GALLUZZI, Carlo
Nacque a Milano il 4 luglio 1616 nella parrocchia di S. Nazaro in Brolio, da Livia e Giacomo Antonio, di famiglia originaria di Trento. Dal suo matrimonio, in anno imprecisato, con Paola Cabiati nacque nel 1651 Giacomo Antonio.
Fu stimato come erudito, conoscitore profondo di scritture e genealogista. In realtà il G. fu un abile falsario di documenti ma riuscì, finché rimase in vita, a mantenere celata questa sua attività illegale e a circondarsi della stima dei suoi contemporanei grazie alle sue competenze storiche e antiquarie. Intorno all'anno 1660 fu chiamato a riordinare le carte d'archivio del monastero Maggiore di Milano; tra i registri del monastero, nell'Archivio di Stato di Milano, ancora oggi sono conservati alcuni suoi inventari a testimonianza del lavoro che ivi il G. svolse con scrupolosità.
In quegli anni venne a stretto contatto con le più nobili e cospicue famiglie di Milano, in particolare con i Visconti, i Castiglioni, i Fagnani, gli Stampa, i Settala, i Prata, i Moroni: quasi tutte le sue falsificazioni diplomatiche furono prodotte a scopi genealogici in favore di queste e di altre importanti famiglie. Il primo a utilizzare un atto falso del G. fu il marchese Teobaldo Visconti nel 1654, per ottenere l'ammissione nel Collegio dei giureconsulti (Stemma gentilium Theobaldi Vicecomitis Mediolanensis, Milano 1654) e dopo di lui molti altri dei Taverna, Aresi, Pionno, Brivio sempre con lo scopo di arricchire il proprio albero genealogico di illustri antenati. Di solito alle famiglie il G. dava la copia autentica dell'atto; qualche volta però, o per ricavarne un maggiore guadagno (e a questo fine spesso la stessa falsificazione era utilizzata contemporaneamente per più persone), o per soddisfare qualche cliente desideroso di avere pergamene e documenti antichi che riguardassero la propria famiglia, diede l'originale falso da lui pubblicato dichiarando che era di sua proprietà o che lo aveva avuto in dono dalla badessa del monastero Maggiore. Ma la notizia di queste pergamene cedute a privati giunse proprio alla badessa che accusò il G. di averle trafugate dall'archivio del monastero. A seguito di questa accusa di furto - dalla quale il G. si guardò bene dal discolparsi per non dover ammettere il reato ben più grave di falsificazione - egli subì perquisizioni e scomuniche e trascorse un periodo in carcere. Così, come avverte l'archivista che nel 1687 fece una nuova revisione delle scritture del monastero Maggiore, il G. non solo non ordinò le carte che gli erano state consegnate dal monastero a tal fine, ma "le saccheggiò asportandone infinità che nel tempo della distruzione del tiranno Federico Barbarossa di biasimevole memoria furono depositate da molte casate di nobiltà milanese nel medesimo monastero sapendo che era sotto la protezione imperiale" (Archivio di Stato di Milano, Fondo di Religione, Monastero Maggiore, Registri). Se lasciamo da parte la notizia del deposito di atti fatto nel monastero da casate milanesi al tempo del Barbarossa - voce sparsa ad arte dal G. stesso, probabilmente per spiegare come mai proprio nel monastero Maggiore, presso il quale era archivista, si conservassero tante pergamene riguardanti esclusivamente famiglie private - si può concludere che le pergamene che il G. dava ai suoi clienti non provenivano dall'archivio, ma dalla sua officina di falsario. Gli atti falsi conservati oggi tra le carte del monastero Maggiore sono evidentemente quelli che furono restituiti perché ritenuti rubati, mentre quelli rimasti ai clienti sono conservati come preziosi cimeli in alcuni archivi privati. Grazie alla sua scaltrezza, nessuno allora sospettò che il G. fosse un falsario: la sua attività fu scoperta solo quando morì all'improvviso in casa sua e quindi lì fu rinvenuto tutto il materiale di cui egli si serviva per l'esercizio della sua arte illecita: pergamene in bianco, inchiostro speciale da lui stesso preparato, appunti con formulari, atti originali, alberi genealogici e falsificazioni già predisposte. Il G. infatti morì di sincope il 9 genn. 1672, nella propria abitazione posta in quella stessa parrocchia di S. Nazaro in Brolio dove era nato.
Sulla data e sulle circostanze della morte del G. gli eruditi, dal Muratori in poi, riportarono notizie contrastanti confondendo soprattutto il padre Carlo con il figlio Giacomo Antonio, anch'egli falsario e giustiziato dopo un clamoroso processo. Fondamentale per la ricostruzione delle vicende biografiche e per l'attribuzione al G. delle falsificazioni milanesi superstiti della seconda metà del sec. XVII è il contributo della Santoro (1924), che getta finalmente luce sull'attività del falsario milanese in considerazione dell'importanza che essa riveste dal punto di vista diplomatico e storico, ma anche come speciale e caratteristica manifestazione dell'epoca. La Santoro segnala agli studiosi, oltre alle falsificazioni galluzziane già note, alcuni atti falsi presenti nell'Archivio storico civico di Milano, tanto più gravi degli altri perché perpetrati in un volume di ente pubblico; molto probabilmente tali documenti risalgono al 1657, anno in cui il G. presentò supplica al tribunale di Provvisione per avere in prestito i libri di storie fatti stampare dal tribunale stesso, spiegando che egli si affaticava a gloria di Milano e che ben presto avrebbe pubblicato un'opera stimata da tutti per il decoro della città. In un intervento più recente (1956) la Santoro segnala altre tre falsificazioni prodotte dal G. e dal figlio per la famiglia Settala; in particolare la prima di queste, del 552, è la più antica tra quelle stese dal falsario e senz'altro la più ricca di ingenuità probabilmente perché per atti così antichi il G. non ebbe modelli cui attenersi.
