CAISSOTTI, Carlo Luigi
Figlio dell'avvocato patrimoniale Carlo e di Maria Maddalena di Bagnol, nacque a Nizza il 22 marzo 1694. Di famiglia borghese assurta per meriti di toga ai ranghi della piccola nobiltà provinciale nel corso del primo trentennio del Seicento, il C., laureatosi in legge e preso sotto la protezione dell'Ormea per essersi già segnalato in attività di patrocinio, venne chiamato nel gennaio 1720 ad assumere, a soli 26 anni, la carica di sostituto procuratore generale presso la Camera dei conti.
Il suo esordio nei ranghi dell'amministrazione sabauda è legato al metodo tipico con cui Vittorio Amedeo II ebbe a reclutare in quegli anni la maggior parte dei suoi coadiutori, nonché al nuovo ruolo assegnato dal sovrano al ceto medio degli avvocati-burocrati nei quadri dello Stato. "Scoperto" per caso dal re nell'archivio, regio, ove ricopriva un modesto impiego, il C. dopo aver dato prova soddisfacente della sua preparazione giuridica nell'elaborazione di un parere richiesto dal segretario di Stato, marchese del Borgo, in vista del nuovo concordato con Roma, veniva infine promosso l'11 nov. 1723 procuratore generale. D'altra parte, l'interesse di Vittorio Amedeo II ad assicurarsi i servigi dei migliori avvocati per distoglierli dalla difesa delle famiglie aristocratiche, in occasione delle innumerevoli cause tra il fisco e la nobiltà per l'editto di avocazione dei feudi, non era stato estraneo all'ingresso del C. nella ristretta cerchia dei consiglieri più intimi del re. Come per altri magistrati chiamati a ricoprire cariche pubbliche, anche il C. ebbe a beneficiare dopo la sua promozione di un titolo nobiliare, di conte di Santa Vittoria d'Alba (11 dic. 1723), per quanto ancora nel 1730 la Camera dei conti tergiversasse nella registrazione dell'investitura, affermando che il "titolo comitale inserito nelle patenti non trovasi annesso al feudo di Santa Vittoria", prima che un ordine perentorio del re, del 27 agosto, chiudesse infine la controversia.
Nella sua attività il C. portò la serietà studiosa e la capacità di analisi dei problemi tipica dei legulei e dei magistrati subalpini, non accompagnata tuttavia da eguale sensibilità politica e culturale, dal momento che essa fu caratterizzata più dalla stretta subordinazione gerarchica alle direttive del sovrano che da personali attitudini di giudizio critico. Sotto questa luce va vista la sua opera, sia pur vigile e puntuale, di collaborazione alla preparazione dei più importanti atti della politica riformatrice della monarchia sabauda nel corso del primo Settecento. Di rilievo fu la sua partecipazione alla stesura dei provvedimenti per il recupero dei patrimoni demaniali alienati o regalati con eccessiva larghezza durante il periodo delle due reggenze: a lui venne affidato sin dal 1719 il calcolo delle "alienationi nulle e dubbie de' tassi" giudicati proponibili per la "reunione al regio demanio", per un valore riscattabile di 317.477 lire su cui la quota di competenza dei nobili incideva in misura schiacciante rispetto a quella dei borghesi, delle opere pie e degli enti. E sue furono anche alcune allegazioni giuridiche, raccolte con quelle di altri esperti, capeggiati dal Mellarède, per giustificare, alla luce del diritto feudale e del diritto comune, l'avocazione dei feudi (che non fossero stati acquistati a titolo oneroso) deliberata con l'editto del gennaio 1720.
