canzone
La teorizzazione dantesca della c. nel De vulg. Eloq. appare essere la sublimazione teorica della fase lirica che va dall'ideale retorico di fusione linguistica e ritmica quale risulta dalle canzoni della Vita Nuova, alla poesia delle grandi c. morali e dottrinali. Momento che potrebbe essere definito ‛ classico ', della lingua e dello stile dantesco, fra lo sperimentalismo più aperto del D. giovane e la conclusione ‛ comica ' del D. più maturo. Può essere istruttivo, in maniera del tutto preliminare, ricordare che dopo la Vita Nuova, perfino il sonetto è frequentato da D. quasi soltanto nell'occasione obbligata delle rime di corrispondenza, senza dire della ballata (v. BALLATA): " per più di dieci anni, dopo la Vita Nuova, Dante è specialmente il poeta della canzone, e il De Vulgari corona in maniera oltranzista questa lunga stagione del suo operare: delle canzoni proprio citate ad esempio nel De Vulgari, quattro sono del Convivio o al Convivio destinate, due della Vita Nuova, e una petrosa, ma ricordata come ad, indicare un capriccio tecnico "(Baldelli, D. e i poeti fiorentini del Duecento).
1. Posto che il volgare più stabilitade non potrebbe avere che in legar sé con numero e con rime (Cv I XIII 6), che ‛ autore ' (discendendo da ‛ avieo ' che significa tanto quanto ‛ legare parole ') si prende solo per li poeti, che con l'arte musaica le loro parole hanno legate (IV VI 3-4), che quod avietum est prosaycantibus permanere videtur exemplar (VE II I 1), assume particolare rilievo l'uso del volgare illustre nei versi. E tale volgare illustre, in quanto appunto ottimo, si conviene agli ottimi concetti: Sed optimae conceptiones non possunt esse nisi ubi scientia et ingenium est (VE II I 8); e del resto ornare significa aggiungere qualcosa di conveniente (est enim exornatio alicuius convenientis additio, § 9). Per cui il volgare illustre potrà essere usato soltanto per gli ottimi argomenti, per le massime finalità dell'uomo (in quanto vegetativo, animale e razionale), salus, venus, virtus, o meglio, i magnalia che a tali fini assolutamente tendono, e cioè la armorum probitas, la amoris accensio e la directio voluntatis (II II 8).
Ma tali magnalia dovranno essere legati nella forma metrica più alta, in modo che argomenti massimi, volgare illustre (illustre per parole eccelse e costruzioni elevate), versi solenni si stringano armoniosamente in un fascio. Che tale ‛ fascio ' sia la c., non vi è dubbio (VE II VIII 2): se tutto quello che mettiamo in versi è cantio, soltanto le cantiones sono così chiamate; le c. appaiono inoltre più nobili delle ballate (le quali a loro volta eccellono sui sonetti), perché hanno l'autonomia che manca alle ballate che indigeni enim plausoribus (II III 5). Si aggiunga che le c. sembrano conferire più onore ai loro autori e hanno un posto di particolare privilegio nei codici che contengono poesia. Insomma cum... ea quae cantantur artificiata existant, et in solis cantionibus ars tota comprehendatur, cantiones nobilissimae sunt, et sic modus earum nobilissimus aliorum (§ 8).
Per altro, il termine c. si riferisce alla composizione di parole armonizzate con arte e non alla musica: chi infatti compone le parole, chiama la sua opera poetica " canzone ", chi compone la musica definisce la modulazione sonus, vel tonus, vel nota, vel melos (II VIII 5).
Tecnicamente la c. può essere definita un collegamento, in stile tragico, di stanze uguali senza la ripresa, per un solo argomento (aequalium stantiarum sine responsorio ad unam sententiam tragica coniugatio, II VIII 8). Quindi, anche perché nella c. le stanze sono uguali, è urgente definire la stanza in quanto elemento essenziale: del resto il vocabolo stantia vuol dire che in essa prende stanza tutta l'arte della c., tutto si ordina e si dispone nella stanza quasi fosse camera capace o ricettacolo di tutta l'arte (mansio capax rive receptaculum totius artis, II IX 2). E tutta l'arte della c. consiste principalmente di tre elementi: primo circa cantus divisionem, secundo circa partium habitudinem, tertio circa numerum carminum et sillabarum, § 4). La stanza è cioè un insieme limitato di versi e di sillabe, sottoposto a una melodia ben determinata e a una disposizione ordinata delle sue parti.
Una distinzione generale delle stanze, e quindi delle c., si ha dall'essere in esse o un'unica melodia fino alla fine o una diesis, che segna il passaggio fra due diverse frasi melodiche. Il primo caso, quello cioè delle stanze indivisibili, è piuttosto raro ed è esemplificato da D. con le c. di Arnaldo Daniello e con la sua sestina Al poco giorno e al gran cerchio d'ombra (v. SESTINA).
Nel caso più frequente, quando cioè la stanza è distinta in due frasi musicali dalla diesis, si possono dare diverse eventualità: quando le due frasi sono unitarie, la prima è detta ‛ fronte ', la seconda ‛ sirma ' o ‛ coda '; quando nella prima frase melodica si ha ripetizione, si parla di ‛ piedi '; quando la ripetizione si ha nella seconda parte, si parla di ‛ volte ' (versus, secondo la terminologia dantesca non usufruita dai moderni metrologi).
Di capitale importanza appare il rapporto fra la fronte e le volte, fra i piedi e la sirma, fra i piedi e le volte. Rapporto che deve essere analizzato sia per quel che 'riguarda il numero dei versi che per quel che riguarda il numero delle sillabe, per cui, ad esempio, può aversi una fronte superante le due volte per numero di versi (cinque settenari contro quattro endecasillabi), ma superata per numero di sillabe (35 contro 44). Talora le volte superano in sillabe e versi la fronte (Traggemi de la mente amor la stiva); talora i piedi superano in sillabe e versi la sirma (Amor, che movi tua vertù dal cielo), talaltra ne sono superati (Donna pietosa e di novella etate) e così via. Naturalmente altrettanta importanza ha la strutturazione delle singole parti della stanza (fronte, sirma, piedi, volte), secondo il numero, la qualità e il rapporto dei versi. Così, quando vogliamo poetare nello stile tragico, non v'è dubbio che nella c. debba prevalere l'endecasillabo, né mancano stanze tessute di soli endecasillabi (la cavalcantiana Donna me prega perch'io voglio dire; e Donne ch'avete intelletto d'amore). Agli endecasillabi possono essere intessuti settenari, ma l'endecasillabo prevalga nel numero e sia il primo verso della stanza (e se i poeti bolognesi e certi altri hanno cominciato con un settenario, rimane l'impressione che queste loro c. procedano non sine quodam elegiae umbraculo, VE II XII 6). E può concedersi un quinario, o al massimo due (se vengano inseriti nei piedi o nelle volte per la necessaria ripetizione melodica). Tutti gli altri versi vengono esclusi, a eccezione del trisillabo, che non può però essere usato da solo, ma può venire assunto come parte dell'endecasillabo, determinando una rima al mezzo (come nella cavalcantiana Donna me prega e in Poscia ch'amor del tutto m'ha lasciato). Se s'inserisce un settenario (o più settenari, o un quinario) in un piede o in una volta in una certa posizione (ad esempio, in un piede di tre versi, il settenario tra due endecasillabi), l'altro o gli altri piedi o volte dovranno necessariamente conservare il settenario nella stessa posizione, per avere la stessa melodia.
Dopo aver visto la c. per quel che riguarda cantus divisionem atque contextum carminum (cioè la divisione melodica e la testura dei versi nelle singole parti), rimane da esaminare rithimorum relationem, cioè il rapporto fra le rime (VE II XI 1).
Poco c'è da dire per le stanze senza rima (v. SESTINA) e per quelle su una sola rima. Ma di solito la c. è su rime variamente disposte; anzi proprio soprattutto da questa varietà si svolge totius armoniae dulcedo (II XIII 3). Si deve subito dire che di solito ogni rima trova nella stanza almeno una sua corrispondente, anche se qualcuno inserisce nella stanza una rima o più, che trova corrispondenza soltanto nelle altre stanze: così fece Gotto Mantovano che inseriva nelle stanze un verso scompagnato che chiamava ‛ chiave ' (§ 4).
Nelle c. si possono usare rime diverse nelle due parti divise dalla diesis, ma più spesso rime della prima parte della stanza si intrecciano con quelle della seconda parte; anzi, di solito è l'ultima rima della prima parte della stanza che corrisponde alla prima rima della seconda parte. E si tenga conto che bellissimo è quando gli ultimi versi della stanza sono in rima.
La rima che sia senza corrispondenza all'interno del piede, deve trovare il suo compimento nella rima di ugual posizione negli altri piedi; le rime che invece hanno corrispondenza internamente ai piedi, possono essere sostituite in parte o in tutto nei diversi piedi. Lo stesso è per le volte (anche se qui tale legge può essere turbata, ad esempio, dalla presenza delle coppie finali di versi a rima baciata).
Pur non volendo indugiare troppo nella trattazione della rima (che è rinviata al non eseguito libro IV del De vulg. Eloq.), si indicano tre cose che deve evitare colui che vuol poetare aulicamente: 1) la risonanza troppo frequente della stessa rima (a meno che non si voglia intenzionalmente ottenere qualcosa di nuovo e di intentato, come accadde a D. in Amor, tu vedi ben; 2) la rima equivoca, che spinge a sottrarre sempre qualcosa all'espressione; 3) l'asprezza delle rime, cioè le parole aspre in rima, a meno che non sia mescolata a soavità: infatti la poesia tragica splende lénium asperorumque rithimorum mixtura (VE II XIII 12).
Sarà infine da tener conto del numero dei versi e delle sillabe: la lunghezza della stanza sarà anche determinata da ciò che si vuol cantare. Si direbbe che le parole dette in senso favorevole si affrettino alla fine, mentre le altre vi giungano con lentezza decorosa (II XIV 2). E qui si interrompe il De vulg. Eloq., mancando almeno, per quel che riguarda l'esame tecnico della c., una necessaria parte sul numero delle stanze.
2. Le c. dantesche sono da D. citate di volta in volta per una loro eccellenza o una loro particolarità, e di solito insieme ad altre di altri poeti provenzali, francesi, italiani; e se ne trarrà più avanti qualche indicazione generale. Soltanto una volta D. isola assolutamente una sua c., e proprio a conclusione del cap. VIII del II libro in cui riassume tutto il discorso sull'eccellenza appunto della c.: converrà riportare il passo: Dicimus ergo quod cantio, in quantum per superexcellentiam dicitur, ut et nos quaerimus, est aequalium stantiarum sine responsorio ad unam sententiam tragica coniugatio, ut nos ostendimus cum dicimus, Donne, che avete intelletto d'amore (§ 8).
È la c. con cui si avvia la nuova poesia della Vita Nuova, che è appunto la poesia della lode della donna: la beatitudine del poeta sta in quelle parole che lodano la mia donna, ed è in riferimento all'incontro del cap. XVIII che la sua lingua parlò quasi come per se stessa mossa, e disse: Donne ch'avete intelletto d'amore (Vn XVIII 8, XIX 2). Se nel passaggio dal De vulg. Eloq. alla Commedia non poche teorie saranno, ed era naturale, riaggiustate e riviste, appare importante che questa c. sia ancora giudicata nel colloquio con Bonagiunta da Lucca (Pg XXIV) come l'episodio iniziale e decisivo insieme della nuova poesia e della nuova vita poetica di D.: la c. è infatti modello di quello che D. intende per c. di stile tragico.
