CATONE, Marco Porcio (M. Porcius M. f. Cato), detto Uticense
Nacque nel 95 a. C. da M. Porcio Catone, pronipote di Catone il Censore. Fu sin da giovane austero, casto, sobrio, moralmente e fisicamente forte, come ci attesta la biografia plutarchea, l'unico rimastoci degli scritti che a lui dedicarono gli antichi. Avido e tenace nell'imparare, considerava essenzialmente la filosofia come una norma di vita e la disciplina spirituale della sua giovinezza come una necessaria preparazione alla vita politica. Unica nota di più calda e meno contenuta umanità, l'amore appassionato per il fratello Cepione, la cui morte lo turbò profondamente.
Con la prima moglie, Atilia, non fu fortunato; la seconda, Marcia, dopo avergli dato almeno tre figli, passò, col suo permesso, a nozze con Ortensio, tornando sua sposa alla morte di questo.
Eletto tribuno militare, assunse il comando di una delle legioni della Macedonia e riuscì con l'esempio, la persuasione e l'energia a ottenere che i suoi legionarî fossero, moralmente e militarmente, soldati di primo ordine. Essi amavano e rispettavano in lui, più che il tribuno, l'uomo (Plut., Cat. Min., 9, 12).
Compiuto il suo tribunato volle visitare l'Asia Minore e rendersi conto personalmente delle caratteristiche della regione, degli usi e costumi degli abitanti e delle possibilità di ciascuna provincia. Ritornato a Roma, ed eletto questore per il 65, si rivelò un amministratore perfetto, riscuotendo per l'entusiasmo e la tenacia che mise nella sua opera e per i risultati ottenuti l'universale riconoscimento. Non per nulla Clodio nel 58 avrebbe promulgato una legge che affidava a Catone il compito di confiscare e liquidare i beni di Tolomeo, re di Cipro. Era certo un modo elegante di toglier di mezzo per un po' di tempo l'incomodo avversario; ma era anche un'aperta conferma delle sue virtù di amministratore. Ed è senza dubbio caratteristico per la serietà con cui egli concepiva in questo campo la sua funzione di uomo politico, il fatto ch'egli continuò a sorvegliare da vicino il pubblico erario anche dopo il 65, e che non solo teneva sempre sott'occhio alcuni libri contenenti le spese e le entrate dello stato, dai tempi di Silla alla sua questura, da lui comprati per 5 talenti, ma i suoi schiavi andavano ogni giorno a prender copia dei varî atti amministrativi.
Il senso di responsabilità che aveva C. era così vivo ch'egli considerava come un suo dovere partecipare a tutte le sedute del Senato, si faceva informare da ospiti e amici degli avvenimenti più importanti delle provincie, e, nonostante le insistenze fatte, non volle porre la sua candidatura a tribuno della plebe prima del 63 (conferma questa, oltre a varî altri indizî, dell'esattezza della cronologia plutarchea a proposito del viaggio di C. in Asia); gli sembrava infatti inopportuno e imprudente adoperare l'arma formidabile del tribunato, tranne i casi di estrema necessità.
Il 63 fu per C. un anno movimentato. Infatti pose la sua candidatura al tribunato per controbilanciare l'azione che Q. Metello Nepote, giunto a Roma dall'esercito di Pompeo, intendeva svolgere nella stessa carica a favore del suo capo.
Fu egli ad accusare di broglio, insieme con Servio Sulpicio, L. Licinio Murena, uno dei consoli neo-eletti, e a dar modo a Cicerone di far dell'ironia sulle angolosità del suo temperamento, che l'adesione allo stoicismo non aveva fatto che aggravare. E nella famosa seduta delle none di dicembre che decise della sorte dei cȧtilinarî, si dovette al forte discorso tenuto da Catone, quando Cicerone, con grande abilità, ebbe riaperta la discussione, se il senato si riprese dal disorientamento prodotto nella maggioranza dalle proposte di Cesare, e ritornando sulla decisione già presa di condannare, come voleva Cesare, i congiurati al carcere perpetuo, si pronunciò per la condanna capitale. Ma C. comprese che la congiura di Catilina e l'atteggiamento di Cesare erano sintomi di un profondo disagio della plebe, a cui bisognava in qualche modo porre riparo. Egli propose di stanziare annualmente 1250 talenti per la distribuzione di frumento al popolo; rimedio, comunque se ne giudichi, inadeguato alla gravità del problema sociale.
