censoriae) per un tempo determinato e contro corresponsione di una certa somma, ed erano aggiudicati al maggior offerente (manceps, o idem praes, che di solito agiva per conto di una società) contro garanzia su pegni (praedia) e cauzioni (praedes). Importante era l'amministrazione censoria delle acque dei pubblici acquedotti (v. acqua, p. 367 seg.).
Spettava ai censori inoltre di mantenere le proprietà pubbliche nelle condizioni richieste dalla loro destinazione; quindi, p. es., assicurare la circolazione sulle vie pubbliche, sgombrandole di tutto ciò che poteva ostacolarla. Il censore poteva vendere i beni mobili del popolo, ma per gl'immobili doveva essere autorizzato da un decreto del popolo o del senato. Quanto alle spese, il censore non aveva l'antico potere del console di disporre a suo piacimento dell'erario; ma solo nella misura fissata dal senato (Polibio, VI, 13). Il senato concedeva ai censori una pecunia certa, attributa, che veniva pagata dai questori, e nei cui limiti il censore poteva appaltare le prestazioni a suo arbitrio, salvo a chiedere istruzioni al senato. Essi dovevano in primo luogo curare la manutenzione degli edifici pubblici - sarta tectaque (il corpo e i tetti) aedium sacrarum locorumque publicorum tueri (abbreviato di solito in sarta tecta tueri), rinnovare gli appalti relativi e verificare l'esecuzione degli scaduti. Essi potevano poi procedere a costruzioni nuove, ed era questa la principale e più appariscente attività dei censori. La maggior parte delle grandi costruzioni della repubblica furono opera dei censori: tre su quattro acquedotti (aqua Appia, Anio Vetus, Tepula), le basiliche Porcia, Aemilia Fulvia, Sempronia, il circo Flaminio. Poco invece i censori costruirono fuori di Roma, tranne le grandi strade dell'Italia, delle quali sono censorie l'Appia, la Flaminia e l'Aemilia di Scauro; ma qui concorreva con l'opera dei censori quella dei magistrati comandanti gli eserciti, e finì per prevalere l'uso di chiamare queste strade consulares o praetoriae. La giurisdizione dei censori si esercita di solito quando l'amministrazione dei beni del popolo fa sorgere un litigio fra popolo e privati o fra due privati: nel primo caso il censore giudica da solo (cognoscit et iudicat) senza intervento di giudici, e secondo equità; nel secondo rinvia le parti a un giudice o a recuperatores.
La censura ebbe il suo periodo di maggior splendore nei secoli III e II a. C., e fu rivestita da una serie di grandi Romani, che esercitarono come censori una profonda influenza sullo stato. Ma essa era una carica troppo intimamente connessa alla natura dello stato cittadino e repubblicano, e fu quindi la prima a esaurirsi con la decadenza dello stato cittadino. Silla non l'abolì, ma fece in modo che la macchina statale potesse funzionare senza di essa. Dopo Silla, dei censori furono eletti e celebrarono il lustro nel 70-69, e in seguito si ebbero fino al 42 a. C. altri sei collegi di censori, nessuno dei quali celebrò però il lustro. Augusto, ristabilendo la costituzione repubblicana, risuscitò anche il censo, che, secondo la pratica antichissima, egli tenne nel 28 come console, con il collega M. Agrippa, e in seguito altre due volte. Si ebbero però anche sotto di lui dei censori (nel 22: non celebrarono però il lustrum) e i suoi successori separarono ancora la censura dal consolato. Claudio fu censore nel 47-48 d. C., e Vespasiano e Tito nel 72, quando fu celebrato l'ultimo lustro. Domiziano rivestì la censura a vita, ma dopo di lui essa sparì per sempre. Il censo romano non fu più tenuto; il completamento dell'ordine equestre e del senato fu fatto dagl'imperatori con altro titolo, e l'amministrazione dei beni pubblici fu confidata da Augusto in parte a magistrati speciali (curatores operum publicorum, aquarum, viarum, alvei Tiberis, ecc.) in parte fu assunta dai magistrati preposti all'erario e dai consoli.
Censores ricorrono anche in città dell'Italia meridionale e centrale di origine latina, in municipî, colonie latine e altre città federate che erano venute modellando la loro costituzione sulla romana. Essi dopo la guerra sociale furono sostituiti dai magistrati maggiori dei municipî, che nell'anno del censimento portavano il titolo di quinquennales (spesso con l'aggiunta di censoria potestate). Censor (p. es. Germaniae inferioris) si chiama un funzionario delegato dall'imperatore a compiere il censo nelle provincie (v. censimento).
Bibl.: Fondamentale e insuperata è la trattazione di Th. Mommsen, in Römisches Staatsrecht, II, 3ª ed., Lipsia 1887, p. 331 segg. (trad. franc. Le droit public romain, IV, Parigi 1894, p. i segg.). Vedi anche E. De Ruggiero, art. Censor in Dizionario epigrafico, II, Roma 1892, p. 157 seg.; G. Humbert, in Daremberg e Saglio, Dictionnaire des antiquités gr. et rom., I, p. 990, che dà la ricca letteratura più antica; W. Kubitschek, in Pauly-Wissowa, Real-Encyclopädie d. class. Altertumswiss., III, col. 1902; M. Nowak, Die Strafverhängungen der Censoren, Breslavia 1909; O. Leuze, Zur Geschichte der römischen Censur, Halle 1912. I fasti dei censori (anche in De Ruggiero, op. cit.), in C. De Boor, Fasti censorii, Berlino 1873; v. inoltre F. Münzer, in Rhein. Museum, LXI (1906), p. 19 segg.; J. Beloch, Römische Geschichte, Berlino 1926, p. 77 segg.; infine il nuovo frammento dei Fasti capitolini, in Notizie scavi, 1925, p. 376.