CAPECE MINUTOLO, Antonio, principe di Canosa
Nato a Napoli il 5 marzo 1768, primogenito del principe di Canosa Fabrizio e di Rosalia di Sangro dei principi di San Severo, compì i suoi studi nel collegio Nazareno di Roma. Qui mostrò interessi prevalentemente scientifici e poco prima di lasciare Roma (1786) compose sotto la guida del somasco Pietro Grassi le Osservazioni anatomiche sopra le parti del corpo umano e sopra le funzioni che dalle medesime si perfezionano (conservate inedite nell'archivio privato dei Capece Minutolo a Napoli). Uscito di collegio, prestò anche per breve tempo servizio militare nel battaglione Real Ferdinando, dal quale si congedò col grado di alfiere.
A Napoli frequentò gli ambienti mondani e si dedicò agli studi letterari classici senza emergere. Dopo essere stato "fino a 26 anni pirronista e semi ateo" - come egli stesso scriverà nel 1826 (Maturi, p. 2) - il C., sotto la spinta degli avvenimenti rivoluzionari, si accostò decisamente alla dottrina cattolica. Attento lettore del Barruel e dello Spedalieri, nei cui Diritti dell'uomo vide giustamente un esclusivo intento controrivoluzionario, il C. ne assorbì il livore antimassonico e antigiansenista. Ormai convinto che la Chiesa sola potesse salvare l'ancien régime, il C. rafforzò queste opinioni quando nel 1795 incontrò a Roma lo stesso Spedalieri e il cardinale Stefano Borgia, il campione della Curia romana nella polemica contro il giurisdizionalismo napoletano.
Nel 1794 frattanto era divenuto membro, col nome di Isocrate Larissio, dell'Accademia dei Sinceri, o Arcadia Reale, presso la quale dette lettura delle sue prime opere: La Trinità (Napoli 1795), "orazione dogmatico-filosofica", in cui, pieno di furore antirazionalistico, sostenne la tesi, in seguito più volte ripresa, che è preferibile lasciare il popolo nell'ignoranza, e L'utilità della monarchia nello Stato civile (Napoli 1795).Subito dopo, accantonato il progetto di scrivere un'opera sull'infallibilità del papa, sostenuta come un dogma necessario per la tranquillità sociale, scrisse e pubblicò un'altra opera politica, L'Epistola,ovvero Riflessioni critiche sull'opera dell'avvocato fiscale sig. d. Nicola Vivenzio intorno al servizio militare dei baroni in tempo di guerra (Napoli 1796).
Con tali scritti il C. si distingueva già come un acerrimo difensore della tradizione, decisamente chiuso di fronte a qualsiasi novità: nell'Utilità della monarchia, infatti, dopo aver sostenuto l'impossibilità che una Repubblica possa essere un sano regime, in quanto è priva della virtù che costituisce l'indispensabile presupposto morale di ogni Stato, si faceva propugnatore del regime monarchico, il quale però non può sussistere senza i due corpi privilegiati degli ecclesiastici e dei nobili. Il C. si schierava con ciò contro l'orientamento allora prevalente nello stesso governo napoletano, come dimostrava appunto con la successiva presa di posizione contro la politica di cauto svecchiamento condotta dal Vivenzio, sostenendo (con argomentazioni in gran parte attinte alla dottrina del Montesquieu sulla necessità dell'esistenza di corpi intermedi) l'opportunità di mantenere intatti i privilegi dell'aristocrazia. A tali privilegi i nobili dovevano però corrispondere assolvendo spontaneamente alle necessità del Regno.
Di ciò il C. era tanto convinto che quando si profilò il pericolo di un'invasione francese si offrì volontario nell'esercito e arruolò e stipendiò a sue spese cinquanta uomini.
A parte questo episodio, tuttavia, il C. continuò sino al 1798 a dedicarsi quasi esclusivamente ai suoi studi; anche in quest'ambito, del resto, egli era su posizioni nettamente conservatrici, tanto da rifiutarsi per tutta la vita di apprendere l'inglese e il francese.
Nel 1798, approssimandosi l'invasione francese, aveva in un primo tempo progettato di partire da Napoli per rifugiarsi in Sicilia; poi rinunciò a questo proposito quando venne eletto dal "sedile" di Capuana membro della Deputazione straordinaria del buon governo e dell'interna tranquillità della città. Si stava delineando una situazione che, mettendo in discussione gli organi di governo tradizionali, ormai desueti, suscitava il più profondo interesse del C.; il re, trasferendosi con la corte in Sicilia, aveva infatti nominato don Francesco Pignatelli di Strongoli suo vicario, con poteri di alter ego, mentre secondo gli antichi diritti, che erano stati confermati nel corso del secolo, il potere in assenza del sovrano spettava alla città. Sorse dunque un conflitto di giurisdizione tra la Deputazione straordinaria e il vicario. Il C. fu tra i più accesi nel sostenere che agli eletti e ai deputati "spettava governare la città e non ad altri".