Il tema della c. è l'amore, proprio l'amoris accensio, nel suo più alto significato: la lode sublime della donna, nella sua nobilità, nel suo valore taumaturgico (Ancor l'ha Dio per maggior grazia dato / che non pò mal finir chi l'ha parlato, Vn XIX 10 41-42), l'amore che continuamente sfocia nel divino: l'inventario del lessico della c. dice che se Amore (personificato) ricorre ben sei volte, Dio tre volte e ancora altre tre volte in forma metaforica o perifrastica (divino intelletto, Sire, segnor del cielo). Venus, amoris accensio, dominano senza dubbio la c., ma tendono già di continuo a sbilanciarsi verso la virtus, la directio voluntatis. E sarà da badare al passaggio dall'occasione (prosa introduttiva) alla poesia tragica anche attraverso la sublimazione dei fatti in un tono assoluto di verità generale, secondo un'espressa raccomandazione del De vulg. Eloq., per cui quei magnalia debbono essere trattati nella loro essenza senza invilirsi in elementi aggiunti o particolari (VE II IV 8 salus, amor et virtus, et quae propter ea concipimus, dum nullo accidente vilescant): cadono infatti i particolari dell'incontro con le donne, come pure la squisita posteriore rêverie lungo uno rivo chiaro molto ( Vn XIX 1), per non dire del ridere e del consultarsi fra le donne stesse; così le parti dialogiche con le donne si risolvono tutte in affermazioni programmatiche, mentre si sviluppa un dialogo fra essenze divine, o si citano parole di Amore personificato o della c. figliuola d'Amor (Vn XIX 12 79).
Di volgare illustre, sia per quel che riguarda la costruzione e ancor più evidentemente per quel che riguarda i vocaboli, la c. è tutta intessuta. Delle nove parole raccomandate in VE II VII 5, come quelle che lasciano una certa dolcezza in chi le pronuncia (amore, donna, disio, vertute, donare, letitia, salute, securtate, defesa) ne ricorrono qui sei (amore otto volte, donna sette volte, disiata 29, vertute 38, dona 39, salute 39); e si è tentati di credere, vista la coincidenza delle prime cinque, che D. proprio a questa c. pensasse quando drizzava quella lista. Pur tralasciando un esame minuzioso di tutte le parole della c. (si pensi all'uso più ristretto di provenzalismi e sicilianismi), si ponga almeno mente alle parole in rima: delle 70 parole in rima, 8 finiscono con due vocali (-ùi, -ìa, -èi), 50 con due vocali che comprendono una consonante (-ore, -ire, -ede, -ale, -ati, ecc.), 2 con una consonante forte (-etto, vv. 15 e 19), 10 con una nasale più una muta (-ente, -ende, -ando): evidentissima è la volontà di una rima poco vistosa, fin banale (si noti anche la frequenza in rima di forme verbali in -ire, participi in -ati, -ato, -ala). Viene in mente l'agevolezza de le... sillabe di cui si parla in Cv I X 13. A cose del genere alluderà il congedo rivolto alla c.: Or t'ammonisco, perch'io t'ho allevata / per figliuola d'Amor giovane e piana (vv. 59-60), che richiama il cavalcantiano " Là dove insegna Amor sottile e piano ", nel sonetto antiguittoniano Di vil matera (e farà parte della memoria dantesca il dir soave e piana di Beatrice, in If II 56).
Per quel che è della costruzione sintattica (le proprietadi de le sue co[stru]zioni... piene di dolcissima e d'amabilissima bellezza, Cv I X 13), ci limiteremo a rilevare l'alternarsi di stanze in cui sostanzialmente la scansione metrica tende a coincidere con la struttura sintattica (la, 3a) con altre in cui l'andamento del discorso tende ulteriormente ad attenuare le nervature metriche (2a, 4a, 5a), attraverso enjambements e riprese sintattiche. Si aggiungano certe positure retoriche, che ne rialzano e innervano la costruzione: basti pensare all'allitterazione congiunta con la ripetizione in vada con lei, che quando va per via (v. 32), alla ripetizione di parlando-parlar (vv. 8-9; che, per di più, collega fronte e sirma: Foster-Boyde).
Per quello che è della solennità del verso notiamo subito che la stanza è tutta di endecasillabi. In particolare poi, il primo verso Donne ch'avete intelletto d'amore, che era stato a lungo riposto ne la mente con grande letizia (XIX 3) appare quant'altri mai solenne, anche per la sua testura ritmica con quel forte accento di prima e gli accenti sulla quarta e settima, che D. adopera in situazioni di forte energia, o comunque in situazioni di particolare rilevanza (Baldelli, Canto XIII; e v. ENDECASILLABO): orbene, quel verso, così a lungo conservato nella memoria, ha determinato una specie di eco ritmica largamente distesa, per cui hanno lo stesso ritmo (accenti di prima, quarta e settima; tralascio i casi dubbi) non perch'io creda sua laude finire, v. 3; donne e donzelle amorose, con vui, v. 13; Angelo clama in divino intelletto, v. 15; Sola Pietà nostra parte difende, v. 22; escono spirti d'amore infiammati, v. 52; solo con donne o con omo cortese, v. 67. E volendo protrarre almeno un poco tale analisi sui ritmi dei versi si noti che il primo piede risulta di due distici quasi paralleli (1, 4, 7; 2, 4, 8; 1, 4, 7; 4, 8): Donne ch'avete intelletto d'amore, / i' vo con voi de la mia donna dire, / non perch'io creda sua laude finire, / ma ragionar per isfogar la mente.
La stanza è sullo schema ABBC, ABBC, CDD, CEE, la c. è su cinque stanze, compreso il congedo, che costituisce appunto l'ultima stanza (v. CONGEDO), ma D., nella divisione che segue, isola fortemente anche la prima stanza che è proemio de le seguenti parole (XIX 15) così che la c. viene a strutturarsi 1+3+1 (come Amor che ne la mente), in un rapporto numerico che sarà stato assai gradito al poeta.
I piedi superano in versi e in numero di sillabe la sirma o volta (il Biadene [Collegamento delle due parti] ritiene, probabilmente a ragione, che nella seconda parte della c. si abbia la sirma e non le volte perché mai cade pausa alla fine della volta: divide in piedi e volte il Marigo). La diesis in tre casi coincide con la struttura sintattica, e viene addirittura a cadere dopo il punto fermo (la, 3a, 4a); in due stanze (2a, 5a) si ha una pausa minore (difende / ché parla Dio; vana, / non restare, vv. 22-23, 64-65). Nella prima stanza, esemplarmente i tre periodi coincidono rispettivamente con i due piedi e la sirma. La seconda stanza invece, così dialogicamente animata, pausa fortemente il v. 16 e il 27, interrompe al terzo verso il secondo piede, tendendo a fondere il quarto con il primo della sirma; il quale primo verso della sirma viene poi ad essere fortemente separato dagli altri; gli enjambements, in numero veramente alto, cinque su 14 versi, completano il quadro ritmico-sintattico di questa stanza, che in maniera massiccia si contrappone alla prima: forse la struttura di questa seconda stanza è l'unico elemento ‛ aspro ' di tutto il contesto (ma già sappiamo che l'inclusione di un particolare ‛ aspro ' in un contesto ‛ soave ' è da D. giudicato come esaltante appunto della soavità stessa).
I due versi finali delle stanze, a rima baciata (e come richiesto in VE II XIII 7 pulcerrimae tamen se habent ultimorum carminum desinentiae, si cum rithimo in silentium cadant), sono nelle tre ultime stanze (e si può dire anche nella 2a stanza) posti in isolamento sintattico, accentuando cioè la forte posizione di clausola finale, quale veniva loro dalla posizione melodica.
E concludiamo ricordando Cv II XIII 23 la Musica... è tutta relativa, si come si vede ne le parole armonizzate e ne li canti, de' quali tanto più dolce armonia resulta, quanto più la relazione è bella.
3. Può essere a questo punto abbastanza agevole misurare le altre c. della Vita Nuova, quelle del Convivio, quelle collegabili alla Vita Nuova e al Convivio, e quelle che con probabilità furono composte lontano da idee di organizzazione in opere più o meno comprensive.
" Non è certo un caso che le tre canzoni della Vita Nuova siano tutte a strofa di 14 versi. Il fatto è che anche le due canzoni riferibili alla storia di Beatrice, E' m'incresce di me e Lo doloroso amor, hanno la strofa di 14 versi; e di 14 versi è la strofa delle due uniche canzoni di Cavalcanti. Lo stile tragico si costituiva all'inizio, su un preciso periodo metrico " (De Robertis, Le Rime di Dante). Il numero dei versi, come il numero delle sillabe, è certo un elemento importante, ma proprio sul piano della struttura saltano agli occhi alcune diversità di grande rilievo. La presenza di due settenari nella sirma di Donna pietosa e di novella etade (ABC, ABC, CDdEeCFF: Vn XXIII 17 ss.), l'aumento di due versi nella sirma e il parallelo scorciamento dei due piedi danno alla stanza un andamento assai più vario, che ben risponde alla volontà anche ‛ descrittiva ' della c. stessa. D'altra parte, la forte distinzione sintattico-ritmica fra piedi e sirma, la scelta dei vocaboli, di solito intenzionalmente smorzati in rima, e andamenti sintattici particolarmente architettati (si vedano in particolare i sei versi d'avvio; in essi, anche l'allitterazione pien di pietate, evidenziata da cinque p iniziali in tre versi, e più avanti la ripetizione vista, viso, veder, vv. 18, 19, 21: Foster-Boyde), giustificano certo la citazione di questa canzone in VE II XI 8, come esempio in cui la sirma sia più lunga dei piedi sia per versi che per sillabe.
In Li occhi dolenti (Vn XXXI 8 ss.) il rapporto con Donne ch'avete è intenzionale e scoperto proprio attraverso certe rime: Madonna è disiata in sommo cielo, v. 29: gelo, giunge a Ita n'è Beatrice in l'alto cielo, v. 15: gelo; e ciascun santo ne grida merzede, v. 21: vede: chiede → e io ne spero ancor da lei merzede, v. 70: vede; donne e donzelle amorose, con vui, / ché non è cosa da parlarne altrui, vv. 13-14 → donne gentili, volentier con vui, / non voi parlare altrui, vv. 9-10, e ancora donne e donzelle, v. 13 → le donne e le donzelle, v. 72, figliuola d'Amor, v. 60 → figliuola di tristizia, v. vile: gentile, vv. 10-11 → gentile: vile, vv. 30-33. Purtuttavia le differenze ritmico-melodiche non son poche, oltre che nello schema (ABC, ABC, CDEeDEFF) e nell'inserzione di un settenario, nell'aver introdotto un vero e proprio congedo strutturato come tale anche ritmicamente: del resto il poeta aveva premesso la divisione acciò che questa canzone paia rimanere più vedova dopo lo suo fine (XXXI 2).
Di schema assai simile alle due precedenti è Quantunque volte, lasso!, mi rimembra (AbC, AbC, CDEeDFF; XXXIII 5 ss.); e anche qui sono reperibili significative anafore, dolente, dolore, dolorosa, vv. 3, 4, 5 (con l'allitterazione donna: dolente), e fin rime ricche nei due versi di chiusura delle due stanze, amore: more, sottile: gentile (vv. 12-13, 25-26).
4. La struttura delle stanze, la qualità del lessico usato, e più delle parole in rima, l'andamento sintattico tendono a effetti di consimile alta fusione nelle prime due c. del Convivio, Voi che 'ntendendo, e Amor che ne la mente: nella prima tutti endecasillabi (ABC, BAC, CDEEDFF), disposti in modo assai vicino a Donne ch'avete, nella seconda la stanza si dilata a 18 versi, di cui 17 endecasillabi (ABBC, ABBC, CDEeDFDFGG). Del resto Amor che ne la mente è citata in VE II VI 6 come esempio di poesia in cui si realizza il grado sapidus et venustus etiam et excelsus della costruzione di cui sono appunto intessute le illustres cantiones; e che la c. fosse particolarmente cara a D., si accerta dagli esempi avvicinati, illustri appunto in vocabulis atque constructione (§ 8), e specialmente dalla sua ripresa nell'episodio di Casella (Pg II 112), in cui il primo verso viene immesso in un contesto di rime uguali a quelle dell'avvio della c. (ragiona, v. 1: sona, v. 5; desiosamente, v. 2: sovente, v. 3: sente, v. 6: possente, v. 7, che rispondono nel Purgatorio a ragiona, v. 112: suona, v. 114; dolcemente, v. 113: gente, v. 115: mente, v. 117), con fitti echi di parole (Lo suo parlar sì dolcemente sona, / che l'anima ch'ascolta, vv. 5-6 → l'anima mia... / cominciò elli allor sì dolcemente, / che la dolcezza ancor dentro mi suona, vv. 110, 113-114).
