GIANFIGLIAZZI, Castello (Tello)
Nacque presumibilmente a Firenze da Cafaggio di Adimaro verso la metà del secolo XIII.
I Gianfigliazzi erano una antichissima e potente famiglia fiorentina che aveva costruito le sue fortune sui prestiti di denaro a interesse, tanto che nel 1221 essi risultavano tra i titolari di ingenti crediti nei confronti del vescovo di Fiesole, costretto a dare loro in garanzia tutte le proprietà immobiliari del vescovado, compreso il palazzo vescovile. Nei decenni successivi estesero l'attività anche all'estero, radicandosi soprattutto nel Sud della Francia, ad Avignone, Carpentras e Vienne, principale centro del Delfinato, ove vantavano tra i principali clienti la stessa famiglia dei La Tour du Pin, detentori della signoria territoriale su quella zona. Aderirono al guelfismo e, dopo la scissione del 1° maggio 1300, optarono per i guelfi neri.
Il G. operò soprattutto ad Avignone nell'ambito di compagnie ristrette, formate solo da due o tre soci, quasi sempre appartenenti alla sua stessa famiglia. La prima di queste, attiva nell'ultimo decennio del secolo XIII, fu costituita, oltre che dal G., dal fratello minore Giovanni, detto Vanni, e da almeno un altro socio di minoranza, Guido Baldovinetti. La compagnia del G. fu in stretti rapporti finanziari con Carlo II d'Angiò, re di Napoli e signore di Provenza, il quale nominò i Gianfigliazzi suoi familiari.
Un essenziale ruolo economico, anche se per piccole somme, fu svolto dalla sua compagnia anche nei confronti dello Studio di Avignone, i cui docenti e studenti avevano spesso necessità di ricorrere ai suoi prestiti. Per questo genere di clientela i Gianfigliazzi praticavano anche il prestito su pegno. Proprio in considerazione del ruolo essenziale che svolgevano nei confronti dei frequentatori dello Studio di Avignone, Carlo d'Angiò, che poco tempo prima aveva emesso, in omaggio alla Chiesa, un decreto di espulsione di tutti i prestatori di denaro, inviò il 22 dic. 1294 una lettera al suo siniscalco di Provenza con l'ordine che fosse fatta eccezione "pro Johanne et Castello Janfiliachii de Florencia et Guidone Baldovinecti mercatoribus, immo usurariis".
La lettera diceva che per i Gianfigliazzi era opportuno non solo consentire, ma anzi obbligarli a rimanere, in quanto il Consiglio cittadino di Avignone si era fatto interprete del malcontento che questo provvedimento avrebbe ingenerato tra i frequentatori dell'università; pertanto si concedeva loro di riscattarsi dalle colpe con il pagamento di una multa, anche in considerazione del fatto che il tasso di interesse da loro applicato, circa il 36%, non risultava superiore a quello praticato da altri mercanti. Raccolta tra i mercanti fiorentini e toscani di Provenza la somma richiesta per riscattarsi dall'ordine di espulsione, fu il fratello e socio del G., Giovanni, quale elemento più rappresentativo della colonia di mercanti italiani, a consegnarla al re in due rate, in quello stesso anno.
La compagnia del G. ebbe nel 1296 la commissione, da parte di Carlo d'Angiò, di una fornitura di armi (1050 corazze, 1050 "cirothecas de plastris", 1050 gorgiere, 4010 bacinetti di ferro) per le proprie truppe provenzali. Tali armi, reperite a Firenze, erano pronte nel 1297 e, stando alle fonti, furono in seguito consegnate a Giacomo II re d'Aragona, con cui Carlo di Provenza aveva stretto alleanza, dopo una prima fase di ostilità per il dominio della Sicilia. Anche il sovrano d'Aragona ricorse ai servigi del G., ottenendo consistenti finanziamenti, dando in pegno i gioielli di famiglia affidati per la conservazione ai cavalieri gerosolimitani. In una lettera del 9 giugno 1305 Giacomo II scriveva da Barcellona ai suoi familiari per ordinare il riscatto di "omnia et singula iocalia nostra" dati in pegno al G. "mercante fiorentino abitante ad Avignone"; quattro giorni più tardi fu firmato l'ordine di pagamento.