Il conflitto si trascinò per qualche tempo, sino a quando il vicario decise di firmare un armistizio con i Francesi senza consultare i "sedili". Al diffondersi della notizia i lazzari napoletani insorsero, don Francesco Pignatelli fuggì e la città assunse il potere il 16 genn. 1799. Il C., nei brevi e convulsi giorni che precedettero l'arrivo dei Francesi a Napoli, fu sostenitore della linea intransigente, e armò i lazzari, i quali difesero la città per quattro giorni (20-23 gennaio), abbandonandosi a ruberie e devastazioni.
Occupata la città dai Francesi il C., dopo essersi rifugiato in un convento, riuscì ad ottenere un salvacondotto dal generale Championnet, per intercessione della duchessa d'Andria, madre di Ettore Carafa. Egli non rimase tuttavia inattivo, ma assunse l'aperta difesa dei diritti feudali, sostenendo che, se questi venivano aboliti, era almeno necessario un indennizzo. Si trattò di un intervento senza successo; anzi quando il 27 aprile venne promulgata la legge che aboliva gli ultimi diritti feudali (senza indennizzo), il C., arrestato per aver avuto contatti con le "unioni" segrete realiste e sospettato di essere coinvolto nella congiura dei Baccher, era già stato rinchiuso in castel Sant'Elmo (8 aprile). Venne poco dopo condannato a morte; ma la sentenza non fu mai eseguita, in quanto la Repubblica era ormai alle strette. L'11 luglio veniva firmata la capitolazione di castel Sant'Elmo e il C. venne rimesso in libertà, per essere però subito nuovamente arrestato (10 agosto), questa volta per ordine del re, a causa della sua opposizione al vicario, principe Pignatelli. Come osserva il Croce "se i repubblicani avevano punito in lui il realista, i realisti punivano in lui l'aristocratico, cioè i due elementi che egli bensì componeva armoniosamente nella sua antiquata personalità spirituale, ma che la storia aveva scisso e messo in contrasto" (Il principe di Canosa, p. 242).
Rinchiuso nel carcere di Portanuova, insieme ai prigionieri comuni, venne infine condannato a cinque anni di prigione da scontare a Trapani (28 marzo 1800), e come lui vennero condannati gli altri cavalieri della città. Era la linea politica di cui il C. era stato sostenitore ad essere ormai superata dai tempi: il 25 apr. 1800 venne pubblicato l'editto di abolizione delle "piazze" e "sedili"; con ciò l'aristocrazia era privata degli ultimi residui di potere politico. Il C. non dovette scontare l'intera pena: paradossalmente la libertà gli venne resa dall'amnistia per i prigionieri politici che col trattato di Firenze del 28 marzo 1801 Ferdinando IV si impegnava a concedere su richiesta della Francia.
Liberato dal decreto del 20 giugno, il 9 luglio il C. ritornò a Napoli, più che mai convinto dell'insostituibilità dell'aristocrazia come corpo politico. Per qualche tempo non si occupò di politica attiva. Riprese i suoi studi di apologetica cattolica scrivendo La passione e morte del Divino nostro Redentore (Napoli 1802) e La Natività del nostro Divin Redentore (Napoli 1802), in cui non celate sono le puntate controrivoluzionarie.
Solo nel 1806 si presentò per lui l'occasione di ricominciare ad occuparsi concretamente di politica. Malgrado non avesse certo ragioni di particolare gratitudine verso la casa regnante, allorché questa, all'avvicinarsi dell'invasione francese, fuggì in Sicilia, il C., coerentemente coi suoi principi, si mise a disposizione del re per compiere la sua "vendetta da cavaliere", come egli stesso definì il suo gesto in una lettera del 30 apr. 1807 al conte della Rocca Marigliano, rimasto a Napoli (Maturi, p. 42). In realtà egli sperava che il re comprendesse ciò che secondo lui i fatti stessi stavano dimostrando, e cioè che la monarchia non poteva reggersi senza l'aristocrazia.
