FENZI, Carlo
Nato a Firenze il 24 nov. 1823, terzogenito del banchiere Emanuele e di Ernesta Lamberti, come d'uso nelle ricche famiglie nobili fu inviato all'estero per compiere i primi studi ed imparare le principali lingue. Sotto la sorveglianza di un istitutore, dal 1832 al 1838, per successivi bienni, col fratello Sebastiano fu in collegio a Vienna, a Londra ed infine a Parigi, dove ebbe come compagno di studi l'amico d'infanzia e futuro uomo politico conte L. G. de Cambray Digny.
Nell'ottobre 1842 si recò a Pisa per studiare matematica e fisica presso quella università. Nel Granducato di Toscana l'ateneo pisano rappresentava, in quel periodo, il più acceso centro di dibattito politico e patriottico in favore dell'unità italiana. Il giovane F., che nei primi tempi del suo soggiorno alloggiava presso la locanda dell'Ussero, ritrovo della gioventù universitaria politicamente più irrequieta, entrò ben presto in relazione con numerosi agitatori di varia ispirazione politica. Alcuni hanno fatto risalire la sua adesione alle idee repubblicane al 1840, quando, insieme col fratello Sebastiano, si sarebbe affiliato alla Giovine Italia, ipotesi basata sul solo fatto che risale al 1838 il loro incontro a Parigi col segretario di Mazzini G. Lamberti, cugino della loro madre. Tuttavia dalle Carte Fenzi risulta che egli non entrò in contatto epistolare diretto con G. Mazzini prima del 1844; mentre nel 1845 sembrerebbe certo che, a Firenze, il F. con A. Mordini e L. Cempini fosse a capo di una società segreta avente come obbiettivo l'indipendenza d'Italia e la costituzione di una repubblica unitaria.
Il F. si mostrava insofferente verso formule ideologiche troppo rigide: per lui erano più importanti la prassi che la dottrina, la diffusione delle idee piuttosto che una cospirazione sterile e circoscritta. Secondo una sua definizione, uomini come il Mazzini da un lato o Balbo, d'Azeglio e Gioberti dall'altro erano troppo "sistematici", ovvero troppo condizionati da un'ideologia e troppo poco duttili circa i mezzi per conseguire l'identico obbiettivo dell'indipendenza e unità d'Italia, volendo il primo arrivarci solo con la forza del popolo e i secondi solo con l'aiuto dei principi. Il F. al contrario era convinto che, rimanendo invariato il fine da perseguire, i mezzi dovessero piegarsi alle circostanze, alle prospettive del momento storico. Infatti, mentre dialogava col Mazzini, non disdegnava contatti con esponenti del liberalismo moderato come M. d'Azeglio, fautore della "congiura al chiaro del giorno".
Nel 1846, intravedendo la possibilità di una azione più concreta ed efficace, affiancò col suo gruppo il movimento per le riforme che a Pisa faceva capo al professore G. Montanelli e svolse in armonia con esso un'intensa attività pubblicistica con la stampa clandestina di opuscoli e manifestini antigovernativi, che effettuava con un torchio nascosto nel palazzo paterno di via S. Gallo a Firenze. Il F. si fece anche promotore di iniziative volte a ravvivare negli Italiani la coscienza e l'orgoglio di appartenere ad un'unica comunità nazionale, come nel caso della sottoscrizione nazionale promossa insieme con l'amico C. Della Ripa per offrire una spada d'onore a G. Garibaldi, reduce dalle imprese di Montevideo: tale idea rappresentò il primo attestato di riconoscenza manifestato in Italia al generale nizzardo.
Nel dicembre del 1846 fu costretto dal padre, che aveva scoperto i suoi contatti epistolari col Mazzini, a troncarli definitivamente dietro la minaccia di essere rinnegato come figlio e diseredato. Vi si piegò, pur rimanendo anche in seguito in contatto con alcuni mazziniani. La sua speranza, in quel momento di crisi internazionale, era di recarsi in Piemonte e, grazie ai buoni uffici del d'Azeglio, poter diventare ufficiale di artiglieria dell'esercito sabaudo. Ma il padre era assolutamente contrario ai progetti del figlio, e per distoglierlo all'inizio del 1847 lo inviò a Odessa sul Mar Nero per riscuotere certi crediti suoi e di altri uomini d'affari fiorentini. Cosicché solo a fine ottobre 1847, al suo ritorno in Toscana, egli poté partecipare al movimento per le riforme e la libertà di stampa concesse dal granduca, entrando a far parte della guardia civica, alla cui organizzazione e al cui addestramento si dedicò con entusiasmo, ospitandone spesso le esercitazioni nel cortile di palazzo Fenzi.