C. contribuì, nel 63, anche a fare ottenere il trionfo a Lucullo, a cui Pompeo, valendosi dei suoi partigiani e specialmente di Gaio Memmio, voleva togliere anche questa legittima consacrazione della grandiosa vittoria di Tigranocerta. Divenuto tribuno, sviluppando la sua politica antipompeiana, per quanto appoggiato soltanto dal collega Q. Minucio Termo e dal console L. Murena, combatté con tutti i mezzi la legge proposta dal tribuno Metello, per cui Pompeo avrebbe dovuto venire rapidamente in Italia, col suo esercito, per condurre la guerra contro Catilina. In conseguenza dei disordini avvenuti, Cesare, allora pretore, e Metello furono, con decreto del Senato, sospesi dall'esercizio delle loro funzioni: ma, partito Metello per l'Asia, C. si oppose a che si prendessero contro di lui ulteriori provvedimenti. Questa opposizione fu giudicata dai contemporanei una prova della sua serenità e dell'elevatezza dei motivi che lo spingevano a combattere la proposta di Metello. E non si può dire in verità che l'atteggiamento da lui assunto durante il tributato sia stato ispirato a criterî di cieco settarismo oligarchico, quando si pensi che si deve a lui e al suo collega L. Mario la legge Maria-Porcia de iure triumphandi, che voleva porre un limite agli abusi nella concessione del trionfo.
La lotta contro Pompeo ricominciò quando questi chiese al senato un rinvio dei comizî consolari, per potervi assistere personalmente e sostenere la candidatura del suo legato M. Pisone. C. riuscì a far respingere dal senato la richiesta di Pompeo, ma non a evitare la nomina di Pisone. Durante il suo consolato si svolsero le discussioni per la procedura straordinana con cui avrebbe dovuto essere tenuto il processo contro Clodio per la violazione dei misteri della Bona Dea, e, nonostante l'energico intervento di C., non soltanto si dovette ritirare e modificare la rogazione per la procedura straordinaria, ma Clodio fu assolto.
Durante le discussioni Pisone prese le parti di Clodio, mentre Pompeo cercò di non disgustare né i democratici né gli oligarchici. Ciò che più gli premeva era la convalida dei provvedimenti da lui presi in Asia e le ricompense ai suoi legionarî. Perciò tentò di legare al suo carro Catone, chiedendogli in spose, per sé e per suo figlio, due delle sue nipoti. Ma C. rifiutò, per non perdere la libertà d'azione, e i contemporanei giudicarono che per troppa coerenza egli aveva gettato Pompeo nelle braccia di Cesare.
C. trovò invece che la corruzione a cui ricorse Pompeo per far eleggere console L. Afranio confermava l'opportunità del suo atteggiamento, e continuò imperterrito per la sua strada. I provvedimenti asiatici di Pompeo non furono approvati né nel 61 né nel 60; della legge agraria proposta dal tribuno L. Flavio, e che aveva lo scopo di ricompensare con terre i veterani di Pompeo, nonostante la saggia opera d'intermediario esplicata da Cicerone, si finì col non parlare più e Cesare dovette rinunciare al trionfo, per poter porre la sua candidatura al consolato.
Ora è innegabile che in questo periodo l'azione di C. mancò di quella abilità e duttilità che sarebbe stata necessaria. Combattere le proposte e le pretese di Pompeo e di Cesare, senza graduare i mezzi e le resistenze, era astrattamente giusto, com'era giusto opporsi alle richieste dei cavalieri per la riduzione della somma a cui erano state appaltate le imposte asiatiche: ma osservava giustamente Cicerone che C. si comportava tamquam in Platonis, non tamquam in Romuli faece (Ad Att., II,1-8).
La sua azione è ormai imbrigliata da una realtà più forte di lui. A ogni modo, in quell'anno 59, la partita fu vinta dai triunviri. C. dovette giurare come gli altri senatori la sanctio della legge agraria di Cesare, e nel 58 dovette partire con l'incarico di liquidare e confiscare i beni di Tolomeo, re di Cipro, e di ricondurre in patria gli esuli bizantini, lasciando libero il campo all'azione dei triunviri.