Lasciata la famiglia (si era sposato circa dieci anni prima con donna Teresa Galluccio dei duchi di Toro), dopo essere stato accettato come volontario nella cavalleria, il C. raggiunse lo Stato Maggiore del gen. Damas a Castrovillari. È in questi frangenti che nacque la grande amicizia tra lui e Maria Carolina: come la regina, il C. pensava che il Napoletano dovesse tornare ai Borboni non per via diplomatica, ma con le armi, e possibilmente con un'insurrezione antifrancese, a sobillare la quale egli si offriva come l'uomo più adatto. Così, dopo che, dall'agosto 1806, in entrato a far parte degli uffici di corte come gentiluomo di camera, il 28 febbr. 1807, creato capitano di fanteria, ricevette l'incarico, per ordine di Maria Carolina, di stabilire a Ponza e Ventotene un, base da cui riprendere e mantenere i contatti con Napoli, per svolgere propaganda filoborbonica e per approfittare di ogni occasione fornita da eventuali "insorgenze". Politicamente il progetto non era facilmente realizzabile, in quanto anche tra la nobiltà fedele non molti erano d'accordo sul progetto di armare la plebe napoletana. Il C. era invece del parere che ciò fosse indispensabile e accarezzava anche il progetto di far rapire qualche personalità filofrancese, come Cristoforo Saliceti, ministro di Polizia di Giuseppe Bonaparte. Senonché mentre egli complottava, invero con scarsi risultati concreti, il Saliceti, che era stato sin dall'inizio al corrente delle mene del C. e dei suoi seguaci, e che aveva atteso solo il momento migliore per intervenire, stroncò il progetto arrestando, nella notte tra il 22 e il 23 maggio, numerosi complici del C. che, processati, vennero condannati a pene assai pesanti; tra le condanne a morte, quelle del duca Tommaso Frammarino e del marchese Luigi Palmieri.
Poco dopo il Saliceti rivelava le trame del C. pubblicando il Rapporto del ministro della polizia generale sulle congiure ordite nell'a. 1807 contro le armate francesi nel Regno di Napoli e contro la persona e gli Stati di Sua Maestà Giuseppe Bonaparte (Napoli s.d.). Il C., cui prudentemente era stato dalla regina vietato di compiere una azione di forza sulla città, dovette contentarsi di ripubblicare il Rapporto dei Saliceti "Con brevi ma veridiche annotazioni". Sulla sua testa veniva posta una taglia di 25.000 ducati e, mentre suo padre aveva accettato da Giuseppe Bonaparte la nomina a consigliere di Stato, la moglie e la cognata del C., Matilde Galvez, venivano sorvegliate e interrogate dalla polizia. Intanto a Tilsit (luglio 1807) Alessandro I riconosceva Giuseppe Bonaparte come re di Napoli, indebolendo le speranze dei Borboni in un aiuto delle potenze.
Negli anni successivi il C. continuò a formulare vari progetti: sperava che i Borboni di Napoli potessero avanzare qualche pretesa sulle colonie spagnole in America, dopo la rinuncia al trono dei Borboni di Spagna; cercò inoltre di prender contatto con alcuni patrioti napoletani ormai su posizioni antifrancesi, ma non poteva promettere loro altro che un indulto al ritorno del legittimo sovrano. Questo tentativo venne definitivamente frustrato dalla concessione nel Napoletano della costituzione di Baiona; in quell'occasione il C. ritenne addirittura che si dovesse bombardare Napoli.
All'arrivo di Gioacchino Murat, che riuscì ad accattivarsi molte simpatie anche tra i sostenitori dei Borboni (scoppiò una rivolta persino tra le truppe di Ponza), egli comprese che la situazione si faceva disperata. Un temporaneo miglioramento si ebbe soltanto quando fu organizzata la spedizione anglo-sicula nel golfo di Napoli e vennero prese ai murattiani Ischia e Procida. Ma, poco dopo, nel novembre 1809, per ragioni non molto chiare e comunque tratto in inganno dalle voci fatte circolare ad arte dai Francesi su un prossimo sbarco in forze su Ponza e Ventotene, il C. abbandonò le due isole, suscitando le ire di Ferdinando IV. Venne addirittura confinato, dapprima a Lipari, poi ad Ustica, infine a Termini Imprese. Da qui egli continuò a tempestare la corte di proteste e di spiegazioni e finalmente nel luglio 1810 ottenne il perdono del re.
Ma soltanto nel 1814, dopo la caduta di Napoleone, il C. ebbe un altro incarico di rilievo, quando i Borboni di Napoli, per poter riacquistare il Regno ancora in mano al Murat, decisero di chiedere l'appoggio degli altri rami della famiglia, già rientrati in possesso dei loro troni: il C. venne allora inviato come ambasciatore presso Ferdinando VII di Spagna.
Il periodo passato a Madrid fu tra i più felici della vita del C., fervido ammiratore del sovrano spagnolo, perché questi non solo aveva abrogato la costituzione del 1812, ma aveva ripristinato l'Inquisizione e la Compagnia di Gesù. La missione ebbe buon esito: Ferdinando VII si schierò decisamente a favore della restaurazione di Ferdinando IV sul trono di Napoli. Anche l'Austria, frattanto, timorosa che Murat potesse acquistare troppo potere in Italia, mostrò di preferire il ritorno dei Borboni. Quando Murat mosse contro l'Austria, il C. era ancora in Spagna; decisa la partenza, dopo aver ricevuto da Ferdinando VII l'onorificenza della gran croce della Concezione Immacolata, fu raggiunto a Barcellona dalla notizia della battaglia di Tolentino (3 maggio 1815) e poté quindi imbarcarsi direttamente per Napoli.