Nella lotta contro la potenza nobiliare, ingaggiata da Vittorio Amedeo II non solo per motivi economico-finanziari ma anche in forza di un preciso disegno politico-sociale, il C. si segnalerà del resto tra i più fedeli esecutori della volontà sovrana. Nel corso dell'attuazione delle misure di "consegnamento", intese (attraverso la ricognizione in ogni comunità dei vari feudi e dei loro possessori) a una radicale revisione delle proprietà della classe aristocratica, delle sue immunità e dei diritti giurisdizionali legati alla titolarità del feudo, egli fu tra il 1728 e il 1729, con il Bogino, fra i massimi assertori delle istruzioni del sovrano nei confronti delle riserve espresse dai magistrati camerali sul carattere troppo restrittivo delle disposizioni in materia di alcuni diritti consuetudinari dei vassalli. Né mancherà anche durante il regno di Carlo Emanuele III il devoto impegno del C. per allargare il campo d'intervento dell'autorità monarchica contro i privilegi aristocratici, per quanto egli dopo il 1732, di fronte alle rimostranze delle più antiche casate e ai pericoli di insorgenza nobiliare, tendesse a mitigare in qualche modo il primitivo rigore delle norme regie.
Difensore con il del Borgo e l'Ormea degli interessi del protezionismo laniero durante la controversia doganale con l'Inghilterra, seguita all'editto del luglio 1726 che aumentava il dazio d'entrata sui panni, il C. collaborò anche, con consigli e pareri, all'elaborazione dell'indirizzo mercantilista che caratterizzò la politica economica sabauda fin dal periodo vittoriano. Ma le tracce più salienti della sua vocazione di preciso e zelante servitore nella trasmissione e nell'esecuzione delle direttive riformatrici del sovrano si trovano più propriamente nella sequela di comparse e dissertazioni giuridiche che fecero da intelaiatura alla riorganizzazione amministrativa dello Stato: a cominciare dagli studi preparatori per il regolamento dei comuni conclusisi nell'aprile 1733 con l'emanazione da parte di Carlo Emanuele III di un editto per gli Stati di qua dei monti (seguito nel settembre 1738 da un identico provvedimento per la Savoia), che accentuava il controllo delle autorità centrali sulla vita municipale, in compenso della difesa assicurata alle comunità contro il disordine fiscale e gli abusi feudali e delle più invadenti oligarchie private. A maggior ragione, la difesa intransigente dell'autorità sovrana fu il punto di riferimento insostituibile del C. durante i negoziati intrapresi per sanare l'annoso conflitto giurisdizionale con Roma.
Nelle questioni economico-finanziarie che fecero da sfondo alla controversia di principio sul terreno giuridico, la capacità del C. di svolgere con operosa pedanteria un lavoro imponente nella raccolta di dati sul patrimonio e sui benefici ecclesiastici in Piemonte, sulle immunità e sulle cause di evasione fiscale del clero, si rivelò non meno utile e preziosa delle argomentazioni legali e storiche con cui il procuratore generale e altri consiglieri di Vittorio Amedeo, capeggiati dal Mellarède e dall'Ormea, tentarono nelle difficili more delle trattative con la corte papale di accreditare le tesi regalistiche. Del resto, anche dopo la firma del concordato del 1727, il C. continuò ad esercitare funzioni di gelosa difesa delle prerogative statali, con le "più sollecite e circospette diligenze", nei confronti di qualsiasi usurpazione ecclesiastica contraria "al sentimento reggio", come egli si esprimeva in una lettera del 5 nov. 1728.
Non si trova traccia alcuna, beninteso, nei suoi quotidiani attriti con le gerarchie ecclesiastiche, di sollecitazioni di natura politicoideologica; prevale piuttosto un interesse esclusivamente pragmatico, dettato dalla più schietta ragion di Stato, mirante a far valere i metodi dell'accentramento monarchico e a consentire il recupero da parte dell'erario dei cespiti finanziari sui beni abusivamente immuni del clero. D'altra parte, la vigilanza esercitata dal C. contro le influenze giansenistiche e qualsiasi proposito di rinnovamento culturale confermano, unitamente alla vocazione conservatrice dell'assolutismo riformatore sabaudo sul terreno dogmatico e ideologico, anche la natura reale del compromesso con la Santa Sede siglato nel 1727.
Chiamato il 18 ag. 1729 a presiedere il magistrato della Riforma degli studi, il C. si preoccupò infatti di garantire la più stretta aderenza ai canoni pontifici in materia religiosa per allontanare i timori di Roma e rafforzare nello stesso tempo il controllo del principe in campo culturale e scolastico.