C. fu naturalmente a Cipro un amministratore modello, deciso a veder tutto con i proprî occhi, anche a costo di non accorgersi, tutto assorbito dai pubblici doveri, delle private speculazioni di Bruto. Ma quel che più importa per interpretare la psicologia catoniana, è che questa prevalenza in lui dell'amministratore sull'uomo politico è confermata anche dall'accoglienza che gli fecero al ritorno magistrati, senatori e popolo, e soprattutto dal fatto che C. s'irritò con Cicerone, perché questi volle porre in discussione la legittimità delle leggi di Clodio, e con essa anche l'incarico affidato a C. C'era probabilmente nell'atteggiamento di C. un'idolatria tutta romana per il fatto giuridico compiuto. Dopo il ritorno di C., avvenuto nel 55, gli avvenimenti incalzano. Si ripresentava aggravato il problema del 59, l'anno del primo consolato di Cesare. C. sostenne invano con indomabile energia, a rischio della sua stessa vita, la candidatura al consolato di L. Domizio Enobarbo, contro la candidatura di Pompeo e Crasso. Fallito questo primo tentativo, sperò di essere eletto pretore e controbilanciare così l'azione dei consoli. Ma il primo scrutinio, che minacciava di riuscirgli favorevole, fu interrotto per un pretesto augurale, e al secondo fu eletto Vatinio. Nel 55 la legge di Trebonio che dava a Pompeo il governo della Spagna, e a Crasso quello della Siria, con poteri illimitati, passò, nonostante la tenace opposizione di C., e quando fu presentata la legge per il prolungamento a Cesare del governo della Gallia, C. rinunciò a opporsi con un discorso al popolo, limitandosi vanamente a cercar di persuadere Pompeo dei grandi pericoli per lo stato e per lui stesso di questa politica filocesariana. Fu pure nel 55 che C., opponendosi alla proposta di supplicazioni per la vittoria di Cesare sugli Usipeti e Tenteri, propose di consegnarlo ai Germani, dato che li aveva vinti rompendo fraudolentemente una tregua.
Eletto pretore per il 54, e come tale preposto ai processi de repetundis, non ebbe modo d'esercitare un'efficace azione politica, e la sua azione energica e sprezzante d'ogni pericolo contro la corruzione elettorale, praticamente non ebbe altro risultato che quello di persuadere i candidati al tribunato a sceglierlo giudice della loro condotta, depositando in garanzia 500.000 sesterzî. Questo episodio e altri consimili dimostrano che C. esercitava un maggiore influsso con la sua personalità che con la sua azione politica.
C. riconobbe implicitamente i limiti delle sue possibilità di uomo politico, quando espresse in senato parere favorevole alla nomina di Pompeo quale consul sine collega, per porre un rimedio all'anarchia in cui era caduta Roma, e quando, avendo posto la sua candidatura a console del 51, rinunciò ai mezzi anche leciti di propaganda, e accolse tranquillamente la sconfitta. Egli poteva dichiarare apertamente che Milone aveva bene meritato della patria uccidendo Clodio, opporsi all'effetto retroattivo della legge di Pompeo contro i brogli elettorali, e applicare la nuova legge sulla procedura dei processi penali, anche contro la volontà di chi l'aveva fatta approvare: ma se il popolo non l'aveva eletto console, per antipatia verso i suoi atteggiamenti, non gli rimaneva che restare in disparte, senza correre il rischio di una nuova sconfitta, e senza cambiare i suoi punti di vista per far piacere alla maggioranza.