Qui la situazione non era però affatto rispondente alle concezioni politiche del C.; una profondissima disparità di vedute e una radicata antica diffidenza reciproca lo dividevano dal nuovo primo ministro, Luigi de' Medici, che era impegnato nella cosiddetta politica dell'"amalgama", volta a pacificare il Regno.
Soltanto a malincuore il Medici, dopo molte resistenze, nel gennaio 1816 si piegò al desiderio della corte di affidare al C. il ministero di Polizia. Le occasioni di scontro tra i due sin dall'inizio, come era prevedibile, non mancarono; il Medici si opponeva ad esempio all'epurazione dei funzionari compromessi con Murat che il C. intendeva compiere. Ad ogni modo, sia pure tra molte difficoltà, la situazione si trascinò per qualche tempo, sino a quando non esplose in tutta la sua gravità il contrasto decisivo, a proposito delle società segrete. Queste ultime, in specie la carboneria, si stavano rapidamente diffondendo nel Napoletano e il C. intendeva prendere provvedimenti straordinari. Dopo una serie di arresti compiuti il 6 marzo, propose di armare la setta dei calderari; vi fu tra lui e il Medici addirittura uno scambio di insulti e il C. offrì allora al re le proprie dimissioni (30 maggio 1816) che per il momento però non vennero accolte.
Mentre il C. tentava di minare la posizione del Medici, alla cui politica molti erano contrari, quest'ultimo si rendeva inattaccabile grazie ai favorevoli risultati finanziari che la sua azione otteneva, e cercava a sua volta di dimostrare che il malcontento serpeggiante nel Regno era dovuto alle assurde misure di polizia, cui anche l'Austria era contraria. Infine il 27 giugno il re decise di firmare il mandato con cui il C. veniva esonerato dalla carica di ministro di Polizia. Tuttavia il favore goduto dal C. presso il re non era diminuito e sembrava che egli potesse aspirare addirittura al ministero degli Interni, quando scoppiò lo scandalo che doveva troncare la sua carriera politica. Francesco Patrizi, che dopo l'esonero del C. reggeva in qualità di direttore la polizia, scoprì e rese noto che il C. durante il suo ministero stava organizzando una congiura calderara, con scopi provocatori, e aveva concesso per armarla ben 16.000 permessi d'armi. In un primo momento furono effettuati numerosi arresti e sembrò che il C. sarebbe stato direttamente chiamato in causa nel processo che si andava profilando, ma poi gli venne concesso il passaporto richiesto ed anche una somma di 1.500 ducati per l'espatrio. Gli venne solo ordinato di non scrivere e stampare nulla senza l'autorizzazione delle autorità napoletane. Sebbene molto a malincuore il C. non poté fare altro che allontanarsi dal Regno: nell'ottobre 1816 fissò la sua residenza a Livorno, donde si trasferì nell'aprile 1817 a Pisa. Impossibilitato a svolgere una vera e propria attività politica, il C., affidandosi alla propria abilità di polemista, compose rapidamente un'opera che avrebbe dovuto, esponendo compiutamente le sue tesi politiche, fare anche le sue vendette: Perché il Sacerdozio dei nostri tempi,e la moderna nobiltà dimostrati non siansi egualmente generosi,ed interessati come gli antichi per la causa della monarchia e dei Re (conservata inedita nella Biblioteca Estense di Modena, a. 3, 1-3).
La corte napoletana chiese al C. di non pubblicarla senza il consenso del governo di Napoli; poi, non impegnandosi questi in alcun modo, agì facendo pressioni affinché il governo toscano impedisse la stampa dell'opera. Dapprima vennero sequestrate le bozze della stampa che il C. aveva fatto iniziare dall'editore Nistri di Pisa; poi lo si lasciò a lungo in attesa della risposta della censura, finché egli preferì chiedere l'imprimatur a Lucca dove l'ottenne, senza tuttavia procedere alla stampa dell'opera che voleva ancora ritoccare. Nel frattempo però i rapporti con la corte borbonica, benché tesi, non erano stati troncati; anzi, ereditato il titolo principesco per la morte del padre, il C. chiese ed ottenne di essere decorato con l'Ordine di S. Gennaro e con la medaglia di "costante attaccamento" da poco istituita.
Nel maggio 1820 pubblicò a Lucca, con la falsa indicazione di Dublino e con il nome di Giuseppe Torelli, il pamphlet I Piffari di montagna ossia cenno estemporaneo di un cittadino imparziale sulla congiura del principe di Canosa e sopra i Carbonari. Epistola critica diretta all'estensore del "Foglio letterario di Londra", che divenne la più nota delle sue opere.