Il figlio Giacomo Antonio nacque a Milano il 4 genn. 1651 e fu in quell'anno tenuto a battesimo da Carlo Castiglioni, vicario di Provvisione della città.
Fu allievo della scuola di grammatica del collegio di Brera, da dove passò a coprire l'ufficio di coadiutore nella cancelleria delle confiscazioni del Magistrato straordinario dello Stato di Milano. Dopo la morte del padre, fu rintracciato da vari personaggi in vista della città e sollecitato affinché ricercasse loro, tra le carte ereditate, atti relativi alle rispettive famiglie, oppure perché ne procurasse degli altri falsificandoli come già suo padre aveva fatto. Spinto probabilmente da queste richieste, oltre che dalla speranza di facili guadagni, tentato dal cospicuo materiale rimastogli a disposizione e confidando nel fatto che suo padre era riuscito per tutta la vita a non destare alcun sospetto sull'illegalità del suo lavoro, Giacomo Antonio decise di seguire l'arte paterna. Di questa, sin dall'infanzia, doveva aver appreso i segreti grazie al costante esempio che ne aveva in casa, ma grazie anche alle frequenti incursioni negli archivi di Milano per aiutare il genitore a ordinarli; da questi sottrasse anche molte scritture antiche delle quali non mancò di servirsi quando scelse di dedicarsi a tempo pieno all'attività di falsario. La sua prima falsificazione fu a favore del segretario Francesco Crippa che aveva conosciuto da giovanetto quando, per incarico di suo padre, gli aveva portato alcuni atti. Contemporaneamente pare che, frequentando la Biblioteca Ambrosiana, conoscesse il dottor Giuseppe Pusterla il quale preparava la pratica per la sua ammissione nel Collegio dei giureconsulti. Venne così a sapere che questi desiderava illustrare la sua ascendenza ed allora gli diede, a distanza di poco tempo, numerosi documenti spiegando che li aveva trovati tra le carte del padre. Il suo errore più grande avvenne probabilmente quando, vedendo il Pusterla molto amico del Crippa, pensò di far derivare le due famiglie da un unico capostipite e andò tanto oltre nell'inventare diritti a loro favore da ledere gli interessi di altre persone e di enti pubblici: questi non tardarono a sollevare proteste e accuse e nel 1678 finalmente fu sporta formale denuncia contro Giacomo Antonio, che fu arrestato e tradotto in carcere. Nella perquisizione immediatamente compiuta nella sua casa, furono rinvenute prove inequivocabili: pergamene, rogiti di notai, un'ampolla con inchiostro rosseggiante, appunti con formulari. Cominciò in quell'anno un lungo processo terminato con la condanna del G., reo confesso, per aver prodotto falsificazioni di atti, instrumenti e privilegi. Condannato a morte fu giustiziato il 10 sett. 1685 sulla piazza di S. Stefano in Brolio.
Fonti e Bibl.: Le falsificazioni sono conservate nell'Archivio di Stato di Milano (Fondo di Religione, Monastero Maggiore, Registri; Museo diplomatico; Senato, Interazioni e Privilegi): cfr. Santoro, infra. Notizie biografiche (con numerose divergenze) in L.A. Muratori, Delle antichità estensi, I, Modena 1717, p. 37; G. Giulini, Memorie, I, Milano 1771, p. 336; E. Giglio-Tos, Di un diploma apocrifo del re Arduino e della sua incoronazione, Torino 1907, pp. 45-65; G. Biscaro, I maggiori dei Visconti, signori di Milano, in Arch. stor. lombardo, s. 4, XVI (1911), pp. 18, 33, 39; C. Santoro, Di alcune falsificazioni in un registro delle "Lettere ducali" dell'Archivio storico civico, ibid., s. 6, I (1924), pp. 340-366; Id., Una nuova falsificazione galluzziana, in Studi storici in memoria di mons. A. Mercati, Milano 1956, pp. 357-361.
Per Giacomo Antonio cfr.: G.B. Castiglioni, Bibliografia milanese ad uso del dipartimento d'Italia, Milano 1683, p. 74; F. Argelati, Bibliotheca scriptorum Mediolanensium, II, Milano 1745, coll. 1037, 1105B; G. Tiraboschi, Riflessioni sugli scrittori genealogici, Padova 1789, p. 85; A. Fumagalli, Istituzioni diplomatiche, II, Milano 1802, pp. 419 ss.; C. Santoro, Di alcune falsificazioni…, cit.