GRIMALDI, Carlo
Figlio di Raniero (I) e di Margherita Ruffo dei conti di Sinopoli, nacque alla fine del XIII secolo, forse in Calabria. Scarse sono le notizie circa i suoi primi anni, vissuti al seguito del padre nelle sue peregrinazioni tra Provenza, Francia e Italia meridionale dove probabilmente, presso i familiari della madre, potenti baroni della Calabria Ulteriore, trascorse l'infanzia. Come altri membri della sua famiglia il G. beneficiò largamente della protezione dei sovrani angioini, in particolare di re Roberto che lo armò cavaliere e lo nominò, benché giovanissimo, capitano regio dell'Aquila.
Il passaggio di Genova sotto la signoria di Roberto d'Angiò, avvenuto nel 1318, riportò il G. nella sua patria d'origine. Qui partecipò attivamente alla guerra civile tra guelfi e ghibellini e, nel 1324, ricevette il primo comando importante, quale capitano di una squadra di dieci galee, incaricata di sottomettere la colonia genovese di Pera rimasta tenacemente ghibellina sotto la protezione dall'imperatore bizantino Andronico II. La spedizione si rivelò un completo fallimento perché il G., dopo avere corseggiato per l'Egeo, giunto davanti a Pera si trovò di fronte una forza navale superiore alla sua; riuscì a sfuggire alla battaglia raggiungendo il Mar Nero, dove per approvvigionarsi attaccò e saccheggiò varie località lungo le coste del Caucaso. Nel trovare la via del ritorno a Genova sbarrata, pensò di forzare il Bosforo con l'aiuto della potente flotta corsara del signore di Sinope, Ghazi Kelebi, ma i ghibellini di Pera lo batterono sul tempo, alleandosi con quest'ultimo prima di lui. L'emiro finse di accettare le proposte di amicizia dei guelfi, invitando il G. e gli altri capitani genovesi a un banchetto nella propria residenza dove una volta giunti però, essi furono fatti prigionieri e, alcuni, uccisi, mentre le galee furono affondate. Il G. ebbe salva la vita, ma fu costretto a languire nelle carceri di Sinope alcuni anni, finché non riuscì a farsi inviare da Genova il denaro per il riscatto.
Lo smacco subito nel Mar Nero non intaccò il suo prestigio perché, una volta rientrato in patria, re Roberto lo nominò rettore di Ventimiglia e, in questa veste, andò ad assumere il comando delle operazioni militari contro i ghibellini dell'estremo Ponente ligure. Nell'autunno 1329 espugnò, dopo un duro assedio, il castello di Dolceacqua, roccaforte dei Doria, e il 9 febbr. 1331 firmò, a nome dei guelfi di Ventimiglia e delle terre vicine, una tregua con l'opposta fazione, prologo della pace che, in settembre, re Roberto sarebbe riuscito a imporre in tutto il territorio genovese. Il clima di concordia venutosi a creare tra le fazioni durò solo quattro anni, perché nel febbraio 1335 i ghibellini si impadronirono del potere a Genova e, dichiarata decaduta la signoria di Roberto d'Angiò, elessero capitani del Popolo Raffaele Doria e Galeotto Spinola. Prima mossa del nuovo regime fu l'espulsione dei capi del partito guelfo e, tra questi, in primo luogo, "dei principali" delle famiglie Fieschi e Grimaldi. Tra i colpiti dal bando vi fu anche il G. il quale, però, al momento della rivolta non si trovava a Genova ma, con tutta probabilità, a Ventimiglia, dove, come visto, deteneva la carica di rettore, titolo che nascondeva in realtà una sorta di signoria personale sulla città, nonostante questa appartenesse, giuridicamente, al Comune di Genova. Volendo liberarsi da tale dipendenza, quanto mai importuna da che i Genovesi si erano ribellati al suo sovrano, egli impose ai Ventimigliesi di fare atto di dedizione a re Roberto quale conte di Provenza, cosa che avvenne il 25 maggio 1335. Il governo sulla città di Ventimiglia non gli fu però confermato, ma tale perdita fu ampiamente compensata dall'acquisizione di Monaco.