Nonostante qualche dubbio (Marigo), pare certo che D. conceda alla c. illustre un massimo di cinque settenari (Et sicut quaedam stantia est uno solo eptasillabo conformata, sic duobus, tribus, quatuor, quinque videtur posse contexi, dummodo in tragico vincat endecasillabum et principiet, VE II XII 6); d'altra parte, Doglia mi reca è citata in II II 9 come esempio di canto intorno alla rettitudine, e Doglia mi reca ha 9 settenari su 21 versi (ABbCd, ACcBd, DeeF fGHhhGG), con, per di più, sei coppie di rime baciate e tre versi a rima baciata (Hhh). Ne trarremo che anche c. con un forte numero di settenari e di rime baciate possono essere considerate illustri, ma non raggiungere quell'assoluta perfezione stilistica a cui D. mira negli ultimi capitoli del De vulg. Eloq.; e infatti non troviamo, a proposito di eccellenza stilistica, mai citate c. come Le dolci rime (AbBc, BaAc, CDEeDdDFfEGG) e Tre donne intorno al cor (AbbC, AbbC, CDdEeFEfGG), ambedue con 7 settenari. Le c. più essoteriche di D. tendono anche a una stanza più lunga di quelle d'amore, le più delle quali sono di 14 versi o di 13: di 18 versi è Tre donne intorno al cor, di 19 Poscia che amor, di 20 Le dolci rime, di 21 Doglia mi reca; e in esse, e soltanto in esse fra le canzoni di D., il numero dei settenari è assai notevole; 7 in Le dolci rime, in Tre donne (come questa, anche Amor che ne la mente è di 18 versi, ma con 17 endecasillabi) e in Poscia che amor (in cui sono anche quinari e trisillabi), 9 in Doglia mi reca. Appare che l'intento dottrinale porti con sé la necessità di un discorso più articolato sintatticamente, più aperto a tutte le risorse della retorica (Boyde), e nello stesso tempo più logicamente concitato. La necessità cioè di convertire i suoi ascoltatori (non poesia ut delectet, e nemmeno ut doceat, ma ut flectat: Boyde) porta come una congestione nei versi (abbondanza di settenari) e nelle rime (a rima baciata, in Tre donne, 12 versi su 18, in Le dolci rime 15 su 20, in Doglia mi reca 15 su 21; e anche maggior insistenza in Poscia che amor). In queste c. morali, il massimo dell'artificio pare ottenuto da Doglia mi reca, equivalente di un atteggiamento irato e violento; il massimo dello " spogliamento dello stile, fatto ignudo nelle più vive articolazioni " (Contini, Rime), si ha in Tre donne intorno al cor, equivalente di un tono di dolente dignità, mentre Poscia che amor pone problemi stilistici di ‛ arcaismo ' (vedi al paragrafo seguente).
Amor, che movi tua vertù dal cielo è citata due volte nel De vulg. Eloq., come esempio in cui i piedi superano in numero di versi e di sillabe la sirma (AbBC, AbBC, CDdEFeF: II XI 7), e come c. che comincia con un endecasillabo, insieme ad altri illustri campioni (V 4); in questa c., fitta di considerazioni dottrinali, com'è stato osservato, " il guinicellismo evidente fa di questi loti i meno originali di Dante " (Contini, Rime). Anche Amor, da che convien ha la stanza di 15 versi (AbC, AbC, CDdECDDEE), di cui tre settenari, ma il rapporto tra fronte e sirma che in Amor che movi " era di 8+7, in questi è di 6+ 9, che si avvicina a quello della canzone Io sento si d'Amor (6+10), con la quale Amor da che convien ha in comune la disposizione delle rime fino al verso 14 " (Barbi-Pernicone, Rime). E anche questa volta il rapporto metrico fra Amor, che movi, Amor, da che convien, Io sento si d'Amor (AbC, AbC, CDDECDDEFF; linguisticamente e tecnicamente, con non pochi caratteri arcaizzanti, Foster-Boyde) risponde a non poche simiglianze tematiche, al di là di rapporti cronologici (Io sento sì d'Amor forse ancora del tempo fiorentino, Amor, da che convien, probabilmente di data assai bassa).
5. Anche nelle c. ritenute prime in ordine cronologico, di solito l'endecasillabo domina e si alterna a rari settenari, come in La dispietata mente, con un solo settenario (ABC, ABC, CDEeDFF) e Lo doloroso amor con due (ABC, ABC, CDeeFEGG): del resto, com'è stato osservato, la preferenza per l'endecasillabo era un dato della lirica fiorentina precedente, da Chiaro a Monte; in particolare Chiaro fu uno dei primi a dare " l'esempio della grande stanza tutta d'endecasillabi distribuiti in quattro periodi metrici " (Casini). D'altra parte, l'esclusione dalla Vita Nuova delle tre c. La dispietata mente, E' m'incresce di me (AbC, AbC, CDEdFfEE), Lo doloroso amor può essere giustificata, oltre che dai loro temi (tonalità ‛ feudali ', amore-sofferenza), anche da alcuni elementi tecnico formali: il Pazzaglia, a questo proposito, riprende almeno per La dispietata mente ed E' m'incresce di me l'affermazione dello Zonta secondo cui D., fino alle ‛ petrose ', crede " che il corpo armonico e il colore melodico d'una lirica derivino dalla varia struttura e legatura della strofa e che il verso sia una parte soltanto di questa unità musicale ", per cui l'endecasillabo tende ad attenuare le sue cesure e i suoi accenti interni; lo stesso Pazzaglia mette finemente in evidenza in queste tre c. la " connotazione patetica del settenario " (reperibile anche in altre c. di D.): " il tempo ‛ rubato ' sull'endecasillabo determina una scansione più intensa dei versi, una pausa più sensibile, alla fine, che li conclude e li stempera 'in un alone di diffusa elegia " (Pazzaglia, Note sulla metrica delle prime canzoni dantesche).
D'altra parte, in questé c. non è difficile indicare parole e forme tratte dai siculo-provenzali che spesseggiano nei poeti anche fiorentini della generazione precedente a D.: sacciate del v. 29 di La dispietata mente trova rispondenza in tutta l'opera dantesca soltanto nella giovanile tenzone con Dante da Maiano (Baldelli, D. e i poeti fiorentini); in E' m'incresce di me " le prime tre strofe... sono concatenate con un artificio affine a quello delle coblas capfinidas... un vero e proprio arcaismo " (Contini, Rime); in Lo doloroso amor, fin la rima imperfetta (v. 26), e due versi di ogni stanza, l'ottavo e il decimo, senza rima.
Di impianto tecnicamente ‛ arcaico ' è Poscia che amor del tutto m'ha lasciato (Aa5a3BbcD, Aa5a3BbcD, dEeFGgF), citata in VE II XII 8, come esempio di c. in cui sia presente il trisillabo non per sé stante, ma come parte dell'endecasillabo, e segnato dalla rima rispondente col verso precedente (tale artificio si reperisce anche nella stanza isolata Lo meo servente core, ricca di elementi arcaici e scolastici; v. STANZA). La forte vicinanza delle rime, sconsigliata nel De vulg. Eloq., qui è ottenuta ponendo appunto all'inizio dei due piedi un endecasillabo, un quinario e un trisillabo appunto in rima (Poscia ch'Amor del tutto m'ha lasciato, / non per mio grato / ché stato..., vv. 1-3). I continui provenzalismi, alcuni dei quali senz'altra attestazione in D., costituiscono l'equivalente lessicale di una tale struttura metrica: noioso, messione, fallenza, pregia, genti coraggi, donneare, leggiadro portamento, blasmata, prenze, ecc.
6. Che il De vulg. Eloq., esprima, come si è detto, la decantazione teorica, e oltranzista, di un momento ‛ classico ' di D., o meglio di una sua aspirazione alla grande lirica linguisticamente e stilisticamente classica e fusa, si accerta anche dall'esame delle cosiddette rime petrose: l'esperienza delle petrose si rifà infatti, al di là dello Stilnuovo, direttamente ad Arnaut Daniel, con rapporti anche con quei rimatori fiorentini che si erano volti al poetare ermetico, per suggestione di certo Guittone, primo fra tutti Monte Andrea. Certo è che nel De vulg. Eloq. l'esperienza delle petrose, se non è proprio respinta, non è ritenuta un punto conclusivo ed è semmai guardata con una certa simpatia come punto di partenza: quando viene sconsigliata la troppo frequente risonanza della stessa rima, si eccettua il caso in cui si voglia con ciò cercare qualche intentata novità dell'arte, come accade al cavaliere che non può far trascorrere il giorno in cui gli viene concessa la dignità cavalleresca senza compiere un'impresa di singolare eccellenza: questo si sforza di fare D. dove canta Amor, tu vedi ben che questa donna (VE II XIII 12).
Più tardi sarà ricuperata anche l'esperienza delle petrose, in tutt'altro contesto: " in linea teorica, esperienze di quest'ordine rischiano la sterilità oltre una certa ‛ durata ' della concentrazione lirica; e in linea di fatto una critica interna è in atto, in qualche modo, nella stessa opera dantesca, in quanto i risultati di simile esperienza sono digradati, ingranati in un discorso, usufruiti nella Commedia " (Contini, Rime).
Nella più alta forse delle petrose, Io son venuto al punto de la rota, la agevolezza de le sillabe in rima, così massiccia e vistosa in Donne ch'avete intelletto d'amore e in altre di simile tono, è ridotta al minimo: basti pensare che su 72 versi, appena 18 rimano con parole terminanti con due vocali comprendenti una sola consonante (e due con due vocali); fra gli altri cón più consonanti, alcuni offrono in rima una consonante liquida dopo una muta o l'accoppiamento di due liquide, espressamente condannati in VE II VII 5 e XIII 12. Così Foster-Boyde commentano l'asperitas di Così nel mio parlar: " In the poems contained in the Vn the most common consonants within the rhyme are: d (22), l (36), n (31), r (160), s (29), t (91), v (20); nd (20), nt (64), rt (23). These account for 496 of the 676 verses, that is nearly 75 per cent., and may fairly be regarded as dolci. The harsh consonants groups may be seen in the following, none of which are to be found in rhyme in the Vita Nuova, but all of which are found either in this canzone or in If XXXII (S'io avessi le rime aspre e chiocce) or both: b, bb, cc, cci, g, lz, nc, ngi, ns, pr, rr, rm, rs, rz, sc, spr, tr, zz ".
Nelle rime petrose sono reperibili chiaramente quelle tre cose di cui disconviene l'uso a colui che vuol poetare aulicamente: la troppo frequente risonanza della medesima rima; l'inutilis aequivocatio che toglie sempre qualcosa all'espressione; l'asprezza delle rime (a meno che non sia mescolata a soavità). L'aequivocatio domina naturalmente la sestina (Al poco giorno) e la sestina doppia (Amor, tu vedi ben), è fortemente presente in Io son venuto al punto de la rota, nella coppia di parole-rima finale di ogni stanza; le rime aspre sono il più vistoso artificio tecnico di Io son venuto e di Così nel mio parlar; la troppo frequente risonanza della stessa rima, oltreché dominare Amor, tu vedi ben, è in fondo anche propria di Così nel mio parlar, ove " dal sesto verso in giù non si hanno se non rime baciate, con un effetto d'insistenza incalzante, specialmente in presenza dei settenari " (Contini, Rime): ABbC, ABbC, CDdEE, per cui sono a rima baciata anche i versi 2:3, un totale di 10 versi su 13 a rima baciata.
