CASTELLI, Giovanni Paolo, detto Spadino
Figlio di Felice, oriundo di Montalto delle Marche, e di Domenica Crescenzi, romana, nacque a Roma l’8 apr. 1659. Fu pittore di nature morte. Il padre, scaricatore al porto di Ripetta, era già chiamato Spadino, soprannome poi reso celebre dal figlio. Il 28 marzo 1690 il pittore sposò Apollonia De Marchis, figlia e sorella di due “quadrari”, Giovanni e Tommaso, che si occuparono poi di diffondere le opere del Castelli.
Il fratello maggiore del C., Bartolomeo, nato nel 1641, era anche lui pittore di nature morte: nei documenti non è mai chiamato Spadino, mentre questo appellativo divenne quasi un vero e proprio cognome per il figlio del C., Bartolomeo (1696-1738), anche lui pittore di nature morte (dal 1715 circa): due sono infatti gli artisti di nome Spadino citati dallo Zani (il C. verrà poi chiamato “Spadino vecchio” o “Spada vecchio”).
Del primo Bartolomeo non abbiamo opere, ma del secondo sono segnalate due nature morte, “ora a Roma”, siglate B. S. con l’annotazione a tergo della cornice “di Bartolomeo Spadino” (F. Bologna, in Natura in posa... [catal.], Bergamo 1968, tav. 48).
Benché lo Zani lo dica napoletano, i documenti provano che il C. era romano: è censito con regolarità nelle parrocchie di S. Lorenzo in Lucina e di S. Maria del Popolo: trascorse tutta la gioventù accanto al porto di Ripetta, né abitò mai molto lontano (via del Babuino, il Corso, strada dei Condotti); i testimoni del suo “stato libero” asseriscono che “da Roma non è mai partito” e di fatto, quando non è iscritto nello stato delle anime dal 1680 al 1683, è in prigione per omicidio (Arch. Capitolino, Notaio Matheus Massarius, sectio X, vol. 22, 20 ag. 1683 “pace”).
Per quanto riguarda il suo tirocinio, le fonti archivistiche ci danno più presunzioni che certezze: è probabile che abbia ricevuto i primi rudimenti dal fratello Bartolomeo, più anziano di diciotto anni. Il fatto che padrino del C. fosse il fiammingo Giovanni Herinans pittore di casa Pamphili (G. Carandente, Il Palazzo Doria Pamphilj, Milano 1975, p. 336; J. Garms, Quellen aus dem Archiv Doria-Pamphilj zur Kunsttätigkeit in Rom unter Innocenz X ..., Rom-Wien 1972, nn. 267, 287, 591-595, 599) e che Adriano Honinck fosse legato a Bartolomeo Castelli dimostra strette relazioni con l’ambiente artistico nordico. Inoltre va tenuto presente che negli anni che vanno dal 1671 al 1674 il C. abitava vicino ad Abraham Brueghel, che dovette avere su di lui un’influenza determinante, tanto simile è la maniera dello Spadino a quella del fiammingo, spesso chiamato dalle fonti il “Napoletano” (questo potrebbe forse spiegare l’errore dello Zani sulle origini dello Spadino). Quando Brueghel partì per Napoli, il C. lasciò la casa paterna per vivere e lavorare con il fratello, alla cui morte (1686) ereditò le tele abbozzate e probabilmente anche la clientela.
I dati sicuri relativi allo Spadino e alla sua opera sono stati raccolti per la prima volta da G. Incisa della Rocchetta nel 1954. Il punto di riferimento iniziale è costituito da un limitato numero di quadri firmati, datati o documentati, e dall’eccezionale gruppo di tele di Fermo.
I più antichi accenni alla sua attività si trovano nel Catalogo della galleria dei principi Corsini... (Firenze 1880), dove U. Medici elenca (p. 104) due opere alle quali egli riferisce una ricevuta di 12 scudi, in data del 14 luglio 1687, firmata “Gio. Paolo Spadino”, e in un estratto dei conti del 1689 del cardinale Fabio Chigi (Golzio), nel quale si descrive in modo ambiguo “un quadro di frutti di un pomo che venne da... [forse Firenze] fatto da Spadino e se ne è desunto (De Logu) che il pittore fosse di Firenze e che vi tenesse bottega, e si sono viste nello stile del C. tracce di cultura fiorentina. La famiglia Corsini aveva relazioni a Roma ed è quindi possibile che vi ordinasse opere d’arte; e d’altra parte la presenza di due quadri appartenenti ai fratelli Mannaioni a una mostra fiorentina nell’anno 1737 (Borroni Salvadori) non basta a convalidare l’ipotesi di un soggiorno toscano dello Spadino. Se si reperissero le tele Corsini, costituirebbero per la loro epoca una rara testimonianza, poiché il quadro di proprietà Chigi è verisimilmente sparito.