La rocca, cinta di mura a picco sul mare e munita di due castelli (il superiore e l'inferiore), era stata indicata in un famoso diploma di Federico I Barbarossa del 1162 come limite occidentale del dominio genovese, costituendo una vera e propria enclave ligure in un territorio ormai già provenzale. La sua importanza strategica e l'eccellente porto naturale ne avevano fatto una delle più importanti basi marittime genovesi, il cui possesso era stato a lungo conteso, nel corso delle endemiche guerre civili cittadine, tra i guelfi e i ghibellini. I primi si erano impadroniti di Monaco una prima volta nel 1297, ma avevano dovuto restituirla al Comune quattro anni dopo, riavendone il possesso fra il 1307 e il 1309 e, più tardi, fra il 1317 e il 1327. In quell'anno era tornata ai ghibellini (e in particolare agli Spinola, che già dal 1304 vi avevano ottenuto case e terre da Carlo II d'Angiò) ma nel 1328 era stata loro nuovamente tolta, per conto del re Roberto, dal siniscalco di Provenza Giovanni d'Aigueblanche. Con lui, nel 1329, i Monegaschi avevano stipulato una convenzione, riconoscendo il sovrano come loro signore e impegnandosi a non ricevere più per podestà un Doria o un ghibellino.
Le fasi che portarono in seguito i Grimaldi a rendersene padroni risultano abbastanza oscure, non esistendo alcun documento che attesti, da parte del re, un'eventuale investitura della rocca al G. o a qualche altro membro della famiglia. Si può però supporre, come del resto accennato da alcuni autori, che intorno al 1331, dopo la rivolta di Genova, re Roberto abbia conferito ai Grimaldi, se non la signoria vera e propria, quanto meno la custodia della rocca, probabilmente quali ufficiali regi. L'acquisizione, nel 1338, dei beni già posseduti dagli Spinola e da altri ghibellini precedentemente espulsi rafforzò la base patrimoniale del G. così che, certo prima del 1342, la sua divenne una signoria di fatto, peraltro condivisa con altri membri della famiglia come i cugini Antonio e Gabriele. Essi e gli altri fuorusciti guelfi che vi si erano stabiliti, scacciandone gli abitanti di parte ghibellina, seppero conservare a Monaco la fama, ormai consolidata da tempo, di covo di pirati da dove salpavano, per veloci incursioni lungo le coste tirreniche, galee e altri navigli leggeri, capaci all'occorrenza di spingersi fino alle coste della Tunisia e della Grecia.
A conferma delle straordinarie capacità navali sviluppate dalla marineria monegasca (e di centri vicini come Mentone, Nizza e Villafranca), nell'aprile 1338 il G. si accordava con il re di Francia Filippo VI, in guerra con l'Inghilterra, entrando al suo servizio con venti galee e una galeotta: un numero quasi pari a quello che a Genova, sempre per lo stesso sovrano, aveva armato poco prima Aitone Doria. Le due squadre, quella guelfa del G. e quella ghibellina del Doria, raggiunsero l'Atlantico seguendo itinerari differenti, nel timore di uno scontro; il viaggio fu estremamente lento, rallentato da diserzioni e da diversioni mercantili e piratesche, tanto da avvalorare i sospetti che tale procedere fosse il risultato delle pressioni inglesi. Non a caso, nel gennaio di quell'anno re Edoardo III aveva inviato a Genova il vice-ammiraglio d'Aquitania, il genovese Nicolò Usodimare, al fine di convincere Doria e il G. a non accettare le offerte francesi o, quanto meno, a dare tempo al sovrano di sbarcare in Francia con il suo esercito. In effetti le due squadre liguri giunsero solo in autunno inoltrato nella Manica e, soprattutto, quando l'esercito inglese l'aveva già varcata. Il G. condusse le sue navi a svernare nel porto di Calais, uscendone solo nel marzo 1339, forte di diciannove galee e di una trentina di barche normanne. Egli si diresse dapprima verso il golfo di Biscaglia dove, al largo di La Rochelle, si impadronì di un convoglio inglese, conquistando alla fine di aprile le cittadine di Bourg e Blaye. Di qui la sua squadra, ridotta nel frattempo a dodici galee, risalì verso Nord, per compiere una serie di incursioni lungo le coste inglesi. Fallito un primo tentativo di assaltare Harwick e Southampton, egli riuscì comunque a sbarcare in vari punti della costa, saccheggiando i porti di Hastings, Dover e Folkestone, e facendo ritorno a Calais, carico di bottino, ai primi di giugno.