Tornando a Io son venuto (ABC, ABC, CDEeDFF), l'effetto grandioso del tutto si dovrà anche alla possente monotonia dei due piedi e della sirma ottenuta con artifici assai sottili, non solo pausando sempre alla fine dei vari membri, senza cioè stabilire comunicazione sintattica. Osserva il Contini (Rime) che " l'unico settenario della strofe, introdotto sempre da un e energicamente avversativo, segna la separazione "; in realtà tale elemento separativo è usufruito anche, e almeno nelle prime tre strofe sistematicamente, al passaggio dal primo al secondo e all'inizio della sirma: Io son venuto al punto de la rota / che lʼorizzonte, quando il sol si corca / ci partorisce il geminato cielo, / e la stella d'amor ci sta remota / per lo raggio lucente che la 'nforca / sì di traverso, che le si fa velo; / e quel pianeta che conforta il gelo / si mostra tutto a noi per lo grand'arco / nel qual ciascun di sette fa poca ombra: / e però non disgombra / un sol penser d'amore, ond'io son carco, / la mente mia, ch'è più dura che petra / in tener forte imagine di petra. Così nelle due stanze seguenti (e passa il mare, onde conduce copia, v. 17; e poi si solve, e cade in bianca falda, v. 20; e Amor, che sue ragne, v. 23; e li altri han posto a le ior voci triegue, v. 30; e tutti li animali che son gai, v. 33; e 'l mio più d'amor porta, v. 36); nella quarta stanza e segna il passaggio dai piedi alla sirma e l'inizio del settenario (e tanto è la stagion forte ed acerba, v. 46; e la crudele spina, v. 49), ma poi ci si accorge che la prima e è presente, anticipata al v. 42 (e morta è l'erba); nella quinta infine si reperisce all'inizio del settenario e al secondo verso della sirma (e l'acqua morta si converte in vetro, v. 60; e io de la mia guerra, v. 62), ma un terzo e appare spostato al secondo verso del secondo piede (e sarà mentre, v. 57; del resto, una forte tendenza al parallelismo e alla simmetria, sia pure diversamente realizzati, notano Foster-Boyde in Così nel mio parlar). Ne risulta un accumulo di elementi tendenti all'ossessione invernale, che si ribadisce negli ultimi due versi del congedo, dopo gli altri alludenti alla primavera: Canzone, or che sarà di me ne l'altro / dolce tempo novello, quando piove / amore in terra da tutti li cieli, / quando per questi geli / amore è solo in me, e non altrove?, vv. 66 ss.), ove l'effetto teso e insieme spigliato si ottiene attraverso il contrasto di ripetizioni studiate (" Si noti la replicazione, con frattura, di altro dolce, dal verso precedente; così come quando si ripete equivocamente [la seconda volta vale " se "], nei vv. 67 e 69, e amore, in posizione iniziale, nei vv. 68 e 70 ", Contini, Rime), con una sintassi che attraverso tre enjambements realizza un'ariosa e spedita attenuazione della struttura metrica (v. CONGEDO). Del resto, l'ossessione invernale era emblematicamente avviata dalla descrizione astronomica, costruita sul remoto della stella d'amor e l'incombere (si mostra tutto a noi) del pianeta che conforta il gelo.
E altro ci sarebbe da dire sulla qualità delle parole anche non in rima: una tale tecnica ‛ difficile ', se spingeva D. per un verso a sollecitare all'estremo il linguaggio culto, per altro verso lo trascinava a parole o giri non espressamente letterari, che lo 'schivo ideale stilnovistico o il classico stile delle c. del Convivio escludevano: un'altra sezione del vocabolario veniva così ad essere abilitata alla poesia. Osserva il Boyde che se i sostantivi astratti rispetto ai concreti sono nella Vita Nuova in rapporto 2 a 1 (e in Donna mi reca sono in proporzione quasi pari, 6 a 5), in Io son venuto e in Così nel mio parlar il rapporto è addirittura rovesciato, cioè 1 a 2. " In versi quali: ramo di foglia verde a noi s'asconde / se non se in lauro, in pino o in abete / o in alcun che sua verdura serba; / e tanto è la stagion forte ed acerba, / c'ha morti li fioretti per le piagge, / li quai non poten tollerar la brina, una veramente sublime sapienza di positure disloca essenze linguistiche della più grande tradizione lirica; eppure proprio qui, sotto la spinta appunto del trovare difficile, si espongono in rima brina, che non appare nella poesia cortese anteriore a Dante, e poi ventre che è in Guittone, e perfino mentre (e sarà mentre / che durerà del verno il grande assalto) " (Baldelli, D. e i poeti fiorentini). E ancor più violente presenze in Così nel mio parlar: borro, ferza, latra, orso, scherana, scudiscio.
Se si terrà conto di tutto questo, ben si comprenderà lo stacco di questa c. (e delle altre petrose) dalla giovanile, e piuttosto fiacca La dispietata mente, che pur usa il medesimo schema; medesimo del resto fino a un certo punto, se si tien conto che in Io son venuto i due ultimi versi non hanno soltanto la rima baciata, ma la stessa parola, con tutto quello che ciò comporta di equivoco, di intenso, quasi un sigillo di trobar clus.
7. La parola c. è adoperata da D. diecine di volte nella Vita Nuova, nel Convivio e nelle Rime, sempre col valore tecnico proprio (vedi oltre l'elenco delle occorrenze).
Nella Commedia si hanno tre occorrenze con valori diversi, in un caso almeno di singolare interesse. In Pg XXXII 90 li altri dopo 'l grifon sen vanno suso / con più dolce canzone e più profonda, ha il valore di " inno cantato ", come si accerta ai vv. 61-62 qui non si canta / l'inno che quella gente allor cantaro; e così in XXXI 134 vorrà dire " versi cantati ": " Volgi, Beatrice, volgi li occhi santi ", / era la sua canzone.
Più interessante pare il luogo in cui con c. si allude a una delle tre parti della Commedia: dar matera al ventesimo canto / de la prima canzon. (If XX 3). Anche se altra volta si usa cantica (Pg XXXIII 140), colpisce che il teorizzatore della c. come propria della poesia tragica si serva dello stesso termine, sia pure una sola volta, per indicare poesia comica per eccellenza, e in un canto in cui si potrebbe anzi parlare più di elegiaco che di comico.
Al tempo delle grandi c., D., nel suo tendere a identificare la sua esperienza con l'essenza della realtà poetica, era giunto a identificare la c. come la forma metrica sublime, mentre tutte le altre forme gli apparivano come inferiori anche sul piano della lingua e dello stile. Ma l'esigenza di dar fondo alla realtà poetica e l'aspirazione all'assoluto evidentemente s'intensificano nel D. della Commedia, per cui la c. tragica, che rappresentava appunto la massima conquista dantesca dopo assimilata la lezione più alta dei provenzali e la struttura della c. cavalcantiana, non poteva non apparire superata dalla nuova opera, proprio sul piano della strenuitas ingenii, dell'artis assiduitas e dello scientiarum habitus. La nuova opera cioè già in limine aveva largamente rotto gli schemi del tragico e del comico fissati nel De vulg. Eloquentia. E allora il termine c., così caro al D. lirico nel suo valore esclusivo, viene ora adibito a indicare un'intera parte del poema, quasi a definire la mutata prospettiva con cui D. guarda alla sua Commedia: il sacrato poema, il poema sacro, da cui D. attende ormai l'alloro poetico, può essere avvicinato a opera di qual si sia comico o tragedo, e le sue tre grandi parti possono ben essere chiamate " canzoni ".
8. In tutte le altre opere di D., c. ricorre sempre col valore tecnico poetico (con anche, in un caso, il valore aggiunto di canto: cantata la canzone, in Cv II XI 2): Vn XIX 3 (due volte), 13 57 (ripreso al § 21), 15 (due volte), 21 e 22, XX 1, XXIII 16 e 29, XXVII 2, XXVIII 1, XXXI 1 (due volte), 2, 3 (tre volte), 7 e 17 71 (ripreso al § 7), XXXII 1, XXXIII 2, 3 e 4 (due volte); Rime L 66, XCI 81 e 97, c 66, CII 61, CII 79, CIV 91, 101 e 102, CVI 148, CXVI 76; CV I I 14 e 18, II 16, III 2, V 6, 7 e 15, VI 1, VII 5 e 11, VIII 1, IX 7, X 10, XIII 11, II voi che ʼntendendo 53, I 15, II 6 e 7, VI 1, 2 e 10, VII 2, X 11, XI 1 (due volte), 2, 3 (due volte), 5 (due volte), 6, 7, 9 e 10, XII 8, XV 2 e 12, III Amor che ne la mente 73 (ripreso in IX 2), I 13 (due volte), II 1, IV 13, VIII 22, IX 1 (due volte), 2, 3, 4 e 15, X 3, 5 (due volte) e 10, XI 9, XII 1, XV 19, IV I 9, 10 e 11, II 1, III 1, VII 4 e 13, XIII 16, XV 1, 5 e 9 (due volte), XX 7, XXX 1 (tre volte), 3, 5 e 6. In II II 7 e XII 12 è integrazione dell'edizione Simonelli.
Bibl. - K. Bartsch, Dantes Poetik, in " Jahrbuch der deutschen Dante-Gesellschaft " III (1871) 303-367; L. Biadene, Il collegamento delle stanze mediante la rima nella c. italiana dei secoli XIII e XIV, Firenze 1885; E. Monaci, Sul collegamento delle stanze nella c., in " Atti R. Accad. Lincei " s. 4, Rendiconti I, XII (1885); L. Biadene, La forma metrica del commiato nella c., in Miscellanea Caix-Canello, Firenze 1886; G. Listo, Studio sulla forma metrica della c. italiana nel sec. XIII, Imola 1895; L. Biadene, Il collegamento delle due parti principali della stanza per mezzo della rima nella c. italiana dei secoli XIII e XIV, in Scritti varii di filologia dedicati a Ernesto Monaci, Roma 1901; ID., La rima nella c. italiana dei secoli XIII e XIV, in Raccolta di studi critici dedicati ad Alessandro D'Ancona, Firenze 1901; G. Carducci, La c. di D. " Tre donne intorno al cor mi son venute ", in Opere, X, Bologna 1904; F. D'Ovidio, La metrica della c. secondo D., in Versificazione italiana e arte poetica medievale, Milano 1910; F. Neri, " Io son venuto al punto de la rota ", in " Bulletin Italien " XIV (1914); G. Zonta, La lirica di D., in " Giornale stor. " suppl. 19-21, Torino 1922; Barbi-Maggini, Rime, passim; D. De Robertis, Il libro della " Vita Nuova ", Firenze 1961; ID., Le rime di D., in Nuove lett. 1285-316; P. Boyde, Style and Structure in Dante's Canzone ‛ Doglia mi reca ', in " Italian Studies " XX (1965) 26-41; ID., Dante's Lyric Poetry, in The Mind of D., Cambridge 1965; I. Baldelli, Sulla teoria linguistica di D., in " Cultura e scuola " 13-14 (1965) 705-713; ID., Il canto XIII dell'Inferno, in Nuove lett., II 33-45; Dante's Lyric Poetry, a c. di K. Foster e P. Boyde, Oxford 1967, passim; M. Pazzaglia, Il verso e l'arte della C. nel ʽ De Vulgari eloquentia ʼ, Firenze 1967; ID., Note sulla metrica delle prime canzoni dantesche, in " Lingua e Stile " III (1968) 319-331; I. Baldelli, D. e i poeti fiorentini del Duecento, Firenze 1968; D.A., De vulg. Eloq., a c. di P.V. Mengaldo, Padova 1968; Barbi-Pernicone, Rime, passim.
