CAVALCABÒ (de Cavalcabobus), Cavalcabò
Nacque a Cremona verso il 1390 dal marchese di Viadana Bertolino ed ebbe un fratello minore, Corrado; abitò sino al 1424 nella città natale nella parrocchia di S. Michele. Dopo la morte del padre, nel 1425, entrò al servizio di Filippo Maria Visconti come armigero delle lance spezzate e partecipò alla guerra contro Venezia del 1426; ma nel maggio dello stesso anno il duca, sospettandolo di tradimento e di connivenza con i Veneziani, lo allontanò dal suo esercito e lo inviò a domicilio coatto in Cremona, ordinandone al commissario visconteo Cambio Zambeccaris, residente nella città, la più stretta sorveglianza e l’arresto preventivo in caso di sospetto di fuga. In seguito, però, i sospetti sul C. si rivelarono infondati: il 5 luglio 1426 egli fu di nuovo chiamato dal Visconti a far parte dell’esercito, ma una improvvisa e gravissima malattia lo costrinse a restare a Cremona. Dopo la guarigione servì ancora il duca sino al termine della guerra; solo l’8 marzo 1428, libero ormai da ogni impegno con Milano, arruolò direttamente 50 cavalieri pesanti e passò al soldo della Repubblica veneta, che lo pose agli ordini del Carmagnola.
Da questo momento tutta l’attività del C. sarà svolta al servizio della Serenissima. Quando nel gennaio 1431 ripresero le ostilità tra Venezia e Milano, egli seguì fedelmente il conte di Carmagnola, finché nell’ottobre questi gli affidò l’incarico di strappare Cremona ai Visconti. Nella notte tra il 17 e il 18 ott. il C., seguito dai suoi uomini e affiancato dal Colleoni, diede la scalata alle mura di Cremona presso la porta di S. Luca. I difensori non opposero resistenza ed egli poté scendere dalle mura e raggiungere l’ingresso indifeso della vicina rocchetta, ove sorprese la guarnigione nel sonno. La città sarebbe stata conquistata con estrema facilità se le truppe del Carmagnola, sollecitate dal C. a intervenire, fossero celermente sopraggiunte; invece il capitano della serenissima temporeggiò, permettendo ai cremonesi di organizzare una difesa e di assediare il C. nella Rocchetta. Dopo qualche resistenza egli preferì abbandonare le posizioni e raggiungere nuovamente con i suoi uomini l’esercito veneto.
Per ricompensare degnamente l’atto di valore compiuto la Serenissima, che già aveva donato al C. proprietà nel territorio cremonese di Casteldidone, accolse la sua richiesta intesa ad ottenere in feudo la località, un tempo proprietà di un Visconti: infatti il 29 nov. 1431 il Senato veneto, a larghissima maggioranza, decretò la riconferma al fedele C. della precedente donazione della rocca di Casteldidone, a cui ora aggiunse la villa del luogo con tutti i proventi, gli emolumenti, i dazi, i diritti e le giurisdizioni appartenenti allo Stato veneto, con esclusione della giurisdizione di sangue e di spada e con il rispetto della tassa sul sale in uso nel territorio veneto. Inoltre venne decretato che, se per un trattato di pace con Milano, il luogo di Casteldidone fosse stato restituito al Visconti, al C. sarebbe stata data una località equivalente sul territorio della Repubblica veneta. Due giorni dopo il doge Francesco Foscari gli rilasciava la lettera patente in cui erano specificati i possessi e i diritti donati in Casteldidone.
Non si posseggono ulteriori notizie sul C. sino al 26 apr. 1434, giorno in cui venne firmata la pace tra Milano e Venezia; la compagnia di ventura del cremonese, formata da 69 uomini, fu inserita in un lungo elenco di milizie in attesa di essere liquidate. In tale circostanza il C. rimase anche privo del feudo di Casteldidone, giacché gli articoli di pace prevedevano che il territorio cremonese, occupato dai Veneziani, fosse restituito a Milano. Il C. richiese pertanto al Senato veneto il rispetto della clausola di donazione ed espresse anche il desiderio di avere in feudo, come contropartita, la località di Seniga nel Bresciano. Con delibera del 7 marzo 1435 il Senato stabilì che gli fossero dati in feudo Seniga e il suo territorio, con diritto di trasmissione ereditaria ai figli. La concessione prevedeva l’omaggio annuale di due doppieri di cera da 10 libbre alla basilica di S. Marco.
Grande era ormai la stima che i Veneziani nutrivano per il C., tanto da affidargli, insieme con Bartolomeo Colleoni, il comando di un corpo di 1.600 cavalieri, inviato in difesa della città di Brescia, assediata dalle truppe di Filippo Maria Visconti, che il 9 marzo del 1436 aveva ripreso la guerra contro Venezia. A Brescia il C. e Colleoni unirono le loro forze all’esercito del Gattamelata, comandante supremo dei Veneziani, e diedero vita a una forte resistenza contro le truppe del duca. Tuttavia nel settembre 1438 essendo l’esercito veneto accerchiato, i Veneziani dovettero abbandonare Brescia, effettuando una ritirata su Verona, attraverso i monti e le valli del Bresciano.