Giubilati o rimossi già nel 1727-28 i docenti più aperti, egli si trovò a sovrintendere all'attuazione di quelle "Costituzioni" universitarie del 20 ag. 1729 che accentuarono di fatto l'allineamento dell'ateneo torinese all'ortodossia in materia dogmatica e religiosa, sia pur nell'ambito 1 di un indirizzo generale inteso anche a rendere più funzionali alle esigenze immediate di reclutamento burocratico e di riorganizzazione dello Stato l'insegnamento e l'ordinamento degli studi. La riforma elaborata dal C. ribadì la sudditanza al tomismo; mentre dalle discipline giuridiche - confermato il tradizionale indirizzo romanista - continuò ad essere escluso il diritto criminale. E, se la medicina e le discipline scientifiche e letterarie vennero rivalutate e non furono trascurati anche gli sforzi per allentare il monopolio dei gesuiti sulle scuole secondarie, è pur vero che la lingua italiana e la storia non vennero comprese nel quadro degli studi universitari. Da parte sua, il C. fece valere nel nuovo ordinamento universitario (e nel trattamento economico del personale docente) quelle preferenze per gli studi giuridici, tipiche del resto del ceto medio avvocatesco da cui proveniva, destinate ad assicurare anche in futuro la preminenza della facoltà di legge, chiamata tuttavia più a garantire la continuità e la rigida osservanza delle ordinanze sovrane che a lavorare con un autentico impegno creativo intorno a disegni più maturi e consapevoli di rinnovamento dell'ordinamento giuridico. Il tradizionalismo del C. e di altri giuristi subalpini è confermato del resto dai lavori preparatori delle "Regie Costituzioni" del febbraio 1723, rivelatesi all'atto pratico come una semplice catalogazione, non sufficientemente armonizzata, di norme disparate e particolaristiche più che un vero e proprio codice moderno e unitario, coerente almeno con quei criteri di natura assolutistica e accentatrice da cui aveva pur preso le mosse l'opera di revisione.
Premiato il 10 ag. 1730 con la carica di primo presidente del Senato di Piemonte, il C. ebbe l'ingrato compito di preparare in segreto l'atto di abdicazione di Vittorio Amedeo II, poi pubblicato da Rivoli il 7 sett. 1730. Carlo Emanuele III confermò la larga fiducia già riposta dal padre nell'opera del magistrato nizzardo, facendolo partecipe anche dei provvedimenti annonari e assistenziali assunti nel 1733 in occasione della carestia, nonché delle misure adottate nel 1734 in materia finanziaria e di riassetto tributario onde far fronte alle spese eccezionali di guerra. è in ogni caso sul terreno della salvaguardia della potestà regia contro le ingerenze e i privilegi ecclesiastici che l'opera del C. trovò modo ancora una volta di segnalarsi per sagacia e fermezza, tanto più dopo la revoca del concordato del 1727 da parte di Clemente XII. Se strettissima fu la sua sorveglianza sui docenti in materie ecclesiastiche per non aggravare ulteriormente i rapporti già tesi con la Santa Sede (onde in una sua lettera del 26 maggio 1733, vacante la cattedra di diritto canonico. egli consigliava di ricorrere a un "soggetto francese abile" ma "coll'avvertenza che sia uomo prudente e non impacciato nelle note discrepanze di quel clero"), non meno rigido e puntiglioso fu il suo intervento nel reprimere gli abusi specialmente in materia di diritto d'asilo e la riluttanza del clero a sottoporsi alle leggi dello Stato: "non deve certamente tollerarsi - scriveva il 13 ott. 1743 al governatore di Chivasso - che un Ecclesiastico chiamato da un Governatore per cose concernenti il servigio di S. M., o del pubblico, risponda di non essere, nemmeno in simili cose, soggetto al Governo". Le trattative per la riconciliazione con la corte pontificia, riprese a Torino dopo l'arresto del Giannone, che porteranno al concordato del 5 genn. 1741, e i successivi negoziati per le materie di giurisdizione, di exequatur e di immunità rimaste in parte sospese nel 1727, conclusisi nel gennaio 1742, videro del resto il C. impegnato di prima persona con l'Ormea per giungere ad una sistemazione soddisfacente, almeno sotto il profilo giuridico-economico, delle partite ancora aperte con Roma.