Struttura musicale. - Sulla struttura musicale della c., D. s'intrattiene con sufficiente ampiezza in più luoghi del De vulgari Eloquentia e del Convivio: i quali però non sempre sono perspicui come vorremmo, a causa della scarsità della documentazione musicale, che D. non allega e che la tradizione ci ha trasmesso in misura inadeguata. Riassumiamo qui assai brevemente i momenti più notevoli dell'insegnamento dantesco. Al termine di una rigorosa dimostrazione, impostata nell'ottavo capitolo del secondo libro del De Vulgari Eloquentia, D. conclude che la c. nichil aliud esse videtur quam actio completa dictantis verba modulationi armonizata: perfetta c. è quella che appare come opera compiuta di chi scrive con arte parole tali da poter ricevere su di sé travestimenti musicali. In particolare, la stanza della c. è un insieme di versi e di sillabe, delimitato da una melodia propria e da una corrispondente struttura generale (stantiam esse sub certo cantu et habitudine limitatam carminum et sillabarum compagem, II IX 6). Infine, l'intero cap. X del II libro è dedicato a una casistica minuziosa ed esatta delle varie correlazioni morfologiche attuabili fra lo schema poetico e quello musicale. Gli studiosi che si sono occupati della medesima questione (tra gli altri A. Marigo e F. Mompellio) prospettano l'ipotesi che fosse non solo possibile, ma consueta la composizione di canzoni senza musica, in quanto, durante il Duecento, la c. si era trasformata da forma poetico-musicale in componimento essenzialmente poetico (W. Th. Marrocco si mostra favorevole invece all'ipotesi che le canzoni di D. fossero sì accompagnate dalla musica, ma da una musica improvvisata, non scritta, e con carattere di recitazione su un accompagnamento strumentale, piuttosto che sotto forma di melodia spiegata). Ora, non si può dire con sicurezza che la poesia italiana, a differenza di quella franco-provenzale del medesimo periodo, preferisse fare a meno della musica, non bastando a suffragare tale ipotesi la prova negativa costituita dalla scarsissima consistenza del patrimonio musicale, a noi giunto, del Duecento italiano. La mancanza di fonti musicali può essere determinata da molte cause. E d'altronde, non è prudente, per quanto riguarda la struttura della c., attenersi a una rigida suddivisione basata puramente sulla disposizione dei testi, e considerare separatamente le canzoni italiane da quelle provenzali o francesi. Lo stesso D., nei capp. V e VI del II libro del De vulgari Eloquentia, adopera, a miglior dimostrazione dei precetti teorici che viene successivamente esprimendo, esempi tratti, alla rinfusa, da Giraut de Borneilh, dal Re di Navarra, Guido Guinizelli, Cino da Pistoia, Folchetto da Marsiglia, Arnaldo Daniello, Guido Cavalcanti, e altri ancora. La c., per la nobiltà stessa del suo stile, apparteneva a un patrimonio culturale comune alle varie letterature; nel trattare poi della c. ideale e perfetta, D. non fa distinzioni linguistiche, e si riferisce invece al quadro storico visto nell'insieme. E poi, non è nemmeno del tutto esatto che poesia e musica, nella realtà della prassi, percorressero ormai, nell'Italia dell'epoca di D., due strade parallele, e perciò destinate a non incontrarsi. A parte l'episodio di Casella, che ha valore di documento poetico più che di dato di fatto, esiste il noto passo del Convivio (II XI 2-3) ove D. polemizza con i primi poeti che praticarono la ‛ tornata ', ossia il congedo della c., strutturandola in modo che a essa potesse essere adattata, in tutto o in parte, la stessa melodia già usata per le stanze precedenti. Ma io rade volte a quella intenzione la feci: perché, secondo il suo intendimento, il congedo non doveva ridursi a mero artifizio retorico-musicale, ma usarsi solo quando alcuna cosa in adornamento de la canzone era mestiero a dire (Cv II XI 3). Ma intanto egli rivela di avere, se pur occasionalmente, fatto ricorso a una tecnica concepita in funzione e a servizio di un immediato legame con la melodia. Ci sono infine alcune testimonianze delle Rime, su cui già richiamarono l'attenzione M. Barbi e F. Maggini. Nell'inviare la stanza Lo meo servente core all'amico Lippo, D. allegorizza il dono sotto l'immagine di una pulcella nuda: Lo qual ti guido esta pulcella nuda, / che vien di dietro a me sì vergognosa, / ch'a torno gir non osa, / perch'ella non ha vesta in che si chiuda (XLVIII 13-16).
Un'altra ʽ rima ʼ, la ballata Per una ghirlandetta, ricorre ancora all'allegoria della vesta: Le parolette mie novelle, / che di fiori fatto han ballata, / per leggiadria ci hanno tolt'elle / una vesta ch'altrui fu data (LVI 18-21). In entrambi i luoghi, la vesta è da intendersi come il rivestimento musicale: nel primo caso il componimento ne è affatto privo, e per questo il poeta intercede, e prega chi riceverà i versi di far loro ugualmente onore; nel secondo caso la poesia ha sì una vesta, ma è una musica che fu data già ad altri versi (un contrafactum come si usa dire oggi parlando di simili scambi fra testi e musiche differenti). E conclude il poeta: però siate pregata, / qual uom la canterà, / che li facciate onore (vv. 22-24).
Versi con melodie, non importa se originali o mutuate, non importa se scritte dallo stesso poeta o da un musicista di professione, non dovevano quindi essere nemmeno tanto rari. Ma qui non si tratta di ricostruire il costume musicale di un'epoca. Ci pare invece assai più proficuo indagare su quanto è effettivamente giunto sino a noi, e più precisamente sulle caratteristiche, specie musicali, delle canzoni i cui autori D. ricorda con particolare rilievo, nella Commedia e altrove.
Nell'Inferno, il solo trovatore menzionato è Bertram dal Bornio (E perché tu di me novella porti, / sappi ch'i' son Bertram dal Bornio, quelli / che diedi al re giovane i ma' conforti, XXVIII 133-135). Dei suoi quarantacinque componimenti poetici, uno solo è corredato di melodia autonoma, il sirventese-canzone Rassa, tan creis e mont'e poja (Pillet, pp. 80, 37). La tradizione manoscritta di questa melodia è attestata dal solo Canzoniere R (Parigi, Bibl. Nat. franç. 22543) a f. 6v; nel medesimo codice, a f. 40r, si trova la stessa melodia adattata al celebre ‛ enueg ' del Monaco di Montaudon, Fort m'enoja, so auzes dire (Pillet 305, 10). È il caso di avvertire che sono abbastanza numerosi, nella tradizione manoscritta delle melodie trobadoriche, gli esempi di un unico motivo applicato a testi differenti: il problema dell'autenticità è, ogni volta, di soluzione estremamente difficile, per non dire impossibile. Cronologicamente, l'opera di Bertram precede, se pur di poco, quella del Monaco; tuttavia questo elemento non è di per sé solo sufficiente a ritenere senz'altro Bertram l'autore del canto. In mancanza di indizi biografici forniti dalle Vidas (l'unico elemento, offerto da una versione della Vida di Bertram - ed evidentemente desunto dal congedo di Rassa, tan creis: " Papiols: mon chantar recor / en la cort mo mal Bel-Senhor " - ci informa che il cantore delle melodie di Bertram aveva nome Papiol: un menestrello, un jongleur, dato che Bertram non aveva evidentemente le doti per eseguire le sue melodie), tutte le supposizioni diventano possibili. Tuttavia, anche per il fatto che Bertram aveva un proprio giullare e che quindi l'esecuzione cantata delle sue poesie doveva essere un fatto ordinario, teniamo valida l'ipotesi che la melodia di Rassa, tan creis sia da ritenersi originale. Il confronto fra le due versioni, quella di Bertram e quella del Monaco, ci rivela inoltre che non si è trattato della pura e semplice trasposizione della stessa linea melodica da un testo all'altro. Se per le prime quattro frasi-verso la corrispondenza è puntuale, eccettuato un modesto abbellimento, nella seconda parte della cobla, dopo la diesis, le modificazioni fra le due redazioni sono tali da alterare alcune note basilari, e fanno presupporre una differente tradizione.
Al solito, la lezione del sirventese di Bertram fornita da R è fortemente difettosa: seguiamo pertanto l'edizione critica dello Stimming, la quale però ci obbliga a effettuare contro voglia alcune modifiche nella linea melodica. Ad esempio, il v. 10 è ipermetro in R (" mas il sap far tan entier' honor "), e la melodia che vi si accompagna possiede regolarmente nove note, una per sillaba. Il musicista non aveva fatto caso a questa irregolarità strutturale, poiché impiega in questo verso una frase musicale basata prevalentemente su una corda di recitazione o tenor, alla maniera della salmodia ecclesiastica; e il ‛ recto tono ' della salmodia, com'è ben noto, possiede un numero di note di volta in volta variabile in diretta relazione alla lunghezza del versetto cui è applicato. Procedimenti analoghi sono stati illustrati e commentati dal Monterosso in una sua edizione dello Sponsus (v. bibl.). La presenza del tenor viene quindi, in un certo senso, a legittimare e a coonestare l'ipermetria; invece, adottando il testo critico ove naturalmente l'ipermetria è stata soppressa, anche il tenor è risultato per necessità scorciato.
(Rassa, tanto cresce, prospera e si innalza colei che è priva di ogni inganno: il suo pregio reca danno alle altre, poiché non esiste nemmeno una che possa diminuirlo in nulla. La contemplazione della sua bellezza guadagna i nobili a suo favore, benché vi sia a chi brucia. Quelli che più se ne intendono e i migliori sempre mantengono le sue lodi e la considerano la più gentile, poiché ella sa conservare il suo onore tanto integro che tollera un solo adoratore).
Dal punto di vista formale, siamo davanti a uno dei casi che D. ipotizza nel cap. X del II libro del De vulgari Eloquentia. L'intera cobla comprende undici frasi-verso, divisibili in due sezioni: la prima, formata da sei versi monorimi su -ia; e la seconda, da cinque monorimi su -or. A questa bipartizione aderisce pienamente lo schema musicale. Mentre i cinque versi della seconda parte sono dotati di frase musicale una e continuata, i sei versi iniziali presentano alcune ripetizioni: la seconda frase-verso deriva palesemente dalla prima, con qualche modificazione che vedremo più avanti. Le frasi-verso tre e quattro sono ripetute, con poche e non significative varianti, nelle frasi-verso cinque e sei. Ne risulta lo schema AA'BCBC. A questo punto interviene la diesis, il netto stacco melodico, tonale ed espressivo tra prima e seconda parte, la quale è invece indivisa, se si eccettua una parziale ripetizione della nona frase-verso, esposta due volte ma limitatamente al la corda di recitazione (sono diversi l'inizio e la cadenza finale: ne risulta quindi lo schema DEE'FG, da considerarsi esempio unico, del tutto isolato ed estraneo alla tipologia più spesso ricorrente). Si tratta quindi di una stanza fornita di piedi, diesis, più una sirma o coda anomala: e i piedi sono tre, secondo un'eventualità che D. prospetta come rarissima: Si ante diesim repetitio fiat, stantiam dicimus habere pedes; et duos habere decet, licet quandoque tres fiant, rarissime tamen... Si post [diesim] non fiat [repetitio], dicimus habere sirma, sive caudam (VE II X 4). Questa analisi differisce sostanzialmente da quella proposta da R.H. Perrin (v. bibl.). Il Perrin, che ha preso in esame solo la versione del Monaco trascurando quella di Bertram, considera questa melodia come appartenente a un tipo non codificato da D., e costituito da fronte e sirma senza ripetizione alcuna di frasi melodiche; dotato quindi di struttura una e continuata, ma in cui si possono paradossalmente distinguere due sezioni, divise dalla natura delle rime: femminili (ossia parossitone) per le prime quattro frasi-verso, e maschili (ossia tronche) per le ultime quattro frasi-verso (ricordiamo che il Perrin si riferisce al testo poetico del Monaco). Tale separazione - osserva ancora il Perrin - è sottolineata dall'intervallo di quarta esistente tra le frasi-verso quattro e cinque. Esatta invece l'osservazione del Perrin che ogni frase-verso nell'interno delle due parti inizia con la stessa nota (o con nota diatonicamente prossima) con cui terminava la frase-verso precedente: il che è dovuto, secondo l'autore, all'intenzione del musico di sottolineare con particolare spicco ogni nuovo motivo di " noia " allegato dal poeta. Ipotesi interessante, ma fortemente inficiata dalla probabilità che la versione di Bertram sia cronologicamente anteriore a quella del Monaco.