Si trattava di una diffusa apologia che il C. faceva della propria opera ministeriale (ma più in generale di tutta la sua vita), muovendo feroci accuse al Medici. La sua concezione intorno alle istituzioni di governo rimaneva inalterata: la forma perfetta doveva essere una monarchia sorretta dai corpi intermedi della nobiltà e del clero. Ma in quel particolare momento storico il C. riteneva necessaria la repressione più dura: "Lo spirito rivoluzionario non può essere represso da poteri ordinari, e molto meno dal costituzionale. Il solo che può vincerlo è un dispotismo vigoroso ed estremamente attivo" (ibid., p. 163). Soprattutto giudicava la Chiesa indispensabile strumento per contenere nell'obbedienza i popoli, facendo suo l'avvertimento del conte de Maistre: "ci troviamo tra l'autorità del Papa, e la rivoluzione" (ibid., p. 171); giungeva - portando alle estreme conseguenze la concezione utilitaristica della religione - a rivolgere un appello ad atei ed eterodossi: "Se pure né al Papa volete credere, come anche a Gesù Cristo per la salute eterna, credetegli, e crediamogli per quella di questo mondo" (ibid., p. 172). Ma certamente, più che queste affermazioni tutt'altro che originali, impressionò l'opinione pubblica l'affermazione "profetica" (I piffari di montagna era stato scritto tra l'aprile e il maggio 1820 e i moti scoppiarono a Napoli nel luglio) che la politica moderata del Medici avrebbe portato in breve tempo alla rivoluzione.
In un primo momento la pubblicazione dell'opera non migliorò i rapporti tra il C. e la corte di Napoli. Pur avendo prestato il giuramento richiesto dal governo come atto di formale sottomissione agli ordini regi, lo stesso governo gli ritirò la pensione concessagli nel 1816. Ferdinando I, passando per Livorno diretto a Lubiana, gli rifiutò per prudenza un'udienza privata. Tuttavia il precipitare della situazione nel Regno e l'intervento austriaco sembrarono dar ragione alle sue tesi e il C. conobbe un momento di trionfo. Nel marzo 1821 il re annunciò pubblicamente la decisione di affidargli il ministero di Polizia e il 13 aprile il C., precedendo Ferdinando I, entrò a Napoli. Essendogli stata data carta bianca, in poche ore compì una radicale epurazione nella polizia, circondandosi però di elementi di dubbia onestà. Iniziò poi una repressione feroce, ricorrendo addirittura all'uso della frusta contro i carbonari; sistema che, pur avendo l'approvazione del governo provvisorio e del sovrano, non poteva non suscitare la generale indignazione. Il disprezzo di qualsiasi limite legale, l'intenzione di stringere una nuova intesa con i calderari, l'abitudine di non notificare gli arresti e, in certi casi, di non farli seguire da un processo, il rifiuto della amnistia richiesta dall'Austria, gli arbitri e la corruzione dei dipendenti che si era scelto gli procurarono non solo la più profonda impopolarità, ma la netta opposizione degli ambasciatori della Santa Alleanza. La sua posizione finì per divenire insostenibile e dovette presentare le proprie dimissioni al re, il quale, sebbene malvolentieri, fu costretto ad accettarle, nominandolo però il 28 luglio 1821 all'importante carica di consigliere di Stato e assegnandogli una pensione di ben 8.000 ducati annui.
Il C. non era perciò del tutto insoddisfatto; ma i rapporti con gli ambasciatori della Santa Alleanza, che in base ai deliberati del congresso di Lubiana controllavano in effetti l'azione del governo napoletano, restarono molto tesi, sino a quando questi riuscirono ad ottenere l'allontanamento dello scomodo personaggio. Il 9 maggio 1822 il C. partì da Napoli, dopo un ultimo colloquio con il sovrano.
Questa volta la sua carriera politica era veramente finita; malgrado tutti i tentativi di riemergere collegandosi con le forze più reazionarie d'Italia, e d'Europa, egli restò sempre una figura di secondo piano; capace al più di assolvere compiti ingrati nei momenti difficili, per essere subito dopo messo in disparte.