Gli stessi criteri di opportunismo pratico, ligi alle ragioni più contingenti del dispotismo empirico della monarchia sabauda, ebbero ad ispirare la condotta del C. nelle questioni culturali. Il grigio conformismo e l'integrale subordinazione in cui venne mortificata la vita dell'università torinese dai calcoli politici più immediati e dagli orientamenti sempre più chiusi, di prudente conservatorismo, del sovrano e del ceto dominante non si espressero solamente in successivi giri di vite in materia disciplinare nei confronti degli studenti e nella adozione di alcune misure gravemente restrittive nella gestione della politica scolastica (sino a toccare il culmine nell'allontanamento degli insegnanti sospetti di "agostinianesimo" alla corte di Roma e nell'intolleranza verso i docenti che erano più inclini a difendere i residui margini di libertà critica), ma anche nell'instaurazione di un più rigoroso controllo su ogni manifestazione, pubblicistica. Fu appunto il C. ad elaborare nel maggio 1733un regolamento della stampa che, mentre assoggettava a censura preliminare anche i trattati universitari, estendeva il bando dei "libri riprovevoli" nelle province e imponeva in ogni caso alti dazi d'entrata su libri e gazzette provenienti dall'estero. è pur vero che trovavano posto nel progetto del C. (poi accolto sostanzialmente nell'editto del giugno 1740 sulla stampa) ampie garanzie contro gli arbitri e le pretese ispettive del S. Uffizio nei confronti di stampatori e di librai. Ma è anche un fatto che nelle istruzioni ai "revisori" il C. affermava che " nelle materie ecclesiastiche sono sospette tutte le novità", e che veniva tassativamente proibita la pubblicazione o la ristampa di qualsiasi opera di carattere storico. Della grettezza del C. fa testo d'altronde il suo carteggio del 1734relativo alla richiesta del Muratori di consultare i fondi dell'archivio sabaudo. Se in una lettera del 5 novembre egli dava istruzioni all'archivista regio perché non venissero alla luce documenti riservati, in una nota di poco precedente (del 3maggio) al sovrano suggeriva, con intenti altrettanto strumentali e cinici quanto semplicistici, di secondare gli sforzi del Muratori, "trattandosi di un letterato di tanto merito, il quale accaparrato da noi, può forse influire non poco nel concetto nel quale conservar si debbono le cose nostre colla Corte di Roma…". Se vane risulteranno naturalmente le speranze del C. in quella circostanza, ben diverso fu l'esito del suo disinvolto intervento nel 1734in occasione della pubblicazione della Raccoltadi poesie e prose ad uso delle regie scuole, quando egli sottrasse d'imperio al Tagliazucchi l'incarico di compilare il secondo tomo dell'opera per affidare la raccolta delle prose ad un suo protetto, il carmelitano Teobaldo Ceva, le cui oculate esclusioni in materia di letteratura politica (dal Machiavelli al Sarpi) offrivano più sicure garanzie all'ostracismo verso la storiografia militante, o semplicemente non aulica, nutrito dalla classe dirigente subalpina.
Il C. venne insignito dei titoli comitale di Santa Maria d'Asti (investito il 19 genn. 1734) e marchionale di Verduno (investito il 18 luglio 1739). Nominato ministro di Stato nel 1750, assunse poi nel 1767 anche rincarico di notaio della Corona e venne quindi elevato, il 26 sett. 1768, alla dignità di gran cancelliere. "Mente chiara - scrive di lui il Carutti -, concepir pronto, memoria ubbidiente e facilità maravigliosa nel far proprie le cose altrui, colorandole di una propria sua vernice; non grande studio ma sperienza vastissima delle leggi. Notavasi in lui certa versatilità d'ingegno, soverchia cortigianeria e boria d'uomo nuovo intento a far dimenticare l'umile origine sua…". In effetti, certa lucidità e spregiudicata abilità pratica con cui il C. aveva supplito nel pieno della maturità alle sue carenze culturali vennero ad affievolirsi con il passar degli anni. La revisione delle "Regie Costituzioni", cui egli pose mano nel 1770, lo vide attardarsi su orientamenti sorpassati, estranei alle idee e alle innovazioni che circolavano o s'erano già affermate in altre parti della penisola, confermando in sostanza i suoi limiti di "giurisperito piuttosto che giureconsulto". Più efficace fu la sua opera di aggiornamento, nello stesso periodo, delle costituzioni universitarie e delle nonne sull'istruzione pubblica: aimeno in quest'ultimo settore la liberalizzazione degli accessi all'istruzione superiore per gli elementi provementi dalla provincia e le restrizioni varate nei confronti del clero regolare in materia d'insegnamento secondario erano destinate a lasciare il segno.