Ma la stretta unione fra testo e musica traspare con ancor maggiore evidenza da altri elementi. A differenza della stragrande maggioranza delle melodie provenzali, basate tutte, quali più quali meno, su una linea musicale flessuosa e variata, il sirventese di Bertram poggia su un rivestimento musicale in cui abbondano le ripetizioni di una stessa nota - ora il do, più spesso il la - impiegata come se fosse il tenor di una formula salmodica. Anzi: la significativa variante che si osserva fra la prima e la seconda frase-verso, e che abbiamo più sopra indicato con AA', è dovuta al fatto che la prima frase-verso inizia direttamente con la parte centrale della formula salmodica, mentre la seconda frase-verso è più regolarmente dotata di intonazione, cui segue, ridotto ai minimi termini, il tenor che si conclude con la stessa cadenza della frase-verso precedente. Inoltre, quasi per sottolineare il carattere monorimo della stanza, le cadenze finali terminano in gran prevalenza sulla stessa nota. Infine, l'enueg del Monaco, che, come si è detto, adopera la stessa melodia, ha in comune le medesime caratteristiche: cobla divisa in due parti, ciascuna delle quali monorima; identica strutturazione in piedi e sirma, con la differenza che i piedi sono solamente due, e non tre, come, in via eccezionale, si osserva nel nostro esempio.
Che una melodia trobadorica faccia ricorso a una tecnica compositiva propria di altro ambiente culturale (il canto cristiano liturgico), è procedimento del tutto eccezionale; ma, appunto per questo, esso meritava di essere sottolineato. Del resto, sono eccezionali anche la struttura metrica e l'uso delle rime: che la morfologia poetica (di questo e dell'altro componimento del Monaco) abbia influenzato, anzi determinato la corrispondente morfologia musicale, com'è nostra precisa convinzione, è elemento di particolare interesse per dimostrare fino a che punto l'opera del poeta e quella del musico (eventualmente riuniti nella stessa persona) procedevano strettamente unite.
Nel Purgatorio, notevole spicco ha l'episodio di Arnaut Daniel, che conclude, con l'eleganza della parlata provenzale, il canto XXVI. Di Arnaut sono a noi pervenute solo due canzoni con musica: Chanso do ill mot son plan e prim (Pillet, pp. 29, 6) e Lo ferm voler qu'el cor m'intra (Pillet, pp. 29, 14), entrambe conservate in unicum nel manoscritto G (R 71 Sup.) della Biblioteca Ambrosiana. Secondo una notizia della Vida, per altro da accogliere con riserva, Arnaut, oltre che trovatore, " fetz se joglars ", si fece " jongleur ": in tale veste avrebbe quindi potuto essere il cantore delle melodie da lui stesso composte. Il Roncaglia e il Sapegno hanno posto nel dovuto rilievo il significato morale, oltre che tecnico, delle due polemiche, contro Giraut de Borneilh e contro Bonagiunta, vigorosamente impostate nello scorcio del c. XXVI: d'altra parte, l'elogio di Arnaut segue e riconferma i giudizi analiticamente positivi che D. aveva già espresso nel De vulgari Eloquentia. Di tutti i meriti che D. gli attribuisce, interessa qui sottolineare l'impiego della stanza indivisa e senza rima, di cui si parla in VE II X 2. L'esempio cui qui si fa riferimento è costruito mediante l'artificio della ‛ retrogradatio cruciata ', consistente nel ripetere le sei parole-rima di ciascuna stanza della sestina nelle strofe seguenti, ma con ordine incrociato, e non inverso. Una delle sestine con ‛ retrogradatio cruciata ' è per l'appunto giunta a noi con musica (Pillet, pp. 29, 14). Eccone il testo:
(Il fermo volere che m'entra nel cuore non può spezzarlo né dente né unghia di linguacciuto che si danna l'anima con la maldicenza. E poiché non oso batterlo con ramo o con verga, almeno di nascosto, là ove non ci sia zio, godrò gioia d'amore in giardino o entro stanza).
Che si tratti di una melodia originale, cioè concepita e scritta in funzione esclusiva di una sestina a rime incrociate, a noi pare indubbio, non solo perché tale melodia non ha subito né contraffazioni né travestimenti di sorta (ossia, non si ritrova, nemmeno con varianti, applicata ad alcun altro testo poetico trobadorico o troverico); ma soprattutto perché, con procedimento piuttosto eccezionale, la melodia è quasi tutta di tipo rigidamente sillabico, con assenza presso che assoluta di melismi, eccettuate le cadenze finali, anch'esse però molto sobrie e assai simili una all'altra. Se ne ricava la netta impressione che le frasi-verso siano formule intercambiabili, quindi non particolarmente legate, né prosodicamente né espressivamente, alla sola prima stanza, e perciò tali da poter indifferentemente ricevere su di sé, nelle stanze successive, la rotazione completa di tutti i versi. Ben diverso sarebbe stato se Arnaut avesse adoperato le consuete frasi melismatiche, le quali sono assai più vincolanti e non ammettono tanto facilmente lo scambio con altri versi della stessa stanza. L'impiego dunque di frasi melodiche polivalenti è prova di notevole abilità compositiva, e costituisce un'altra dimostrazione di quel raffinato senso dell'artificio di cui Arnaut fece mostra come poeta. Invece, l'impiego di una melodia continuata non significa affatto un ripudio, da parte di Arnaut, delle convenzionali ripetizioni e variazioni di una frase melodica, in nome di una più complessa unità musicale che secondi il pensiero. Siamo semplicemente davanti a una differente tecnica compositiva, indubbiamente legata alla particolare struttura metrica della sestina cui la stanza era applicata; ma è vero altresì che tutte le melodie originali, escluse quelle che rappresentano modificazioni o trasformazioni di modelli preesistenti, nascono in stretta unione e compenetrazione con la struttura poetica condizionante.
Non è possibile parlare di Arnaut Daniel senza che il lettore rievochi, per immediata associazione di idee, Giraut de Borneilh, quel di Lemosì. Nel De vulgari Eloquentia il suo nome è più volte ricordato, insieme a vari incipit di sue poesie: se ne loda l'eccellenza, ma senza che sia fatta alcuna graduatoria di merito con altri poeti, come avviene invece nel passionale episodio del Purgatorio. Purtroppo, scarsa è la consistenza del repertorio musicale di Giraut a noi giunto: su circa 80 componimenti poetici, solo quattro hanno le note, ma nessuno di questi è ricordato da Dante. Sulle qualità musicali di Giraut non abbiamo informazioni, tranne la notizia, interpretata dai moderni in maniera controversa, che si legge nella Vida: " menava ab se dos cantadors que cantavon las soas chansos ". Ma, anche ammesso che Giraut non cantasse le proprie canzoni, è certo che le quattro melodie apposte ai suoi versi appaiono dotate di una ben precisa individualità. Tanta è l'espressività, l'afflato lirico, il vago senso di mestizia da cui sono pervase, che meriterebbero tutte e quattro di essere qui pubblicate e commentate. Limitiamoci invece a una sola, la più celebre, l'alba (Pillet, pp. 242, 64), qui trascritta secondo la lezione melodica di R e seguendo il testo stabilito dal Kolsen:
(Re glorioso, verace lume e chiarezza, Dio potente, Signore, se a voi piace, siate fido aiuto al mio compagno, ché io non lo vidi, dopo che la notte è venuta; e ben presto sarà l'alba!).
Che si trattasse di un componimento assai conosciuto, è dimostrato dal travestimento che ne fece il compilatore delle melodie adattate al Dramma di S. Agnese, la ben nota sacra rappresentazione del x1v secolo. Il primo episodio musicato, il compianto della madre e della sorella di Agnese (vv. 363-382), fa esplicito riferimento alla melodia di Giraut: " mater facit planctum in sonu albae Rei glorios, verai lums e clardat ". Il manoscritto che riporta il S. Agnese - il Chigiano cv 151 della Biblioteca Vaticana - trascrive per esteso anche la musica. La collazione col manoscritto R (f. 8v), ove si trova la versione di Giraut, mette in evidenza le varianti consuete: contro le sostanziali affinità della linea melodica per quanto riguarda le note reali (tranne qualche spostamento d'ambitus di secondaria importanza), stanno le differenti strutture dei melismi ornamentali, secondo i procedimenti più consueti della monodia medievale. Assai dissimile è invece la morfologia generale. Entrambi i testi, quello di Giraut e quello del S. Agnese, sono formati da coblas di endecasillabi, rimati AABB, più un settenario C. Per contro, mentre lo schema melodico di R è aa + diesis + bcd (piedi e sirma, secondo la tipologia dantesca, ancorché in proporzioni ridotte), lo schema del Chigiano è ab + diesis + cc'd. Inutile congetturare sui motivi che possono aver indotto il tardo compilatore del contrafactum a spostare dopo la diesis la struttura ripetitiva: quello che è certo, è che il travestimento, pur scompigliando l'architettura generale del modello d'origine, rispetta il principio dell'iterazione, e crea lo schema dantesco della fronte e delle volte, con la netta separazione mediana della diesis. Ben altro significato avrebbe avuto il cambiamento se la diesis fosse stata collocata in modo asimmetrico, trasformando una struttura ripetitiva in oda continua: ciò avrebbe voluto dire il ripudio o la perdita di una tradizione che dell'iterazione simmetrica faceva uno dei più saldi freni dell'arte. Invece, il fatto che tale iterazione perduri a distanza di tempo, di spazio e di milieu culturale dalla dottrina del De vulgari Eloquentia, dimostra con sufficiente eloquenza, e per la via meno consueta dell'indagine attraverso il repertorio musicale, i solidi fondamenti, la compattezza e l'ampiezza d'estensione del magistero dantesco.
Vorremmo infine aggiungere qualche breve riflessione sulle caratteristiche musicali della melodia testé trascritta. Essa si impone, al di là di ogni considerazione formalistica, per l'intensità del sentimento che vi traspare. Tonalmente compatta, si muove nell'ambito del primo modo autentico imperfetto, ed è permeata, da questo punto di vista, di vaghe reminiscenze liturgiche. Ma se la suggestione del canto sacro può aver lontanamente influenzato, come stato d'animo d'origine, il compositore (forse non a caso il primo intervallo, in testa al componimento, è una quinta ascendente, dalla nota finale alla mediante), subito dopo trova modo di espandersi l'affiato musicale cortese: a parte l'insistente uso degli aggraziati melismi d'ornamentazione, veramente notevole e di grande effetto è il profondo stacco che si verifica dopo la diesis. A una prima parte di tono sommesso e raccolto, iniziante nelle regioni gravi, fa seguito una seconda parte che percorre il cammino inverso, poiché attacca, con piglio sicuro, in alto, per riportarsi verso il basso, ove, in un sommesso mormorio, si canta l'ultima frase di accorato avvertimento: " Et ades sera l'alba ! ". Non sono frequentissimi, nel reportorio musicale trobadorico, esempi altrettanto eloquenti di simile intima, e non solo strutturale, aderenza fra testo e musica.
Un'altra grande figura di trovatore ricordata nella Commedia è Folchetto da Marsiglia, protagonista, insieme con Cunizza, del canto IX del Paradiso. La produzione musicale superstite di Folchetto è cospicua: essa comprende tredici canzoni su ventisette che costituiscono l'intero corpus folchettiano. Scarse le notizie sulla sua attività di musico: solo la razo (Pillet, pp. 155, 23), ci dice, a proposito della donna amata, che Folchetto " cantava d'ela e fazia sas chansos " (qui " cantava " deve avere significato tecnico e non generico, ove si voglia evitare la tautologia con quanto segue). Nel De vulgari Eloquentia (II VI 6) D. ricorda, tra gli esempi dei più eminenti gradi di costruzione dello stile tragico, una canzone di Folchetto, Tan m'abellis l'amoros pensamens (Pillet, pp. 155, 22):
(L'amoroso pensamento - che si è insediato nel mio cuore leale, per cui nessun altro può esservi contenuto, e nessuno mai mi è dolce e gradevole - tanto mi piace, che ora vivo sano e salvo anche quando il tormento mi uccide; e un nobile amore allevia il mio martirio, che mi promette gioia, ma troppo la dona lentamente, ché con un tal sembiante mi ha tenuto a bada lungamente).