Analoghi successi aveva nel frattempo ottenuto anche il Doria al quale, per tenerlo separato dal G., era stata assegnata la vigilanza delle coste fiamminghe e olandesi; la sua squadra, tuttavia, era stata scossa da ammutinamenti e da diserzioni così che, in pratica, essa nel corso dell'estate si era dissolta e parecchie fra le sue galee avevano fatto ritorno a Genova. Qui le notizie diffuse dai reduci su quanto accaduto in Francia (soprattutto riguardo a repressioni ai danni degli ammutinati in realtà mai verificatesi) erano state la causa indiretta della ribellione che, nel settembre di quell'anno, aveva portato al potere il primo doge popolare, Simone Boccanegra.
Questi avvenimenti avevano toccato solo marginalmente la squadra del G., anche se due delle sue galee erano state assalite e catturate dai ghibellini lungo la via del ritorno. Con dodici galee, a settembre inoltrato, egli cercò di sorprendere la flotta peschereccia inglese davanti a Yarmouth, ma senza successo, così che, con l'approssimarsi dell'inverno, la sua squadra fu posta in disarmo e gli uomini inviati a rinfoltire l'esercito regio. Nonostante le non eccelse prove fornite, Filippo VI trattenne al proprio soldo tanto il G. quanto il Doria ai quali, sebbene acerrimi nemici, conferì nel dicembre 1339 il monopolio del commercio di Aigues-Mortes, con l'impegno di tenere le coste della Linguadoca sicure dagli attacchi corsari. Così, agli inizi dell'anno seguente le galee del G. si trasferirono nel Mediterraneo, ed egli ebbe modo di riannodare i rapporti con i suoi familiari a Genova e con i partigiani guelfi; nel febbraio 1341 figura infatti tra i firmatari della tregua quinquennale siglata tra costoro e il doge Simone Boccanegra, in base alla quale i fuorusciti, insieme con il permesso di rientrare in patria, riottenevano tutti i beni sequestrati, anche se per un periodo di soli cinque anni e con pesanti condizioni.
Questo riavvicinamento alle vicende genovesi fu di breve durata, perché già il mese dopo egli ricevette dal re di Francia l'ordine di raggiungere l'Atlantico per dare il suo contributo alla guerra di successione di Bretagna, che vedeva contrapposti Carlo di Blois (sostenuto da Filippo VI) e Giovanni di Montfort, appoggiato dall'Inghilterra. Le galee del G. si distinsero, in settembre, nell'assedio del castello di Chenonceau sulla Loira e, nell'estate del 1342, in quello di Brest; qui però, il 18 agosto, la sua squadra fu sorpresa e quasi completamente distrutta dalla flotta inglese. Un'altra sconfitta il G. (questa volta quale capitano di 1300 uomini) subiva alla fine di settembre a Morlaix, mentre le sue ultime galee furono incendiate, agli inizi del 1343, da Olivier de Clisson.
Queste disastrose esperienze e la stipula di una tregua lo indussero a fare ritorno a Monaco, dove i suoi familiari, in particolare il fratello Luciano, avevano continuato nelle scorrerie piratesche, dirette soprattutto contro i ghibellini di Genova. Contro la rocca, nel corso del 1343 e nell'anno successivo, il doge Boccanegra organizzò diverse spedizioni, senza però riuscire a impadronirsene. L'ostinazione dei Grimaldi fu anzi tale che essi - segnatamente il G., insieme con il fratello Antonio e il nipote Nicolò - furono esclusi dalla tregua conclusa nel 1345 tra i guelfi e i ghibellini genovesi. La lotta contro il governo ghibellino di Genova si protrasse pertanto ancora più aspra, ma nel contempo egli operò per costruirsi una propria signoria territoriale, in quanto il possesso di Monaco era, come detto, tenuto a nome del re di Napoli (e conte di Provenza), e soprattutto era condiviso con altri familiari e consorti. Il 19 apr. 1346, pertanto, egli acquistava da Manuele Vento i diritti signorili su Mentone per il prezzo di 12.000 fiorini d'oro e, due anni dopo, rilevava dai Salvago il possesso di Castillon. A queste due terre si sarebbe aggiunta, nel 1355, Roccabruna, acquistata dai Lascaris, nonché case e terre in Ventimiglia e nella sua giurisdizione, fra cui quella parte del territorio della Mortola ancora oggi denominata "Grimaldi".