L’itinerario, lungo e ricco di pericoli, prevedeva la marcia attraverso Nave, la Val Sabbia, Lodrone e i territori del vescovo di Trento, luoghi controllati da montanari ostili alla Repubblica veneta. Al C. venne affidato l’incarico di domare, insieme con i suoi 300 uomini, la resistenza di quelle popolazioni.
Circa un anno dopo, nel settembre 1439, la sua compagnia di ventura aveva raggiunto le 500 unità a cavallo e il nuovo capitano generale dei Veneziani, Francesco Sforza, conosciuta la sua esperienza negli itinerari alpini, lo inviò nuovamente in aiuto a Brescia assediata, imponendogli, per ragioni di sicurezza, la via di Arco di Trento e della Val Sabbia. Il 17 sett. 1439 il. C. era giunto a Pedemonte, in vista di Brescia; poiché il suo esercito era stremato per le lunghe marce forzate, fece porre il campo per concedere riposo prima dell’ingresso in città. Seppe approfittare di ciò il Piccinino, capitano del Visconti, che nella notte del 23 settembre attaccò con tutto l’esercito milanese l’accampamento del C., il quale venne sconfitto con la gravissima perdita di circa 300 uomini. Non restava che la fuga sui monti; a Nave egli ricevette l’ordine di correre in aiuto, con i superstiti, del marchese Taddeo d’Este, altro capitano veneto, assediato in Maderno. Il 25 sett. 1439 il C. giunse a Gavardo e qui trovò a sbarrargli il passo la fortissima compagnia di ventura di Carlo Gonzaga, al soldo del duca di Milano. Dovette accettare battaglia e dopo una lunga lotta riuscì a sganciarsi dai Milanesi e a entrare con pochi uomini in Maderno. Il giorno seguente il Piccinino attaccava Maderno e sbaragliava l’esercito veneto, catturando numerosi capitani di ventura, fra cui il Cavalcabò.
La prigionia non durò a lungo, poiché il 14 ott. 1439 il C. era di nuovo a Brescia; non sappiamo come si sia liberato dal carcere, se con il riscatto o con la fuga. Agli inizi di novembre Francesco Sforza lo chiamò per rafforzare le sue truppe schierate in difesa di Verona, ma il 17 novembre la città dovette capitolare e fu posta a sacco. In tale circostanza anche le terre e una casa del C. furono saccheggiate dai soldati del duca, ma tutti i danni furono puntualmente risarciti alcuni mesi più tardi dagli stessi saccheggiatori, forse catturati alcuni giorni dopo, durante una controffensiva dei Veneziani che riportò Verona nel possesso della Serenissima.
Liberata Verona, il C. fu di nuovo inviato a Brescia e in questa città lo ritroviamo per tutto il 1440 e nel primo semestre del 1441. Il 25 giugno di questo anno nella battaglia di Cignale tra Veneziani e Milanesi il C. fu gravemente ferito: trasportato a Brescia morì il 28 giugno 1441 senza lasciare eredi diretti.
Il feudo di Seniga ritornò alla Repubblica veneta, mentre il doge Francesco Foscari il 12 apr. 1442 riconfermò per un anno la condotta agli uomini del C., considerando che il loro capo era rimasto costantemente leale e fedele alla Repubblica.
Fonti e Bibl.: A. Sanuto, Vitae ducum Venetorum, in L. A. Muratori, Rerum Italic. Script., XXII, Mediolani 1733, coll. 1025 s.; A. Naugerius, Historia veneta, ibid., XXIII, ibid. 1733, col. 1096; I Libri Commem. della Repubblica di Venezia, a cura di R. Predelli, II, Venezia 1876, pp. 166, 187, 272; Frammenti di una Cronaca di Cremona dall’a. 1399 al 1442, a c. di F. Robolotti, in Bibl. histor. Italica, Mediolani 1876, I, p. 167; M. A. Sabellico, Historiae rer. Venet., Venezia 1718, pp. 576 ss.; M. Ricotti, Storia delle comp. di ventura in Italia, Torino 1845, III, p. 34; C. D’Arco, Nuovi studi intorno all’economia polit. del municipio di Mantova, Mantova 1847, p. 250; B. Belotti, La vita di Bartolomeo Colleoni, Bergamo s.d., pp. 79 s.; A. Cavalcabò, Un condottiero cremonese del Quattrocento e la presa della rocchetta di San Luca di Cremona, in Boll. stor. cremonese, I (1931), pp. 37-68; B. Belotti, Storia di Bergamo e dei Bergamaschi, III, Bergamo 1959, p. 48; C. Pasero, Storia di Brescia, II, Brescia 1963, p. 53.