censo
Nella Roma antica, per census si intendeva la compilazione delle liste dei cittadini e la registrazione dei loro averi, affidate a magistrati speciali detti censori. Più tardi, e fino ai tempi moderni, il termine c. passò a significare il catasto, e anche il complesso dei beni posseduti, il patrimonio individuale o familiare, e quindi la collocazione sociale. Nel sec. 19° significò in particolare la quota d’imposta annua il cui pagamento dava diritto ad essere elettori o eleggibili; nel regno sardo e poi nel regno d’Italia furono senatori per c. gli eletti nella categoria di coloro che pagavano da almeno tre anni 3000 lire l’anno di imposte dirette. Sistemi censitari erano dunque detti quei sistemi elettorali che discriminavano gli aventi diritto al voto in base al reddito.
Nella legislazione medievale per c. s’intesero le prestazioni legate a un immobile sul quale il creditore del censo non aveva diritti; esempi tipici sono il c. livellare (somma annua che si pagava al dominio diretto di un fondo o di un fabbricato per goderne l’uso), il c. riservativo (prestazione annua che il proprietario di un immobile si riservava nel momento in cui ne trasferiva la proprietà), e il c. consegnativo o bollare (rendita annua gravante su un immobile, e data come corrispettivo di un capitale versato al debitore della rendita).
Il termine c. veniva infine usato in riferimento a vari tributi feudali: c. della marineria, imposto da Federico II di Sicilia per assicurare la fornitura di legname alla flotta; c. del sale, ecc.; per estens., nel Medioevo e nell’età moderna, fu detto c. anche la rendita dei denari prestati volontariamente al Comune, alla signoria, ecc. e lo stesso debito pubblico.