La condotta di C. parve a Cicerone più ingenua che eroica, e in verità da questo momento la sua figura passa in seconda linea. Nelle drammatiche discussioni del 51-49, C. ci appare sostanzialmente rimorchiato dalla maggioranza oligarchica. Egli era intimamente contrario alla guerra, e fu dalla parte di Pompeo solo perché non poteva restare neutrale. Abbandona la Sicilia, la sua provincia, che avrebbe potuto costituire un elemento importantissimo della lotta contro Cesare, per non portare la guerra nell'isola. Giunto al campo dei repubblicani, il suo pensiero più insistente è di evitare una grande battaglia e di togliere alla guerra ogni carattere di crudeltà. Ed è per questo che lo si manda prima in Asia, e quando ritorna, Pompeo, dopo avergli offerto il comando della flotta, finisse per affidarlo invece a Bibulo. Al momento di Farsalo egli comandava la piazza di Durazzo, ch'era ancora per i repubblicani il centro più importante di rifornimenti, confinato colà dai sospetti di Pompeo e degli oligarchici. Dopo la sconfitta, ignorando ancora la sorte di Pompeo, C. decide che nel caso ch'egli si fosse salvato, non avrebbe fatto che eseguire i suoi ordini; se invece Pompeo fosse morto, avrebbe fatto passare in Italia coloro che erano con lui, ed egli sarebbe andato in volontario esilio. Raggiunta la flotta a Corcira, vorrebbe che Cicerone, superiore a lui gerarchicamente, come uomo proconsolare, assumesse il comando delle forze pompeiane, ma avendo Cicerone rifiutato e deciso di ritornare in Italia, lo protegge contro le ire di Sesto Pompeo e gli permette di partire. Salpato alla ricerca di Pompeo, quando sa della sua morte, solo per compassione verso i suoi compagni si decide ad assumere il comando, e a raggiungere in Libia Scipione e Varo. Là rintuzza con romano orgoglio l'alterigia di Giuba, ma rifiuta il comando, e lo cede al proconsole Scipione, prendendo l'incarico di presidiare Utica, e difenderla contro gli eventuali attacchi di Cesare.
Si direbbe che la preoccupazione maggiore di Catone sia stata quella di mostrare in quella lotta di proconsoli inebriatisi nell'esercizio del potere, come si doveva, anche soffrendo, obbedire. E il grande valore morale e politico dell'ultimo periodo della sua vita è appunto in questa affermazione. La sua figura, specialmente a Utica, dopo la sconfitta di Tapso, da lui invano deprecata, s'è liberata da ogni asprezza e volgarità di contingenze politiche. Non è rimasta in lui che una profonda e malinconica umanità. Doveva salvaguardare davanti a Cesare, ai Greci, ai mercanti di Roma, la sua dignità di uomo e di cittadino, che rappresentava la classe dirigente della capitale del mondo. Bisogna riconoscere che egli seppe vivere con mirabile elevatezza di spirito quei suoi ultimi giorni, coronati dal suicidio (metà aprile 46 a. C.).
Lo scrittore. - A differenza degli altri stoici, si era dedicato assiduamente, sotto la guida di maestri di retorica, allo studio dell'eloquenza, in cui eccelleva (Cic., Brut., 31, 118). Nelle sue orazioni non disdegnava introdurre disquisizioni di carattere filosofico che sapeva rendere accette al popolo (Cic., Parad., praef.1). Senza cercar di proposito l'eleganza, egli riusciva a mitigare l'innata asprezza con una grazia che gli conciliava l'animo degli uditori (cfr. Plut., Cato Min., 5, 2). Delle sue orazioni, celebre, ma a noi non pervenuta, è quella contro i Catilinarî dei quali ottenne la condanna a morte, nonostante l'opposizione di Cesare (Plut., Cato Min., 23, 2). In giambi di violenza archilochea, esalò la sua ira contro Metello Scipione che gli aveva tolto la fidanzata (Plut., Cato Min., 7). Nell'epistolario ciceroniano (Ad fam., XV, 5), leggiamo una lettera ove, non senza arguzia, tenta di moderare l'ambizione di Marco Tullio.
Fonti Scrissero di C., poco dopo la sua morte, Cicerone, M. Bruto, Fadio Gallo, Munazio Rufo, e, in senso contrario, Irzio e Cesare. Sotto Nerone scrisse una vita di lui lo stoico di opposizione, Trasea Peto. A noi è rimasta la biografia di Plutarco, oltre, s'intende, le notizie di Sallustio, Asconio, Valerio Massimo, Appiano e Cassio Dione.
Bibl.: G. Boissier, Cicéron et ses amis, 9ª ed., Parigi 1923, pp. 293 segg.; Th. Mommsen, Rümische Geschichte, III, 3ª ed., Berlino 1920, pp. 166-67; Ed. Meyer, Caesars Monarchie und das Principat des Pompeius, 2ª ed., Stoccarda 1919, pp. 218-21; E. Ciaceri, Cicerone e i suoi tempi, Milano 1926-30, voll. 2, passim; T. Rice Holmes, The Roman republic, Oxford 1923, passim.