Tra i più autorevoli tecnici e codificatori della politica riformatrice della monarchia sabauda, il C. ebbe comuni con lo Zoppi (che lo precedette nella massima carica di gran cancelliere, a conclusione di una lunga carriera spesa al servizio dell'assolutismo regio) la scrupolosa serietà e competenza pratica nell'applicazione delle leggi e la tenace dedizione nell'assolvimento laborioso e disciplinato dei compiti amministrativi connessi con la difesa dei diritti regi. "Con essi - osserva giustamente il Quazza - si tocca veramente la natura profonda del gruppo dirigente sabaudo: di legulei privi di una vera e propria solida formazione culturale, filosofica e storica, spiriti addestrati alla analisi dei problemi pratici, non adusati alla sintesi e al giudizio generale richiesti dalla politica". L'unico filo conduttore delle loro scelte, l'unica ambizione che ebbe a sorreggerli in tanti anni di assorbenti e oscure fatiche, fu piuttosto la volontà, non più celata dopo il 1730, di farsi largo a spese della vecchia aristocrazia e di convalidare quindi giuridicamente, ma senza alcun risvolto in senso politico e sociale, Pelezione della borghesia di toga e delle professioni ai ranghi nobiliari scaturita dall'alleanza in atto fra dinastia e ceto medio.
Il C. morì a Torino il 7 apr. 1779 e fu sepolto a Verduno. Il figlio, Carlo Giuseppe Casimiro, morto senza prole il 22 marzo 1799, lasciò eredi in parti uguali gli ospedali di Carità e del S. Giovanni di Torino.
Fonti e Bibl.: Archivio di Stato di Torino, Sezione I, Materie ecclesiastiche, cart. 1a, mazzi XII, XIII; Istruzione pubblica, mazzi II, IV, V; Materie economiche, Demanio, donativi, sussidi, mazzi I di 2ª addiz., IV, V, VI, XI, XII; Finanze, mazzo 1º di addiz.; Lettere particolari, C, mazzi 6, 7, 8; Z, mazzo 4 (lettere del C. al gran cancelliere Zoppi); Sezioni Riunite, Patenti Piemonte, registri 151, E 32v; 152, f. 21v; 166, f.29; 209, f. 4v; Controllo Finanze, registri I, f. 150; 3, f. 119; 8, f. 43; 9, f. 69; 16, f. 25; 22, f. 137; 41, f. 166; Biblioteca Reale di Torino, Varia, 267/2, 549/100; Ibid., Misc.Storia Patria 19/3, 64/46; T. Vallauri, Storia delle Univers. degli studi del Piemonte, Torino 1845-46, III, pp. 51, 56 s., 95, 100, 186 s.; D. Carutti, Storia del regno di Vittorio Amedeo II, Torino 1856, pp. 379 s., 456; Id., Storia del regno di Carlo Emanuele III, Torino 1859, I, p. 13; II, pp. 50 s., 155, 275; C. Dionisotti, Storia della magistr. piemont., II, Torino 1881, pp. 206-208, 256, 425; D. Carutti, Storia della corte di Savoia durante la Rivoluzione francese e l'Impero, Torino-Roma 1892, p. 367; M. Viora, Le costituzioni piemontesi 1723-1729-1770, Torino 1928, II, pp. 330 ss.; G. Quazza, Le riforme in Piemonte nella prima metà del Settecento, Modena 1957, ad Indicem;F. Cognasso, Storia di Torino, Milano 1959, p. 184.