Il gruppo più numeroso di quadri del C. è nella collezione Roccamadoro Ramelli a Fermo: dei ventun dipinti che a tutt’oggi vi si trovano, diciotto si ritiene che appartengano alla collezione familiare dai primi anni del Settecento, attraverso la dote di Elisabetta Evangelista (Dania); i tre rimanenti sono acquisti recenti. La firma e la data 1701, che con una dedica si leggono su un foglio di carta nello Spuntino elegante, permettono di identificare il primo gruppo. Vicinissimi per soggetto, e perfino per lo stile della dedica, sono altri due quadri datati e firmati Roma 1703: il primo è oggi alla Pinac. capitolina (Incisa della Rocchetta); l’altro, esposto a Roma nel 1959 (Mortari), apparteneva a un gruppo di tre tele della collezione Nigro di Genova, ed è stato venduto con un pendant a Milano nel 1965 (catal. Finarte, asta 24 nov., nn. 36 a e b; la sua provenienza originaria da nobile famiglia. napoletana non è indicativa di nessi stilistici, poiché la tela è chiaramente datata a Roma).
Non vi sono inventari antichi di grandi collezioni romane che non comprendano qualche natura morta attribuitagli, ma oggi irreperibile. L’Inventario della guardarobba e palazzo dell’Ecc.mo S. Duca Gio. Bat.ta Rospigliosi... dall’26 giugno 1713 (Zeri, 1959) descriveva due pendants andati dispersi con tutta la collezione. Nel 1801 tre grandi tele figuravano nella stima dell’eredità Rondinini (Salerno). Tra le opere probabilmente reperibili in situ sono i “due ovati di Spadino il vecchio” citati dal Catalogo dei quadri... esistenti nel palazzo... Colonna in Roma del 1783 (Roma, p. 8). Zeri ha riconosciuto nella Galleria Spada quattro dei “sei quadretti di mezzo palmo” descritti al n. 841 nell’inventario del 1759 che ne comprendeva dieci altri piccoli, e nella Galleria Pallavicini “una natura morta con frutti” citata nel 1833 nell’elenco fidecommissario. Il cardinale Benedetto Pamphili, dilettante di questo genere pittorico, possedeva nel 1725 undici Spadino, ritenuti originali, e cinque copie. Nei suoi libri di conti si rilevano numerose menzioni di tali acquisti, fatti tramite il quadraro Tommaso De Marchis; l’edizione del 1865 del Nibby ne segnala ancora sette in palazzo Doria, rappresentanti Cacciagioni; nel catal. del 1931 (p. 2) è attribuita al C. una Cacciagione con fiori e frutta, che è senza dubbio quella ancora esposta nella sala d’ingresso, di anonimo del sec. XVIII. Queste sono le basi incontestabili per la ricostruzione dell’opera dello Spadino.
Le tele restituitegli dimostrano con le precedenti attribuzioni la sua duplice appartenenza alle tradizioni fiamminga e romana; taluni hanno anche visto in lui affinità con i napoletani e specialmente con Ruoppolo. Fuori Roma sue opere sono segnalate in collezioni private a Bergamo (un’opera discussa dal Bottari [1964], che potrebbe attribuirsi forse a Spadino figlio), a Bologna (coll. Molinari Pradelli; Mortari, 1960) e a Napoli (coll. Marmo; ill. in Faldi); e nei musei di Budrio, Prato e Rieti. A Montefortino nelle Marche quadri già attribuiti a Mario dei Fiori sono ormai (Zeri, 1959) considerati suoi (non si può ancora spiegare bene tale abbondanza di opere nella provincia di Ascoli Piceno, originaria del padre). Diversi musei stranieri conservano nature morte del C.: Museo nazionale di Stoccolma; Bowes Museum di Barnard Castle (Durham); Museo Fesch di Ajaccio (quadro proveniente dalla collezione del cardinale Fesch); musei di Beauvais, di Besangon e di Troyes; Museum of fine arts di Boston; Wadsworth Athaeneum di Hartford, Conn.; Metropolitan Museum di New York. Dal 1965 il suo nome compare nelle aste, testimonianza della sua crescente valutazione.
Erede di una tradizione già elaborata, Spadino l’interpreta nel senso della semplicità. Si oppone alla duplice tentazione del realismo troppo intimo e della ricerca insolita. Frutti, più che fiori, diversi animali (soprattutto volatili scelti per il colore delle penne), vasellame, vetri o argenti: tutto questo e solo questo per evocare il lusso degli uomini e la suntuosità della natura. Uno scorcio di paesaggio illumina spesso il soggetto principale senza però ampliare lo spazio. Attraverso questi elementi convenzionali spicca un gusto certo per l’abbondanza e lo splendore unito al senso della loro precarietà. La composizione si organizza in masse compatte e vivamente colorate con macchie di rosso intenso. La luce gioca sulle scorze ruvide e moltiplica i riflessi dei piatti e delle coppe. Come contrappunto di tale esuberanza, la trasparenza dei vetri e dei chicchi d’uva suggerisce la fragilità della ricchezza, e la presenza d’obbligo d’un frutto aperto – melograno, melone o anguria – ne prefigura la fine prossima. Questa è la lezione imparata da Abrahani Brueghel, ma la pennellata dello Spadino è più ampia, e “tuttavia senza la perfezione dei dettagli cara al fiammingo” (Bodart). Questa libertà è leggibile pure nell’assetto compositivo: le cose sono accatastate in mucchi un po’ confusi e crollanti, quasi con noncuranza, che riflette un riconoscimento istintivo e sensuale della bellezza naturale.
Il C. morì a Roma verso il 1730.
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