Il 22 marzo 1848 partì per la Lombardia come sottotenente del io battaglione di volontari fiorentini. Prese parte ad alcuni scontri a fuoco ed assistette da una località vicina, dove la sua compagnia era a riposo, alla battaglia di Curtatone che, in realtà, fu un massacro dei volontari toscani martellati da una preponderante artiglieria austriaca. Col suo reparto arrestò a Rivalta la ritirata delle truppe toscane reduci da Curtatone e da Montanara, favorendone il riordino. In seguito, con i resti del suo battaglione, si unì all'esercito piemontese, fiancheggiandone l'azione fino al momento dell'armistizio firmato a Milano dal generale Salasco il 9 ag. 1848, che sanciva la riconsegna della Lombardia nelle mani degli Austriaci.
Tornò a casa non rassegnato, ma profondamente deluso dell'inefficienza delle truppe volontarie, poco addestrate e indisciplinate, facili allo scoramento e alla diserzione. Quell'esperienza lo aveva ancor più convinto che solo il concorso dell'esercito regolare di una forte monarchia sarebbe stato determinante per il conseguimento dell'indipendenza. Tramontata la prospettiva di una guerra condotta dalle monarchie italiane sostenute dai liberali moderati-, il F. collaborò a Firenze col movimento democratico che avrebbe poi portato al governo, nell'ottobre del 1848, G. Montanelli e F. D. Guerrazzi. Nel settembre 1848 il F., che era editore della Rivista indipendente diretta dall'amico L. Cempini, aderì alla Società nazionale per la confederazione e prese parte al suo congresso a Torino.
Fine della società era arrivare ad un patto federativo che portasse all'indipendenza assoluta dell'Italia dall'Austria e ad una confederazione di Stati, fra i quali si sarebbero dovuti annoverare un Regno dell'Alta Italia (Piemonte, Ducati, province lombardo-venete) e gli altri Stati italiani nella loro integrità territoriale (Stato della Chiesa, Regno di Napoli, Regno di Sicilia, Granducato di Toscana, Repubblica di San Marino).
Nel gennaio 1849 si recò a Roma con altri sedici deputati del Circolo del popolo di Firenze per spingere il Circolo del popolo di Roma e il nuovo governo repubblicano, nato dopo la fuga di Pio IX, a formare un comitato di circoli che proclamasse la Costituente italiana. secondo il programma enunciato dal Montanelli a Livorno l'8 ott. 1848, e al quale si auspicava l'adesione del granduca Leopoldo II. Dopo la fuga del granduca, nel febbraio 1849, si costituì una Assemblea provvisoria toscana, e il F. ne fece parte fino all'aprile 1849, quando partì per Venezia come inviato straordinario del governo provvisorio toscano. Travolto il governo provvisorio dalla restaurazione granducale, rassegnò le dimissioni da un incarico oramai senza valore e si arruolò nella guarnigione della città lagunare, rimasta con Roma, la sola in grado di resistere ancora al ritorno in forze degli Austriaci in Italia. Accolto come aiutante di campo nello stato maggiore del generale G. Pepe, fu testimone dei principali fatti d'arme di quell'assedio, primo fra tutti il bombardamento e la strenua difesa del forte di Marghera. Rimase fino alla caduta di Venezia, il 30 ag. 1849, poi, ripugnandogli di rientrare in famiglia in una Firenze occupata dalle truppe austriache, scelse il vicino esilio di La Spezia nel Regno di Sardegna.
Risulta tuttavia che fosse rientrato a Firenze nel gennaio del 1850, quantomeno per partecipare ad una riunione di esponenti democratici in casa di uno di essi, G. Brunelli. Nel corso di quell'incontro sarebbero state poste le basi per la creazione di una associazione segreta di orientamento mazziniano aperta, per quanto riguardava l'obiettivo dell'indipendenza, alla collaborazione con i moderati filopiemontesi, accantonando la pregiudiziale della forma di governo che avrebbe assunto il futuro Stato. In una successiva riunione, tenutasi a Firenze il 10 ag. 1850, alla quale intervennero anche delegati di Pisa, Lucca e Livorno. il F. fu nominato con Bonichi e Brunelli membro del comitato centrale della società. L'anno successivo essa contava solo in Firenze 2.500 affiliati e poté dare un consistente contributo al prestito mazziniano.