Partito da Napoli, il C. sbarcò il 25 maggio a Porto Santo Stefano, con l'intenzione di stabilirsi in Toscana; venne però dissuaso dai suoi amici e finì per recarsi a Genova, dove condusse una vita molto ritirata, circondandosi di una specie di guardia del corpo per timore di una vendetta dei carbonari. Prese comunque contatti con l'arcivescovo, mons. L. Lambruschini, e attraverso il padre Gioacchino Ventura, che da Napoli lo teneva informato della situazione politica del Regno, intensificò i rapporti con i seguaci italiani del Lamennais, per il quale in quegli anni il C. nutriva una smisurata ammirazione e che poté incontrare a Genova nel 1824. Strinse così amicizia con Cesare d'Azeglio, con l'abate Giuseppe Baraldi, che a Modena dirigeva le Memorie di religione,di morale e di letteratura, con i conti Girolamo e Ferdinanda Riccini. Grandi speranze si accesero nel padre Ventura, nel Baraldi, nel C. stesso, con l'avvento al trono pontificio di papa Leone XII, che ripristinò le antiche prerogative della nobiltà e permise che riprendesse le pubblicazioni il Giornale ecclesiastico di Roma. Nel 1825 il C. completò la stesura di un'opera iniziata molti anni prima Sull'utilità della Religione Cristiana Cattolica Romana per la tranquillità e pace dei popoli e per la sicurezza dei troni (Napoli 1825).
Alla fine dello stesso anno egli riuscì ad entrare in possesso di una copia della memoria del 18 sett. 1821 stesa contro di lui dai plenipotenziari della Santa Alleanza e si accinse a rispondere con un'opera dal titolo Risposte e animadversioni fatte alla memoria che sull'interna situazione del Regno fecero i rappresentanti dei sovrani alleati di Russia,Austria e Prussia presso S. M. siciliana il re Ferdinando I dell'anno 1821.
I suoi amici lo dissuasero però dalla pubblicazione, in quanto ritenevano politicamente inopportuno recar danno all'Austria, e tentarono di interporre i loro buoni uffici per fargli avere qualche soddisfazione dal Metternich. Questi però rifiutò, almeno in un primo momento, col risultato che il C., convinto che gli sarebbe stata tolta la pensione che era il suo unico reddito, cominciò ad atteggiarsi ad eroica vittima, dicendosi deciso a lavorare per mantenersi piuttosto che rinunciare al proprio onore e alle proprie convinzioni. Infine, nel dicembre 1826, Metternich, i cui rapporti con Luigi de' Medici si erano guastati, fece sapere, tramite l'ambasciatore Ficquelmont, al re delle Due Sicilie Francesco I che l'Austria non avrebbe avuto nulla in contrario ad eventuali attestazioni di benevolenza che il re avesse voluto concedere al Canosa. Ma la mossa non ottenne alcun effetto, tanto meno quello di placare il C., il quale voleva pubblica soddisfazione e rielaborò le Risposte, che cambiarono titolo e divennero l'Apocalisse politica. Egli stesso si rendeva però conto che non era il momento di pubblicare l'opera.
Nel 1829, stabilitosi a Livorno, riprese a brigare per tornare ad essere ministro. Cercò appoggi a Roma e presso Carlo Felice, sperò in Polignac, pensò che l'occasione favorevole potesse scaturire dal viaggio di Francesco I in Francia e in Spagna e soprattutto dalla morte di Luigi de' Medici (25 genn. 1830). Per ingraziarsi sia l'Austria sia i Borboni scrisse la Confutazione degli errori storici e politici da Luigi Angeloni esposti contro Sua Maestà ladefunta regina MariaCarolina di Napoli. Epistola di un amico della verità ad uno storico italiano rispettabilissimo (Marsiglia 1830). Ma tutte le sue brighe furono vane. Anzi nel giugno 1830 venne espulso dalla Toscana e si stabilì a Castelnuovo, in territorio modenese. Nell'agosto dello stesso anno si recò a Vienna, dove dopo qualche settimana di attesa Metternich lo ricevette con cortesia, ma senza prendere alcun impegno.
L'ultima speranza del C. di rientrare in patria da ministro, dopo i moti di luglio in Francia, si accese con la morte di Francesco I e l'avvento al trono di Ferdinando II. Il giovane re però non solo, non volendo ministri invadenti o ingombranti, si guardò bene dal richiamarlo, ma nell'ambito di una politica di economie per risanare le finanze dello Stato ridusse la pensione del C. da 8.000 a 3.500 ducati annui. Questi che nel frattempo si era andato circondando di strani e ambigui personaggi, come Andrea Disperati e Antonio Garofolo, dopo le amarezze e le disillusioni subite nel corso dell'anno, poté infine nell'ottobre 1830 stabilirsi a Modena, dove il conte Riccini era divenuto consigliere di Stato di Francesco IV. Il C. stesso, specie dopo la repressione della congiura di Ciro Menotti, divenne per qualche tempo consigliere del duca. Sistemò i suoi accoliti Andrea Disperati e Antonio Garofolo nella polizia modenese e si dedicò all'organizzazione nel ducato di squadre di contadini armati; poté inoltre scrivere a suo piacimento su La Voce della verità.