La disponibilità del G. nel concedere crediti a Carlo II si manifestò anche in seguito: il 2 giugno 1307 l'Angiò scriveva da Marsiglia di aver contratto con il G. un forte prestito di 500 once d'oro, necessario a pagare le truppe al suo servizio in Piemonte e nel Monferrato. Nel 1308 il G. era stato incaricato dell'esazione degli arretrati di un'imposta a suo tempo stabilita per costituire la dote a Bianca, figlia di Carlo d'Angiò, andata sposa a Giacomo II d'Aragona. Il G. si era impegnato a versare 15.000 fiorini d'oro, ma sembra che incontrasse difficoltà nella riscossione; infatti in questa occasione non solo entrò in conflitto con gli interessi del banco lucchese dei Baccusi, ma anche con il siniscalco di Provenza, Riccardo Gambatesa, il quale, per costringerlo a onorare i suoi impegni, minacciò di metterlo in prigione. Nel 1309 il G. rifiutò invece un prestito all'ambasciatore del sovrano aragonese, che se ne lamentò con il suo signore.
Morto, nei primi mesi del 1314, suo fratello Giovanni, il G. formò un'altra compagnia con il nipote Giovanni di Rosso, detto Vanni, che presumibilmente era già socio, sia pure di secondo piano, della compagnia precedente. Anche in questa Giovanni di Rosso ebbe una quota minoritaria, solo 2/7 contro i 5/7 del G.; questa seconda compagnia, che si sciolse il 1° marzo 1318 per il ritiro del nuovo socio, intensificò i rapporti, il ritmo e la mole degli affari con i signori del Delfinato. All'atto di liquidazione della compagnia questi ultimi risultavano debitori per 24.000 fiorini d'oro.
Fu questa l'ultima compagnia bancaria in cui il G. operò: la sua messa in liquidazione avvenne infatti pochi mesi prima della sua morte. Il 21 maggio del 1318 egli dettò il suo testamento, mentre si trovava a Carpentras, in Provenza, ed era presumibilmente già malato. Il G. morì a Carpentras poco dopo la stesura del testamento.
Aveva disposto di essere seppellito nella chiesa dei frati minori di Avignone, in una cappella che vi aveva fatto costruire, ma, con codicillo aggiunto nello stesso giorno, decise di farsi seppellire nella chiesa dei domenicani di Carpentras: forse un aggravarsi del suo stato gli fece comprendere che non avrebbe fatto in tempo a raggiungere vivo la pur vicina Avignone. Dette incarico alla moglie Lapa, figlia di Stoldo Rossi, di far appositamente costruire una cappella nella chiesa dei domenicani di Carpentras. Lasciò molti legati a varie chiese e monasteri e un cospicuo legato di 1000 fiorini d'oro alla moglie. Il G. ebbe due figli: Niccolò, che continuò per breve tempo l'attività del padre, e Neri, presumibilmente illegittimo.
Alla sua morte tutti i suoi beni situati nel Contado Venassino furono posti sotto sequestro, in quanto Giacomo II d'Aragona, che era stato a lungo suo cliente, lo denunciò presso le locali autorità quale manifesto usuraio. Questo fatto contribuì al declino delle fortune dei Gianfigliazzi in Provenza.
Fonti e Bibl.: Arch. di Stato di Firenze, Corporazioni religiose soppresse, Spoglio delle pergamene del convento di S. Niccolò Maggiore, cc. 21, 27, 48v; A. Sapori, I libri della ragione bancaria dei Gianfigliazzi, Milano 1945, pp. 1, 35, 45, 48, 57, 60, 80, 100, 103; Id., Le compagnie bancarie dei Gianfigliazzi, in Id., Studi di storia economica, II, Firenze 1955, pp. 943, 948-955, 960 s., 965-971; R. Davidsohn, Storia di Firenze, VI, Firenze 1965, pp. 582, 656, 737.