Rientrato in famiglia alla fine del 1850, poco dopo la morte del fratello Orazio, si dedicò alla cura e alla tutela dei nipoti orfani, dei quali divenne un secondo padre, accantonando i sogni di carriera militare in Piemonte e affrontando con grande impegno, a fianco del padre, la nuova realtà di uomo d'affari e di amministratore. La laurea in scienze matematiche, conseguita nel dicembre 1846, e la sua passione per la geologia e la mineralogia gli consentirono di occuparsi con competenza non solo amministrativa ma anche tecnica di affari riguardanti ferrovie, miniere e ferriere, settori nei quali gli investimenti finanziari del Banco Fenzi erano assai consistenti, dirnostrando interesse per iniziative come lo sfruttamento delle miniere di Montebamboli e del Casciano, in netta antitesi con l'inerte prudenza di gran parte del ceto aristocratico-borghese toscano, arroccato per tradizione sui privilegi della rendita fondiaria.
Tuttavia, durante il cosiddetto "decennio di prebarazione", non trascurò l'attività politica. Fu nel corso di quegli anni che, gradualmente, si accostò con sempre maggior convinzione e fattiva collaborazione agli ambienti del liberalismo moderato, persuadendosi che solo il programma monarchico unitario sarebbe stato, in una prospettiva non lontana, quello di più sicura realizzazione. A questa scelta di campo non furono certo estranee le nuove responsabilità assunte in seno alla famiglia e al proprio ceto sociale, con una più assidua cura della casa bancaria; tuttavia non sono da sottovalutare i numerosi contatti avuti a Torino con esponenti di quel moderatismo unitario di ispirazione cavouriana che, nel Granducato, riconosceva in B. Ricasoli il suo elemento più rappresentativo: questi, con abilità e tenacia, si adoperava a quella riunificazione della borghesia toscana che si sarebbe compiuta con gli avvenimenti del 1859-1860.
Nell'aprile del 1859 il F., che tra i moderati era uno dei più vicini ai democratici della Società nazionale fra i quali contava diversi amici, collaborò con essi, in particolare con V. Malenchini. alla pacifica cacciata del granduca (27 aprile). Caduto il regime granducale, fu deputato all'Assemblea nazionale toscana e, nel luglio 1859, allorché giunse in Toscana la notizia dell'armistizio di Villafranca, insieme con L. Cempini e P. Puccioni, col beneplacito del Ricasoli, fondò il giornale La Nazione allo scopo di sostenere e diffondere il programma dell'unità sotto la monarchia costituzionale di Vittorio Emanuele II, combattendo tutte quelle forze, repubblicane o reazionarie che fossero, che vi si opponevano, e che il F. e i suoi amici sapevano ancora molto forti in Toscana. In quel periodo ebbe anche il comando della guardia civica di Firenze, della quale, per incarico del Ricasoli, curò l'armamento e l'organizzazione nei minimi particolari. Nell'ottobre del 1859, su iniziativa dello stesso Ricasoli, raggiunse a Torino B. Cini, incaricato dal governo provvisorio toscano di trattare col ministro delle Finanze sardo alcune importanti questioni economiche in vista dell'annessione della Toscana al Regno di Sardegna.
Nella capitale subalpina il F. ebbe colloqui col segretario alle Finanze A. Scialoja e col ministro stesso circa il futuro dell'appalto per la fabbricazione e vendita dei tabacchi in Toscana. In concreto egli desiderava conoscere le intenzioni del governo piemontese sul mantenimento o meno di tale appalto alla gestione privata, trovandosi a parlare nella duplice veste di incaricato del governo toscano e di figlio dell'appaltatore E. Fenzi. Questi esercitava l'appalto dal 1844 e nel 1858 aveva rinnovato il contratto col governo granducale per altri nove anni.
Il cambio di regime e la probabile annessione della Toscana al Regno sabaudo, con la relativa abolizione di tutte le barriere doganali con esso e con gli altri Stati in via d'annessione, gli avrebbero arrecato un consistente danno finanziario. Il F., facendosi portavoce del padre, proponeva al governo piemontese la riconferma dell'appalto al Banco Fenzi o, nel caso in cui il nuovo Stato avesse deciso, seguendo le leggi piemontesi, di avocare a sé la gestione di quel monopolio, avanzava la richiesta di un equo indennizzo. La trattativa andò per le lunghe e si concluse con la revoca ai Fenzi della loro tradizionale "regalia", lasciando il lungo strascico della questione dell'indennità.