Questo periodo di relativa tranquillità terminò alla fine del 1833. I rapporti di lunga amicizia tra il C. e il Riccini si guastarono sia a causa degli sviluppi democratici delle teorie del Lamennais, cui la contessa Ferdinanda era rimasta fedele, sia perché il conte vedeva di malocchio l'ingerenza del C. nelle questioni interne del ducato; infine, divenuto ministro del Buon Governo, nel gennaio 1834 il Riccini invitò il C. ad andarsene. Frattanto si erano gravemente deteriorati anche i rapporti tra lui e il Ventura, il quale ormai, pur continuando a sostenere l'infallibilità della S. Sede, si era schierato contro il principio di legittimità, divenendo così agli occhi del C. un sovversivo da accusare pubblicamente.
Infine il C. partì per Roma per denunciare direttamente alle autorità pontificie le posizioni del Ventura. Né il cardinale Pacca, né Gregorio XVI vollero prendere una netta posizione, ma non riuscirono a sedare la feroce polemica tra il Riccini, il Ventura e il Capece. Quest'ultimo comunque si stabilì per qualche tempo a Roma, dove ufficiosamente si dedicò con l'appoggio del segretario di Stato, T. Bernetti, alla creazione di corpi di volontari (analogamente a quanto aveva già altre volte fatto) in Romagna; tali corpi vennero sciolti nel 1836 per le pressioni dell'Austria. Frattanto continuava a polemizzare; scrisse l'Epistola ovvero riflessioni critiche sulla moderna Storia del Reame di Napoli del generale Pietro Colletta (Capolago [indicaz. falsa] 1834; riedito ora in S. Vitale, Il principe di Canosa e l'epistola contro P. Colletta, Napoli 1969) e continuò a minacciare la corte di Napoli di pubblicare i retroscena della sua carriera e del suo allontanamento; sperava in tal modo di ottenere una pensione più alta (si trovava ormai in notevoli ristrettezze finanziarie); ma Ferdinando II non cedette ed anzi minacciò di togliergli del tutto la pensione: gli venne solamente offerto di ritornare nel Regno, a patto che vivesse ritirato e, non a Napoli. Ma il C. non accettò questo misero risultato. Infine nel maggio 1835 abbandonò Roma, anche per ragioni economiche, e si trasferì a Pesaro con la seconda moglie e le figlie di secondo letto.
Trascorse gli ultimi anni in miseria, occupato sino alla fine nella polemica col Riccini e con i suoi altri detrattori. Rimasto vedovo il 31 dic. 1836, quasi certamente il C. contrasse un terzo matrimonio, con una donna di bassa condizione, Teresa Gabellini di Roma, con cui aveva avuto una lunga relazione. Morì a Pesaro il 4 marzo 1838. La sua morte non suscitò ormai grande scalpore, ma solo la preoccupazione di non lasciare in circolazione le sue carte, che dal cardinale T. Riario Sforza furono inviate a Roma: il segretario di Stato Lambruschini ne consegnò parte alla legazione napoletana a Roma e parte le depositò nell'Archivio Segreto Vaticano.
La figura del C., odiata come poche altre nel corso del Risorgimento, fu parzialmente riabilitata dal Croce, che lo considerò una sorta di patetico difensore dell'assolutismo e dei vecchi e tramontati ideali feudali e aristocratici. Assume quindi grande importanza l'opera di W. Maturi, che al di là di qualsiasi polemica risorgimentale o di recuperi non ben documentati, ha profondamente riesaminato tutta la travagliata vita del C. e la sua intensissima attività di pubblicista e polemista.
Oltre a quelle già ricordate restano di lui le seguenti opere: Aliqui ex Luciani Samosatensis operibus Dialogi morales ab Antonio Capycio Minutolo ex princibus Canusii latine et italice redditi, Napoli 1794; Memoria dilucidativa di vari articoli da aversi in considerazione nella abolizione da farsi dei feudi e della feudalità, ibid., 1799; Memoria a difesa del cittadino A. C. M. di Canosa, conservata inedita nella Biblioteca nazionale di Napoli, Misc. XV, D. 44; I Napoletani compromessi hanno un diritto perfetto ad essere sussidiati nel Regno di Sicilia, Palermo 1813; Copia di una lettera che un amico da Vienna scrisse ad un altro in Napoli, s.l.1815; Seconda lettera che un amico da Vienna scrive ad un altro in Napoli, s.l. 1815; Analisi sopra un articolo della Minerva Napolitana,epistola dell'autore dei Piffari di montagna ad un suo amico, Dublino 1821; Apocalisse politica,ovvero rivelazioni sull'intrigo politico della rivoluzione di Napoli del 1820 e sulla cabala che mise nel nulla le risoluzioni dei congressi di Troppau e di Lubiana, conservata inedita nell'Arch. di Stato di Vienna, Haus-Hof-u. Staatsarch.,Staatskanzlei,Neapel,Varia, f. 53 a; Sulla proporzione delle pene secondo la diversità de' tempi, Modena 1831; I miracoli della paura, ibid. 1831; I piccoli pifferi, ossia risposta che alla sovrana liberalesca Canaglia dà l'antico autore de' Piffari di montagna in difesa del suo calunniato cliente principe di Canosa, Parigi 1832; Un dottore in filosofia e un uomo di Stato,dialogo del principe di Canosa sulla politica amalgamatrice, s.l.1832; Sulla corruzione del secolo circa la mutazione dei vocaboli e delle idee, Italia 1833; L'Enciclica del 15 ag. 1832 e il giansenismo del secolo XIX - Epistola polemica, Italia 1833; Lettera ad Amarante, Roma 1834. Il C. scrisse inoltre circa trenta articoli su La Voce della verità, nel periodo compreso tra l'agosto 1831 e il marzo 1834.