Non si tiene conto, nell'analisi che segue, delle lezioni di W (Parigi, B.N., fr. 844, f. 188v) né di R (f. 42v): quest'ultimo presenta varianti così imponenti, da far pensare a un radicale rifacimento, da parte di altro musico, della versione più arcaica. È seguita invece la lezione di G (Milano, Bibl. Ambrosiana, R. 71 Sup. f. 2v), in cui la struttura musicale di questa canzone è particolarmente interessante. La cobla è composta di otto frasi-verso, chiaramente scomponibili in due parti separate dalla diesis: si noterà infatti che tra il quarto e il quinto verso esiste un salto di quarta ascendente, che è uno stacco notevole, specie se si osserva che nessun altro intervallo di tanta ampiezza è adoperato fra qualunque altro verso della stanza. Per di più, le due ultime frasi-verso di ognuna delle due parti sono chiaramente aflîni: del tutto uguale la melodia dei versi quattro e otto, e assai simile quella dei versi tre e sette. Ne risulta il seguente schema melodico:
ABCD EFC'D
(fronte) (sirma)
in cui la seconda metà della semistanza ricorre uguale, quasi fosse un refrain di ballata. Il fatto è tanto più caratteristico, in quanto altre canzoni di Folchetto presentano ripetizioni varie, non riconducibili in apparenza ad alcuno schema prefissato. E questo s'accorda molto bene con i canoni che D. postula per il costrutto sapidus et venustus etiam et excelsus, qui est dictatorum illustrium (VE II VI 5). Nella canzone di cui ora ci occupiamo, infatti, ricorrono, per quanto attiene alla musica, le stesse caratteristiche necessarie perché l'elocuzione testuale possa aspirare allo stile più elevato. Osserviamo infatti: 1) La divisione della cobla in due metà uguali; 2) La varietà della ripetizione, che evita la simmetria meccanica del procedimento analogico e fa, delle due clausole finali (vv. 3-4 e 7-8), qualcosa di simile e di diverso; 3) Il costante impiego della fiorettatura ornamentale sia sulla sillaba finale, sia, con la sola eccezione del v. 7, sulla penultima, indipendentemente dagli accenti tonici, in modo che, alla fine di ogni verso, siano chiaramente percepibili, ciascuna nella propria autonomia, tanto l'accentuazione prosodica quanto la clausola melodica; 4) La compattezza tonale dell'insieme: la finalis è presente a chiusura dei versi 4 e 8, e la nota sotto la finalis, indispensabile per compiere l'ambitus nella regione grave, secondo la precettistica di Marchetto da Padova, si fa sentire alla fine dei versi 3 e 7; mentre invece l'inizio della melodia, nel primo verso, è impostato sulla flexa, che, più della finalis, è determinante nello stabilire con immediatezza l'ambiente tonale; 5) La collocazione preferenziale degli abbellimenti nella seconda metà della frase-verso, mentre la prima metà si basa piuttosto sullo stile sillabico: in tal modo ogni verso inizia col piglio sicuro dell'energica declamazione e si stempera poi, verso la fine, nelle morbidezze dei melismi. Questi ultimi sono tuttavia adoperati là dove, anche agl'inizi del verso, il significato espressivo delle parole lo richiede (v. 6 fin'amor; v. 7 promet ioi; v. 8 senblan). Non è questa la sede per analizzare allo stesso modo anche le altre canzoni con musica di Folchetto, pur se uno studio particolareggiato in questa direzione condurrebbe a risultati non privi d'interesse. Certo, a volte Folchetto tende a compiacersi eccessivamente di una sua virtuosistica abilità, a scapito dell'immediatezza espressiva che a noi, lettori moderni, fa così piacere cogliere anche a una prima occhiata: ma è appena il caso di ricordare che l'artista medievale, e in special modo il trovatore, ha, dell'arte, un ideale basato in primo luogo sulla concomitanza di elementi strutturali e dottrinali: il compiacimento edonistico del formalismo fine a sé stesso può talvolta mettere in ombra, o escludere del tutto, l'espressione, da parte del poeta, dei sentimenti dell'animo.
In opposizione alla ricchezza di esemplificazione che D. allega per la poesia trobadorica, sta l'apparente sua scarsa familiarità con la letteratura francese. Osservava già il Marigo che D. cita in due luoghi la stessa canzone del re di Navarra, De fin'amor si vieni sen et bonté, per illustrare due concetti differenti, rivelando quindi " una non larga conoscenza della lirica d'arte francese ". Questa impressione è avvalorata anche dall'errata attribuzione al medesimo Thibaut IV, re di Navarra, della canzone Ire d'amor qui en mon cor repaire (Raynouard, p. 171), che è invece di Gace Brulé, il celebre trovero fiorito verso la fine del secolo XII. D. cita tale canzone come un ulteriore esempio di perfetto costrutto, a pari merito con quella, analizzata più sopra, di Folchetto. Vediamo dunque se anche nella lirica musicale dei troveri si possono cogliere motivi analoghi a quelli sin qui visti nel repertorio trobadorico.
L'esempio che stiamo per presentare è tramandato da un gran numero di codici, le cui lezioni tuttavia, almeno per quanto riguarda la melodia, sono sostanzialmente concordi, a parte le consuete ornamentazioni. Diamo qui di seguito la lezione del ms. P (Parigi, Bibl. Nat., fr. 847; f. 5v-6r pubblicato in facsimile da I. Frank, Trouvères et Minnesänger, Saarbrücken 1952, p. 60).
La struttura morfologica è della più grande chiarezza. A una prima parte ABAB (due piedi) fa seguito una seconda indivisa (fronte). La diesis, presente come elemento formale di separazione, è peraltro scarsamente avvertibile nel fluire della linea melodica, in cui non sono percepibili sostanziali differenze espressive fra le due parti. Nemmeno si può sostenere che, in questo caso specifico, vi siano, nel contesto musicale, elementi ‛ francesi ' distinti da quelli provenzali. La separazione fra i due ambienti culturali, così netta per quanto riguarda lingua e letteratura, è sfumata o addirittura inesistente nella monodia lirica amorosa, in cui frequentissimi e importanti sono gli scambi reciproci di formule e di interi frasari. (È noto infatti che le caratteristiche più originali della musica francese in questo periodo devono essere ricercate piuttosto nello stile polifonico del mottetto, nel conductus, oltre che, naturalmente, negli organa e nelle clausole, in qualche modo connesse con la liturgia). Posto dunque che la melodia di Gace Brulé potrebbe essere attribuita senza sforzo a un trovatore, è da notare invece la condotta particolarmente raccolta della voce, che procede prevalentemente per intervalli congiunti, limitando al massimo o sopprimendo del tutto i salti bruschi nell'interno della frase. Ne risultano un procedere assolutamente lineare e un susseguirsi delle frasi-verso in un'atmosfera di piena naturalezza, sì che il fluire della melodia appare altrettanto necessario e avvincente quanto quello dei significati espressi dal testo poetico. Ma ci pare soprattutto degna di molto rilievo la natura della diesis, che separa senza dividere: si tratta cioè di una partizione puramente visiva, meccanica persino, che non crea, fra le due parti, alcuna differenza né di tono né d'ambiente. Sotto vesti pienamente tradizionali, questa canzone troverica è orientata verso una concezione morfologica la quale, pur rispettando le suddivisioni interne, vuol fare, dell'opera d'arte, un insieme espressivo quanto più possibile omogeneo.
Certo, il quadro che abbiamo prospettato è ben lontano dall'essere completo. Degli autori che D. ricorda, è stato citato solo qualche esempio, e non tutta l'opera musicale; vi sono poi altri poeti-musici, quali Aimeric de Peguilhan (VE II VI 6), di cui sono giunte a noi ben sei melodie, che pur meriterebbero di essere illustrate. Tuttavia, quello che abbiamo sin qui visto ci permette di trarre alcune conclusioni circa lo stato della canzone in musica al tempo di Dante. Nessun dubbio che, per avere una documentazione in questo senso, occorre attingere esclusivamente agli esempi tratti dalla poesia provenzale e francese. Non conosciamo, a tutt'oggi, canzoni volgari italiche provviste di melodia autonoma: la fioritura laudistica rappresenta tutt'altro ambiente culturale e non ha alcun legame diretto col volgare illustre della canzone cortese. La causa immediata di tale mancanza di documentazione risiede innanzitutto nella perdita materiale dei codici su cui le melodie erano scritte: ma la causa vera è un'altra. Non solo per quanto riguarda il genere aulico della canzone o della ballata la tradizione manoscritta italiana è carente; ma anche in tutte le altre branche della musica medievale la situazione si presenta con caratteri analoghi. Se consideriamo il canto liturgico della Chiesa cristiana occidentale, e in particolare il canto gregoriano, i centri scrittorii italici sono in netta minoranza rispetto a quelli franco-germanici; e di scarsa consistenza anche qualitativa, se si eccettuano le famiglie neumatiche beneventana e nonantolana. Una scuola polifonica sul tipo di quelle, famosissime, di San Marziale o di Notre-Dame, in Italia o non è esistita o non ha lasciato traccia alcuna; per limitarci a quelle che probabilmente costituì il sostrato più fertile per il nuovo genere profano della canzone e delle forme affini, ossia il repertorio tropistico e sequenziale, le testimonianze italiche sono del pari evanescenti. Dal diligente repertorio testé pubblicato da H. Husmann, apprendiamo che i codici contenenti tropi e sequenze, conservati in biblioteche pubbliche e private d'Italia, di origine sicuramente italiana e scritti sino a tutto il XIII secolo, sono solamente una decina, contro i numerosissimi conservati a San Gallo, a Einsiedeln, e soprattutto a Parigi, provenienti da Metz, da Laon, da San Marziale e dai vari monasteri parigini. La vita musicale italiana, almeno sino alla fioritura dell'Ars Nova trecentesca, fu assai probabilmente affatto secondaria, nel senso che rimase limitata a modeste attività locali, basate su repertori di importazione (anche i quattro codici ‛ aberranti ' di canto gregoriano, di origine sicuramente romana e scritti nel secolo XII, condannati dal Mocquereau come totalmente privi di ogni valore e su cui ha recentemente espresso un più meditato giudizio lo Hucke [v. bibl.], che vi ha riconosciuto non trascurabili rapporti con il grosso della tradizione franco-germanica, devono con ogni probabilità essere visti nella stessa prospettiva, ossia come un rimaneggiamento della tradizione generale operato nell'ambito di una scuola locale, se pur assai attiva). Le canzoni in volgare italico erano certamente cantate, almeno la gran parte di esse; ma la musica doveva essere presa a prestito da altre fonti, di varia e disparata provenienza, e adattata alla struttura metrica da musicisti certo abili, ma più come ‛ trascrittori ' o ‛ rielaboratori ' di musiche altrui, che non come creatori originali. Perché, in questo caso, sarebbe certo rimasto, se non l'opera musicale, almeno qualche ricordo preciso e circostanziato in altre testimonianze indirette. Lo stesso episodio di Casella, tanto suggestivo sul piano poetico, è estremamente vago se preso come documento storico: D. ricorda di Casella solo l'amoroso canto, ma né da lui, né da alcuno degli antichi commentatori (che dimostrano, al proposito, di non sapere nulla di preciso) risulta con sicurezza che Casella fosse anche creatore di melodie proprie. Dalla Cronica di Fra Salimbene, così ricca di riferimenti precisi al costume duecentesco in tutti i suoi aspetti, non emerge alcuna grande figura di musicista: le poche citazioni rimandano a personaggi sbiaditi, senza rilievo, e di cui si è perso ogni altro ricordo: come " frater Henricus Pisanus " o " frater Vita ex Ordine fratrum Minorum de civitate Lucensi " (Cronica, a c. di G. Scalia, Bari 1966, i, 262 ss.).