Nel corso del 1859 e dell'anno successivo, fino all'annessione della Toscana al Regno di Sardegna, fu assai frequente la collaborazione e la consulenza che il F. offrì al Ricasoli in campo politico e finanziario.
Nel marzo 1860 fu tra i fondatori della Società nazionale del tiro a segno di Firenze e il principale estensore dei suoi statuti. Tale società aveva lo scopo di "accrescere il più possibile il numero dei cittadini esperti nel maneggio delle armi da fuoco", proponendosi anche di incoraggiare l'esercizio della scherma e della ginnastica. Il F., che nei primi anni di vita della società ne ebbe la vicepresidenza, fece parte anche in seguito del suo consiglio direttivo. Sempre nel marzo di quell'anno, eletto nel collegio di San Giovanni Valdarno, abbandonò la divisa della guardia nazionale di Firenze, recandosi per la prima volta, con i deputati toscani, al parlamento di Torino. Alla Camera si sedette a destra nel settore dei ministeriali cavouriani, fra i rappresentanti del liberalismo moderato toscano, che basava le sue risorse economiche sulla rendita fondiaria e su quel capitalismo finanziario che prediligeva per tradizione appalti e prestiti statali e speculava in azioni e obbligazioni di banche e ferrovie.
Nei primi anni del suo mandato il F. era convinto di vivere un momento storico cruciale, in cui anche la sua attività di deputato avrebbe concorso a porre le fondamenta del nuovo Stato unitario in conformità alle regole politiche ed economiche del liberalismo moderato che quel tipo di Stato aveva voluto. Di conseguenza rinunciò a nomine anche importanti e remunerative nel campo degli affari per dedicarsi con particolare sollecitudine al consolidamento del nuovo assetto statale, attraverso il rafforzamento e l'incremento delle forze armate contro i nemici esterni e interni, cosa che, in quel momento, gli premeva quanto - se non più - l'unificazione amministrativa e finanziaria. Infatti partecipò al lavoro di commissioni parlamentari che si occupavano della promulgazione in Toscana delle leggi relative alla guardia nazionale e ad altri provvedimenti di leva e di armamento. L'anno seguente, eletto deputato nel collegio di Montevarchi, tornò a Torino per prender parte ai lavori dell'VIII legislatura, I dell'Italia unita, e il 18 giugno presentò alla Camera la relazione sul progetto di legge di Garibaldi per la formazione e l'armamento della guardia nazionale mobile.
L'unico incarico non parlamentare che il F. accettò in quel periodo fu la nomina, prima a maggiore (6 apr. 1861), poi a colonnello (26 ott. 1861) comandante la 2ª legione della guardia nazionale di Firenze, per l'importanza da lui attribuita a questo corpo considerato essenziale per mantenere l'ordine pubblico poiché rappresentava, così come l'avevano voluta i moderati - in contrapposizione a Garibaldi che l'avrebbe voluta trasformare in un esercito di popolo -, una milizia preposta a difendere l'ordinamento liberale e la borghesia dai nemici del nuovo ordine costituito.
L'attività di deputato del F. nelle file dei moderati toscani - era consigliere del loro organo politico, l'Associazione liberale di Firenze - sarebbe proseguita, eccezion fatta per la IX legislatura, anche nella X e nell'XI, quando venne eletto nel III collegio di Firenze, fino al 1872 quando avrebbe rassegnato il mandato parlamentare per garantire una presenza più costante al banco che il padre, ormai molto vecchio, non era più in grado di reggere da solo.
Gli anni che seguirono l'Unità videro il F. raggiungere posizioni di prestigio in amministrazioni pubbliche e private. All'attività di deputato unì, a partire dal 1863, quella di vicepresidente della Camera di commercio di Firenze, di cui divenne presidente nel 1867, conservando la carica fino alla morte. Sedette inoltre, anche in virtù di quella carica, nei consigli di amministrazione di varie banche, fra le quali la Cassa di risparmio e la Banca nazionale toscana di cui fu anche presidente. Fu altresì membro dei consigli di varie società ferroviarie, fra cui la Società per le strade ferrate livornesi e la Società per le strade ferrate romane, di cui divenne anche presidente. Fu infine consigliere comunale sia durante sia dopo il periodo in cui Firenze fu capitale del Regno d'Italia.