Nel frattempo il G. aveva accettato, nel gennaio 1346, una nuova condotta per conto del re di Francia, in procinto di riaprire le ostilità con l'Inghilterra. Tra Monaco e Nizza vennero allestite in poche settimane ben trentadue galee e una galeotta, sulla quale si imbarcarono circa 7000 uomini accorsi da tutta la Riviera di Ponente. La flotta salpò da Nizza ai primi di marzo, facendo vela verso Ponente, tallonata da quella genovese dell'ammiraglio Simone Vignoso, timoroso che il G. si dirigesse in realtà verso Genova. Il Vignoso lo bloccò nel porto di Marsiglia e fu solo per l'intervento del doge Giovanni da Murta che la squadra monegasca poté uscirne. Anche questa volta il viaggio procedette a rilento, perché il G. si attardò in azioni piratesche lungo le coste della Catalogna, del Portogallo e dell'Aquitania, raggiungendo la foce della Senna solo alla metà di agosto, quando Edoardo III era sbarcato in Normandia da oltre un mese e il suo esercito già si era avvicinato a Parigi, cogliendo di sorpresa i Francesi. I balestrieri del G. e parte delle sue ciurme furono fatti sbarcare in tutta fretta e avviati a raggiungere il contingente genovese presso l'esercito del re; essi si trovarono così coinvolti nella sfortunata battaglia di Crécy (26 ag. 1346) in cui l'armata francese subì una completa disfatta.
Secondo Giovanni Villani nella battaglia il G. trovò la morte insieme con Aitone Doria, che guidava il corpo di balestrieri liguri; la notizia, almeno per il G., è però priva di ogni fondamento, tanto più che la sua presenza a Crécy appare assai improbabile. Lo stesso giorno della battaglia il G. riceveva infatti l'ordine di prendere il mare con le sue galee e, nelle settimane seguenti, lo troviamo impegnato nella Manica a sostegno di Calais, assediata da Edoardo III; anzi, il 17 settembre egli coglieva una bella vittoria su un convoglio che recava rinforzi e viveri all'esercito inglese. Licenziato in novembre dal servizio francese, su invito di Filippo VI accettò di mettersi al soldo del re di Maiorca Giacomo III che, spodestato dal cugino Pietro IV d'Aragona, aspirava a riconquistare il proprio Regno con l'aiuto del sovrano francese e di papa Clemente VI. Nella primavera del 1347 egli condusse pertanto una flotta franco-monegasca all'attacco di Maiorca, ma senza successo. Continuò comunque a servire il sovrano maiorchino fino alla morte di questo, nell'agosto 1349, mentre è incerta la sua partecipazione l'anno successivo alla spedizione congiunta castigliano-aragonese contro i Mori di Gibilterra, cui il G. e il fratello Antonio erano stati invitati da Clemente VI. Più probabile appare la sua presenza nella flotta allestita nel 1350 da vari nobili genovesi per recare soccorso, in Sicilia, alla fazione latina dei Palizzi e dei Chiaramonte, durante la minorità di re Ludovico d'Aragona.
Una volta ritornato a Monaco il G. trovò una situazione estremamente difficile: in quello stesso anno, infatti, la regina Giovanna I, nipote ed erede di Roberto d'Angiò, aveva dovuto restituire Ventimiglia ai Genovesi, quale prezzo del loro aiuto contro Luigi d'Ungheria. Quattro anni dopo la città era recuperata dagli Angioini e il G., insieme con il fratello Antonio, venne nominato vicario della Contea di Ventimiglia e della valle di Lantosca. Nel 1357 Simone Boccanegra, rieletto da poco tempo doge, inviava contro il G. una nuova, potente spedizione che, guidata da Antonio Magnerri e Nicolò Veneroso, riconquistava nell'agosto di quell'anno Ventimiglia e quindi passava ad assediare per terra e per mare Monaco.
Qui il G. morì nello stesso 1357, non si sa se per malattia o in combattimento; egli era però di certo defunto quando, agli inizi di settembre, il figlio Raniero (II) scendeva a patti con i Genovesi per la resa di Monaco e di Roccabruna.
Dal matrimonio con Luchinetta Spinola, figlia di Gherardo, signore di Lucca e di Tortona, il G. ebbe diversi figli, tra i quali vanno ricordati Lancillotto e Ruffo (che furono entrambi consiglieri e ciambellani della regina Giovanna), Giovanni Francesco e Carlo che, sposo di Porzia Sanseverino, fu capostipite della linea siciliana della famiglia.
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