Fonti e Bibl.: Le carte del C. sono in gran parte conservate nell'Arch. di Stato di Napoli, Archivio Borbone 722-750 (Carte Canosa): cfr. Le carte Canosa nell'Archivio Borbone, in Arch. stor. per le prov. napol., n. s., XLI (1961), pp. 327-366; un'altra parte è conservata nell'Archivio Segreto Vaticano, Segret. di Stato,Carte Canosa (4 buste). Un cospicuo numero di lettere del C., tra cui la maggior parte di quelle scambiate con Maria Carolina di Napoli, sono alla Biblioteca nazionale di Palermo, Copialettere Canosa, voll.I-VI; altre si trovano nella Bibl. Ap. Vat., Borg. lat. 288, ff. 104, 120, 288; Londra, British Museum, ms. 20179, f.172; ms. 20189, f. 156; Modena, Bibl. Estense, Lettere Canosa-Torelli, voll. I-II; Roma, Museo centrale del Risorg., busta 210, n. 3; Lucca, Bibl. governativa, ms. n. 1362 (lettere a C. Lucchesini). Oltre al fondamentale studio di W. Maturi, Il principe di Canosa, Firenze 1944, segnaliamo per ricostruire la biogr. del C.: G. Riccini, Prove di fatto prodotte dal conte G. Riccini contro le calunnie divulgate dal Principe di Canosa, Modena 1835; V. Gioberti, Il gesuita moderno, Losanna 1846, II, p. 325; P. Colletta, Aneddoti più memorabili della mia vita, in Opere ined. o rare di P. Colletta, I, Napoli 1861, pp. XXI-XXV; B. Croce, Luisa Sanfelice e la congiura dei Baccher, Trani 1888, p. 58; G. Beltrani, Il Magistrato di Città a Napoli e la difesa del principino di Canosa per i fatti del '99, in Arch. stor. per le prov. napol., XXVI (1900), pp. 343-400; C. De Nicola, Diario napoletano, Napoli 1906, ad Ind.; P.Prunas, "L'Antologia" di G. P. Vieusseux, Roma 1906, pp. 288, 363; L. Blanch, Il Regno di Napoli dal 1801 al 1806, in Arch. stor. per le prov. napol., n.s., VII (1922), pp. 5-254, passim; Il Regno delle Due Sicilie e l'Austria, a cura di R. Moscati, Napoli 1937, ad Ind.; P. Colletta, Storia del Reame di Napoli, a cura di N. Cortese, Napoli s.d. [1951], ad Ind.;B. Croce, La giovinezza del principe di Canosa, Napoli 1926; Id., Il principe di Canosa, in Uomini e cose della vecchia Italia, II, Bari 1927, pp. 225-252; Id., Una famiglia di patrioti e altri saggi, ibid. 1927, p. 9; N. Cortese, Stato e ideali polit. nell'Italia merid. nel Settecento e l'esperienza di una rivoluzione, ibid. 1927, pp. 14-43; F. Schlitzer, Il principe di Canosa ed il processo per l'assassinio di F. Giampieri, in Rass. storica del Risorgimento, XIII (1936), pp. 1508 -1511; G. M. Monti, Un epist. ined. del principe di Canosa in esilio, in Per la storia dei Borboni di Napoli, Trani 1939, pp. 288-302; E. Morelli, La polit. estera di T. Bernetti,segr. di Stato di Gregorio XVI, Roma 1953, p. 153; N. Nada, Metternich e le riforme nello Stato pontif., Torino 1957, ad Ind.; G. Berti, Russia e Stati ital. nel Risorgimento, Torino 1957, pp. 262, 466; P. Villani, Il dibattito sulla feudalità nel Regno di Napoli dal Genovesi al C., in Saggi e ricerche sul Settecento, Napoli 1968, pp. 252-331.