La figura del F. emerge da quell'intreccio di affarismo e politica che rappresentò l'azione del moderatismo toscano nell'età della Destra, per assumere un ruolo più avanzato, avendo per obbiettivo una completa integrazione fra il capitalismo finanziario regionale e quello nazionale, nell'ambito di quei legami economici stabiliti da tempo dalla borghesia nazionale con quella internazionale. In questa chiave si può interpretare il suo progetto di fusione fra la Banca nazionale toscana e la Banca nazionale sarda, redatto insieme con B. Briganti Bellini nel 1867 e presentato a più riprese all'attenzione del Parlamento, cui si opponevano gli interessi regionalisti degli azionisti toscani. Nella stessa ottica si può leggere la sua azione a favore della fusione della Società per le strade ferrate livornesi, della Maremmana e della Centrale toscana con la Società per le strade ferrate romane, e la sua successiva manovra antifrancese in seno a questa società, coronata dal successo grazie all'appoggio dell'amico L. G. de Cambray Digny, allora ministro delle Finanze. Il F. aveva sostenuto il Cambray Digny in Parlamento e sulla stampa in quella grande e discussa operazione che fu la Regia cointeressata dei tabacchi, di cui prese le difese dopo che questa fu messa sotto inchiesta. L'amico ministro a sua volta ne coadiuvò l'azione volta a togliere potere, in seno alle Romane, ai capitalisti francesi che facevano capo alla Société du credit industriel e che fino ad allora avevano fatto la parte del leone nelle cariche e nei guadagni. Il Cambray Digny procedette alla nomina dei membri governativi della società, fra cui T. Mangani (presidente) e G. De Martino (direttore generale), seguendo i suggerimenti del F. che così rese un grande servigio ai settori dell'industria italiana che mal sopportavano che le commesse di materiali per la costruzione delle carrozze e delle locomotive di quella società fossero ordinate solo all'estero.
La posizione filoindustriale del F., in netta antitesi con gli indirizzi antindustriali della borghesia agraria toscana, si evidenziò anche in occasione della discussione, in seno al Consiglio comunale fiorentino (1865), sull'appalto per la costruzione del nuovo acquedotto. Anche in quella occasione il F. si schierò contro il gruppo facente capo a L. Ridolfi, espressione, attraverso la Banca toscana di credito, di una cordata di capitalisti francesi, sostenendo di contro la società Laidlaw & Glasgow, che aveva alle spalle il capitale inglese e intorno alla quale ruotavano gli interessi fiorentini che facevano capo alla Banca nazionale toscana. La Laidlaw voleva costruire le tubature in ferro anziché in muratura per dare sfogo ai prodotti di un'altra sua industria e naturalmente lo stesso F., il cui banco era proprietario di vari stabilimenti per la lavorazione del ferro, aveva intravisto nell'impresa allettanti occasioni di guadagno.
La parte più intraprendente e innovativa della borghesia toscana aveva deciso di puntare sullo sviluppo industriale nel tentativo di risollevarsi da una situazione economica che il trasferimento della capitale da Firenze a Roma stava facendo precipitare. Lo si deduce anche dal fatto che, allorché nel 1872 la Banca nazionale toscana cominciò a dibattersi in sempre crescenti difficoltà finanziarie, di pari passo con l'acuirsi della crisi del Comune di Firenze, la classe dirigente toscana diede vita ad un nuovo istituto di credito di cui il F. fu tra i fondatori: la Banca industriale toscana. Questo nuovo istituto di credito avrebbe avuto il fine precipuo di promuovere lo sviluppo delle industrie e del commercio nelle province toscane. Ora che la febbre speculativa degli anni di Firenze capitale si stava affievolendo e ristagnavano quelle iniziative patrocinate dallo Stato come gli appalti, la concessione di monopoli, i prestiti, le costruzioni ferroviarie, che avevano fatto la fortuna di istituti come il Banco Fenzi, i gruppi finanziari fiorentini si rivolsero verso attività che apparivano, in quel momento, meno rischiose come quelle minerarie e siderurgiche.
Il 24 sett. 1872 il F. partecipava, come rappresentante del suo banco e come grande azionista della Banca generale - istituto costituitosi in quel periodo e molto attivo nel settore industriale -, alla fondazione della Società italiana per l'industria del ferro di cui fu il più attivo promotore e, insieme con la Banca del popolo, diretta da U. Peruzzi, e con la Banca generale di Roma, il più grande azionista.