D'altronde, come si accennava all'inizio, non crediamo che la ricerca di una tradizione musicale autonoma in Italia possa essere considerata legittima. D. stesso, dopo aver salutato in Guido Guinizzelli il padre / mio e de li altri miei miglior che mai rime d'amor usar dolci e leggiadre (Pg XXVI 97-99) attribuisce ad Arnaut Daniel meriti ancora superiori; e Arnaut Daniel è celebrato proprio come miglior fabbro del parlar materno. In più punti del De Vulgari Eloquentia, D. ricorre a esempi desunti indifferentemente da poeti italici o provenzali o francesi, per meglio chiarire il suo pensiero. Al di là delle profonde differenze strutturali che separano le tre letterature, esse erano considerate, da coloro stessi che le praticavano, come un tutto unico, come espressione di una medesima cultura i cui presupposti - etici, storici, tecnici persino - erano gli stessi. La tendenza, così frequente alla nostra epoca, a separare ciò che alla coscienza del tempo appariva unitario, è spiegabile, oltre che per effetto di una concezione romantica della storia, procedente per nazioni, anche per la tentazione di spingere assai più indietro nel tempo fenomeni e atteggiamenti che maturarono invece in epoche più vicine. In particolare, per quanto riguarda il rivestimento musicale delle canzoni, è più che mai necessario prendere atto della super nazionalità del fenomeno: le melodie composte in Francia erano con ogni probabilità adottate di peso anche in Italia, o viceversa, in quanto i jongleurs, i volgarizzatori di tali musiche, le facevano liberamente circolare sino a trasformarle in una sorta di repertorio comune. È ben acquisita la dipendenza formale della lirica d'arte italiana dai modelli francesi e soprattutto provenzali: nel senso che la struttura metrica, del verso e della stanza, la tematica amorosa generale, il lessico persino, erano stati sperimentati e condotti a un alto livello di perfezione dai rimatori franco-provenzali, prima che dai siciliani o dai toscani. È verissimo che la poesia moraleggiante toscana, lo stilnovo e sopra tutti D. conferiscono alla c. una ricchezza e una profondità di argomento sconosciuta alle analoghe esperienze trobadoriche; ma è ugualmente certo che il mestiere, il tirocinio, furono condotti dai nostri rimatori sulla scorta di quanto era già stato sperimentato da altri. Questo fatto, che è di cognizione comune, può servire come presupposto per aprire uno spiraglio verso l'assai più intricata indagine del repertorio musicale medievale. Proprio nel secolo XIII ebbe larga diffusione la pratica del contrafactum, consistente nel sostituire un testo letterario di una composizione musicale con un testo differente: più spesso a parole di carattere sacro erano sostituite altre di carattere profano, ma talora il mutamento avveniva utilizzando, per una stessa melodia, due o più testi anche dello stesso carattere. Una ricerca in questo senso è assai meno agevole di quanto non sembri; non solo per la mancanza di repertori raggruppanti gli incipit musicali, ma anche perché, assai spesso, il contrafactum si cela subdolamente: o apportando sensibili modificazioni alla linea melodica originale, al punto da renderla quasi irriconoscibile, oppure insinuandosi nell'interno di un componimento polifonico, una cui parte può essere costituita dalla contraffazione di una preesistente monodia. Un notevole contributo a queste ricerche è stato dato dal Gennrich, il quale ha potuto raccogliere un elenco, sufficientemente indicativo, di interessanti testimonianze. Se gli esempi di contrafacta sono assai numerosi fra melodie francesi, provenzali e latine, essi sono molto scarsi per quanto riguarda il patrimonio italiano; e tuttavia il Gennrich, che si è valso di precedenti parziali contributi, ha potuto elencare otto casi di melodie laudistiche derivate da preesistenti modelli francesi: uno di questi si ritrova addirittura nel cod. Magliabechiano II, I, 122, f. 44v. Anche per quanto riguarda le melodie cortesi, vi sono esempi di prestiti e di adattamenti: tipico il caso di un partimens di Sordello, esemplato su una preesistente melodia di provenienza francese (Bertrans, lo joy de dompnas e d'arnia, in R. Monterosso, Problemi musicali danteschi). La documentazione di cui possiamo attualmente disporre è scarsa dunque, ma non assente; e può darsi benissimo che ulterióri ricerche in questa direzione permettano un ancor più convincente chiarimento di un fenomeno che pur tuttavia comincia a delinearsi con chiarezza: come per la tecnica poetica, così anche per la pratica musicale i nostri trovatori e i nostri stilnovisti ebbero scarse preoccupazioni di originalità, e preferirono invece adagiarsi su quanto era stato con tanta fortuna già sperimentato altrove.
Ma, a parte queste non facilmente solubili questioni di precedenza e di primogenitura, la conclusione, per ciò che concerne il valore espressivo dell'esperienza musicale applicata ai versi della c., è, nell'insieme, pienamente positiva. Tante volte, in sede estetica prima che storica, si è discorso dell'unione delle due arti sorelle, musica e poesia, le quali invece, alla prova dei fatti, hanno dimostrato spesso di preferire una reciproca indipendenza, gelosa ciascuna delle proprie prerogative tecniche, e sicura della propria autonoma capacità espressiva. Troppe volte l'unione di musica e di poesia si è risolta a vantaggio esclusivo dell'una o dell'altra: e non è il caso di ricordare le polemiche, di tarda età umanistica, sull'armonia, ‛ signora ' o ‛ ancella ' dell'orazione. Ma, in parecchie circostanze della storia musicale del Medioevo, l'ideale connubio delle due forme d'arte ha trovato concreta attuazione: poeta e musicista erano attenti ciascuno all'opera dell'altro, e vicendevolmente collaboravano, a volte persino a distanza di tempo, per una più intima fusione delle due tecniche. Il caso della c. cortese ci pare uno dei più probanti. Gli esempi sopra riportati hanno documentato con sufficiente chiarezza la interdipendenza prosodica e metrica di testo e di musica; e, anche per quanto attiene a un'intima convergenza di espressività, è evidente l'intenzione della musica di essere coerente con quanto il testo per suo conto vuol significare. Certo, data la notevole quantità di melodie trobadoriche e, ancor più, troveriche, molto è concesso al frasario convenzionale del tempo: esisteva anche allora, come del resto in qualunque altra epoca della storia musicale, un formulario prefabbricato di spunti tematici, o di formule cadenzali, o di stereotipate ornamentazioni, su cui il musicista amava spesso ripiegare. Ma è anche certo che, almeno per le figure di maggior rilievo, quali Marcabruno, Bernardo di Ventadorn, Jaufre Rudel, Peire Vidal, Peirol, Raimbaut de Vaqueiras, per citare a caso, questo pericolo o non sussiste o è ridotto ai minimi termini. Viene anzi fatto di pensare che, in più occasioni, veramente uno stesso individuo fosse insieme poeta e musicista: il quale, anche se tutto preso, in apparenza, dai per lui più urgenti problemi di stilistica e di tecnica, cercava in realtà, magari solo inconsciamente, di dar forma compiuta al suo sentimento di poeta attraverso la raddoppiata possibilità che gli era offerta dall'intonazione melodica. La quale, non vincolata all'ossequio di un lungo e precostituito formalismo, come si verificava invece nella musica liturgica cristiana, poteva tradurre, con un'immediatezza che la tecnica del verso spesso non consentiva, tutta intiera l'ispirazione dell'artista. Quando ciò avviene - e gli esempi non sono certo rari, oltre ai pochi che abbiamo sin qui pubblicato - allora veramente la figura del poeta e il valore, espressivo e non solo storico, della canzone lirica escono illuminati dalla musica non meno che dai versi; o, se si preferisce, da quella più che da questi.
Bibl. - Per la consultazione dell'intero repertorio musicale trobadorico, v. F. Gennrich, Der musikalische Nachlass der Troubadours (la trascrizione adatta, a tutte le melodie trobadoriche, una struttura mensurale dedotta dal terzo modo ritmico: si tratta quindi, per ciò che concerne la durata dei valori, di pura ipotesi di lavoro, non suffragata da alcuna prova convincente). Per le melodie del solo canzoniere provenzale G, trascritte in forma semi-diplomatica con l'adattamento degli schemi propri del sesto modo ritmico, cfr. U. Sesini, Le melodie trobadoriche nel Canzoniere provenzale della Biblioteca Ambrosiana R. 71 Sup., in " Studi Medievali " n.s., XII-XIII-XIV-XV (1939-1942) e, in estratto, Torino 1942. Edizioni di trovatori singoli: Bertram de Born, sein Leben und seine Verke, a c. di A. Stimming, Halle 1879; A. Kolsen, Dichtungen der Trobadors, ibid. 1916-1919; Le jeu de Sainte Agnès..., a c. di A. Jeanroy (trascrizione delle melodie a c. di Th. Gérold, Parigi 1931). Per un aspetto particolare del repertorio trobadorico e troverico, il contrafactum, cfr. F. Gennrich, Die Kontrafacktur im Liedschaffen des Mittelalters, Langen bei Frankfurt 1965; W. Wiora, Elementare Melodietypen als Abschnitte mittelalterlicher Liedweisen, in Miscelánea en homenaje a Monseñor Higinio Anglés, Barcellona 1958-1961, II 993. Per un'edizione integrale della melodia laudistica italiana, v. F. Lluzzi, La lauda e i primordi della melodia italiana, Roma 1935.
Il repertorio musicale dei tropi e delle sequenze è diligentemente descritto in H. Husmann, Tropen und Sequenzenhandschriften (Rism, B v'), Monaco - Duisburg 1964. Qualche ulteriore riferimento al patrimonio musicale nel Medioevo si trova in R. Strohm, Neue Quellen zur liturgischen Mehrstimmigkeit des Mittelalters in Italien, in " Rivista Italiana di Musicologia " I (1966) 77-87. Tra i drammi liturgici citati nel testo, cfr. soprattutto: Sponsus. Dramma delle Vergini prudenti e delle Vergini stolte, testo letterario a c. di D'arco Silvio Avalle, testo musicale a c. di R. Monterosso, Milano-Napoli 1965. Per Marchetto, v. Lucidarium in arte musicae planae, XI 2, in M. Gerbert, Scriptores ecclesiastici de musica sacra potissimum, III 101-102; cfr. anche R. Monterosso, Un compendio inedito del " Lucidarium " di Marchetto da Padova, in " Studi Medievali " s. 3, VII (1966) 914-926. Per gli studi critici, cfr. soprattutto il commento di A. Marigo al De vulg. Eloq., Firenze 1957 (recensione di U. Sesini, In margine alla dottrina dantesca della canzone, in " Studi Medievali " n.s., XI [1938] 180-185); i commenti di N. Sapegno alla Commedia, di M. Barbi e F. Maggini alle Rime della " Vita Nuova " e della giovinezza, Firenze 1956, e di A. Roncaglia al canto XXVI del Purgatorio, Roma 1951. Sulla c., cfr. W. Th. Marrocco, The Enigma of the C., in " Speculum " XXXI (1956) 704-713: nonostante la fantasiosa identificazione di Casella in un Pietro Casella (?) da Pistoia (?), lo studio prospetta l'ipotesi che le canzoni italiche, comprese quelle di D., fossero cantate, ma sotto forma di un rudimentale recitativo improvvisato dall'esecutore e non messo per iscritto. Di particolare interesse lo studio di N. Pirrotta, Ars Nova e Stil Novo, in " Rivista Italiana di Musicologia " I (1966) 3-19, ove si richiama l'attenzione anche sulla musica non scritta, e quindi non giunta a noi; ora " l'Ars Nova appartiene alla tradizione musicale scritta, mentre la musica sulla quale i poeti del dolce stil novo furono cantati è da gran tempo scomparsa, inghiottita dall'oblio che alla lunga accoglie tutto ciò che non è scritto " (p. 8). Ulteriori riferimenti bibliografici sono contenuti nei due articoli del Marrocco e del Pirrotta. Per una trattazione dell'aspetto ritmico-musicale della canzone trobadorica, cfr. R. Monterosso, Musica e ritmica dei Trovatori, Milano 1956; ID., Troubadours e Trouvères, in La Musica, IV, Torino 1966; F. Mompellio, Canzone, ibid.; M. Pazzaglia, Il verso e l'arte della canzone nel De vulg. Eloq., Firenze 1967. Sul repertorio gregoriano ‛ aberrante ', v. Paléographie Musicale, s. 1, II, Solesmes 1891, 4 nota 1; H. Hucke, Gregorianischer Gesang in altrömischer und frankischer Ueberlieferung, in Archiv für Musikwissenschaft..., (1955) 74 ss. Aspetti particolari della monodia medievale, con particolare riferimento a D., si trovano in R. Monterosso, Musica e poesia nel De vulg. Eloq., in " Atti della Giornata internazionale di studio per il VII centenario ", Faenza 1965; ID., Problemi musicali danteschi, in " Cultura e scuola " 13-14 (gennaio-giugno 1965); ID., L'ornamentazione della monodia medievale, in " Rivista di cultura classica e medioevale " (Studi in onore di A. Schiaffini) VII, 1965.