La Società per l'industria del ferro si proponeva di sfruttare il combustibile fornito dalle miniere di lignite xiloide di San Giovanni Valdarno per venderlo in parte e in parte utilizzarlo per le piccole ferriere di Mammiano e Sestaione, cedute con profitto dai Fenzi alla Società (gennaio 1873), e soprattutto per quella grande in via di costruzione a San Giovanni Valdarno. Questi stabilimenti, nei disegni dei promotori, avrebbero dovuto costituire un complesso siderurgico in grado, fra le altre cose, di fornire gran parte del materiale rotabile alla Società per le strade ferrate romane. La Società italiana per l'industria del ferro ebbe per motivi tecnici e finanziari vita sempre travagliatissima e venne liquidata nel 1880 - la rilevò a basso prezzo la stessa Banca generale - ma, tutto sommato, ad uscirne con le ossa rotte furono i piccoli azionisti e la Banca del popolo che, entrata in crisi nel 1873 a seguito delle difficoltà economiche del Comune di Firenze, dovette uscire dalla società e ridimensionare anche il proprio raggio di azione.
Tuttavia se il F. fu anche imprenditore industriale era non di meno proprietario terriero e soprattutto rappresentava un istituto finanziario azionista di banche e ferrovie. Per questo, se accettò con sollievo il riscatto da parte dello Stato della Società per le strade ferrate romane, fu contrario al loro pubblico esercizio, come combatté, in nome del liberalismo economico e del decentramento amministrativo propugnato tradizionalmente dal gruppo moderato toscano, contro quell'indirizzo sostenuto al governo da Q. Sella, da G. Lanza e più tardi da M. Minghetti di rigido accentramento amministrativo e fiscale che, per raggiungere l'obbiettivo del pareggio del bilancio statale, toglieva al controllo dei Comuni entrate di loro tradizionale competenza aggravando ancor più il loro deficit che, nel caso della Firenze del dopo-capitale, superava nel 1873 i due milioni di lire.
Nel 1874 il F. era presidente del comitato elettorale di Firenze in occasione di quelle elezioni che videro un sensibile rafforzamento della Sinistra soprattutto nel Meridione e un calo generale della Destra, eccezion fatta per i moderati toscani che mantennero egregiamente le posizioni. In quello stesso anno nacque a Firenze la Società Adamo Smith, la cui mente teorica era rappresentata dall'economista F. Ferrara e che raggruppava professori, pubblicisti, uomini politici e di finanza accomunati da una rigida interpretazione delle dottrine liberiste di Smith e di F. Bastiat. Il F. fu fra i suoi soci. Alla Adamo Smith si contrapponeva l'Associazione per il progresso degli studi economici, o Scuola lombardo-veneta, i cui maggiori esponenti furono L. Luzzatti e F. Lampertico, fautori di un pur moderato intervento dello Stato in materia economica, e che raccoglieva le simpatie e il sostegno dei ceti industriali del Nord, desiderosi di un sempre maggior protezionismo doganale per la nascente industria italiana che proprio in quegli anni stava attraversando un periodo di crisi.
La Società Adamo Smith rappresentò l'occasione di dibattito e di incontro che portò all'alleanza dei banchieri tosco-liguri, e dei proprietari terrieri tosco-emiliani appartenenti alla Destra, con i latifondisti meridionali, contrari i primi all'esercizio statale delle ferrovie e alla limitazione delle risorse delle finanze locali da parte dello Stato, gli altri fieramente ostili alla perequazione fondiaria e alla riforma del catasto nazionale. La volontà di anteporre alle ideologie questa convergenza di interessi portò a quel connubio fra la Destra toscana e la Sinistra meridionale guidata da G. Nicotera che mise fine alla egemonia politica della Destra, spianando la strada all'avvento del potere della Sinistra (marzo 1876) e dei malcostume politico del trasformismo. Proprio in quell'anno, il 28 febbraio, il F. venne nominato senatore del Regno. Nell'autunno del 1877 si recò a Roma, membro di una commissione capeggiata dal sindaco U. Peruzzi, per conferire con A. Depretis circa un progetto di legge in favore di Firenze che stava sprofondando in una crisi economica irreversibile al pari dei suoi maggiori istituti di credito. L'anno successivo il F., nella sua veste di senatore, presentò un'interpellanza al governo per invocare la legge per Firenze e quello fu uno dei suoi ultimi interventi pubblici. Presidente dell'Associazione costituzionale toscana, continuò a dedicarsi all'attività politica lavorando con zelo a sostegno dei candidati del suo partito in occasione delle elezioni del 1880.
Morì a Firenze il 2 sett. 1881.
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