CORRADINI, Camillo
Nacque ad Avezzano il 23 apr. 1867 da Gaetano, artigiano, e da Anna Maria Donsanti.
Trasferitosi a Roma, dove si era iscritto alla facoltà di giurisprudenza, dopo aver lavorato tra il 1888 e il 1889 come redattore del quotidiano La Tribuna, nel 1890 entrò per concorso al ministero della Guerra come segretario. In quei primi anni di servizio ministeriale il C. scrisse alcuni articoli, tra il 1892 ed il 1895, sulla Rivista militare, concernenti problemi dell'amministrazione militare, che gli valsero la stima di V. E. Orlando, sicché questi gli affidò la stesura (Milano 1906) delle parti relative a Le strade ordinarie (fasc. 5), La pena nel diritto amministrativo (7), e al Diritto amministrativo militare (10) per il Primo trattato completo di diritto amministrativo italiano che curava in edizione a fascicoli a partire dal 1897. Nel 1903, quando G. Giolitti formò il suo secondo gabinetto, sempre Orlando, chiamato al ministero della Pubblica Istruzione, nominò il C. capo di gabinetto. Come tale questi s'occupò dei problemi della scuola, e in particolare dell'istruzione primaria, acquistando competenza e capacità, tanto che gli sarà affidata la redazione della legge Daneo-Credaro del 1911. L'incarico però gli aprì soprattutto la strada per una intesa con Giolitti, con la suaimpostazione politica e con il suo sistema di governo, che lo avrebbe progressivamente caratterizzato come "la figura più congeniale" al giolittismo (De Rosa).
L'istruzione primaria in Italia, regolata dalla legge Casati del 1859, si era rivelata nel primo quarantennio dello Stato unitario quantomeno inadeguata alle esigenze della alfabetizzazione. Basata su un principio inequivocabilmente accentratore, la legge delegava però ai Comuni ogni onere finanziario, lasciando ai maestri stipendi spesso irrisori e comunque affidati alla discrezionalità delle amministrazioni comunali. Se le amministrazioni più floride potevano in qualche modo far fronte alle maggiori difficoltà di spesa, queste erano invece un insormontabile ostacolo per i Comuni più poveri, in particolare per quelli meridionali, che non erano così in grado di rispondere all'attuazione dell'obbligo scolastico. Con la legge del 4 luglio 1904 sui Provvedimenti per la scuola e per i maestri, l'istruzione elementare venne ridotta a quattro anni, mentre lo Stato si impegnava a coprire parte degli aumenti stabiliti per gli stipendi dei maestri. Collaboratore del ministro Orlando per la stesura della legge, il C. era venuto accumulando una solida competenza sui problemi connessi alla istruzione primaria, e si era legato fra l'altro fin dal 1905 agli ambienti dell'Umanitaria, in particolare a Filippo Turati. Questi, profondamente convinto che la diffusione della cultura e il funzionamento della scuola elementare fossero mezzi necessari all'elevamento della coscienza delle classi popolari, trovò nel C. un alleato prezioso. Comune infatti al leader riformista e al funzionario giolittiano era la persuasione che l'integrazione delle classi contadine e popolari in un'Italia industrializzata e moderna fosse garanzia di una crescita pacifica del paese, e che a tale integrazione avrebbe dato grande contributo una incisiva politica scolastica. Questa fiducia "positivista" in uno sviluppo e in un progresso democratico e senza fratture fu alla base di una collaborazione e di un'amicizia che si protrarranno negli anni successivi, a conferma delle grandi affinità culturali che collegavano il socialismo moderato e il complessivo disegno politico giolittiano, pur se con obiettivi strategici diversi.
L'indirizzo della politica scolastica che il C. sosteneva e che Turati condivideva poté in parte tradursi in atto quando il C. fu nominato reggente della direzione dell'istruzione primaria e popolare nel genn. del 1908, e poi direttore generale nell'agosto. In tale veste egli portò a termine l'inchiesta, avviata già nel 1907 quando era ispettore generale, sull'istruzione primaria e popolare. L'inchiesta, che affrontava i problemi della scuola elementare in relazione alla difficile situazione finanziaria dei comuni, e che procedeva anche ad un confronto con la legislazione scolastica degli altri paesi europei, rappresentò il principale punto di partenza per l'elaborazione della riforma varata nel 1911.
La legge Daneo-Credaro, pur con i molti limiti che furono allora denunciati dai suoi critici, in particolare da G. Salvemini, aveva almeno il merito di risolvere uno dei vizi di origine del sistema dell'istruzione primaria nazionale quale era stato istituito dalla legge Casati: la dipendenza delle scuole elementari dai comuni e il conseguente gravissimo dislivello che si era venuto a stabilire tra le varie zone del paese. Avocando allo Stato gli oneri finanziari relativi, la nuova legge garantiva le condizioni minime per l'effettiva realizzazione dell'obbligo scolastico. La genesi della riforma - la cui paternità va indiscutibilmente attribuita al C. - rivela nella classe dirigente giolittiana una tecnica legislativa che fa pensare per certi versi all'operato della Destra storica. Pur avendo una formazione essenzialmente giuridica, il C. non si limitò infatti ad un lavoro preparatorio basato sullo studio dei precedenti legislativi e delle esperienze di altri paesi, ma cercò di fondare le proprie proposte sull'analisi concreta dei dati reali, condotta attraverso il classico strumento dell'inchiesta. Risalgono a questi anni i seguenti saggi del C. che sono anche documento della sua attività amministrativa: L'istruzione primaria e popolare in Italia. Le sorprese di un'inchiesta ufficiale, Milano 1910; La giurisdizione dei corpi consultivi e giuridizionali nell'applicazione delle leggi sulla istruzione primaria e popolare, Roma 1911; Dei modi più efficaci per provvedere alla istruzione e alla educazione delle masse emigratrici prima dell'imbarco, ibid. 1911; Il carattere e l'azione dei Patronati scolastici istituiti dalla legge Daneo-Credaro e l'opera dell'Unione italiana per l'educazione popolare, in La Cultura popolare, suppl. al n. 8, 1911; Le università popolari nell'ordinamento dell'istruzione popolare, ibid., n. 18, 1911; Patronati scolastici e obbligo scolastico, in Relazione della Commissione reale contro la delinquenza dei minorenni, Roma 1912; La scuola popolare, in La Cultura popolare, n. 2, 1913.
Nel 1915, con la nomina a consigliere di Stato, lasciò il ministero della Pubblica Istruzione. La nomina fu vista, soprattutto negli ambienti socialisti, come una sorta di siluramento compiuto da Salandra verso un esponente significativo del riformismo giolittiano, proprio quando ministro della Pubblica Istruzione era stato nominato il liberale di Destra L. Grippo. Comunque, pur partecipando in seguito ai lavori di varie commissioni parlamentari sui problemi della scuola, e pur non abbandonando fino al 1923 gli incarichi assunti in organismi legati ai problemi dell'istruzione, il C. cominciò nel 1915 una nuova fase della propria vicenda politica; questa sarà contrassegnata in larga misura dalla sua attività al ministero degli Interni in alcuni momenti difficili della vita politica italiana, una prima volta nel 1916-1917, una seconda nel 1920-1921.
Nel giugno 1916, con la formazione del gabinetto Boselli, Orlando assumeva il portafogli degli Interni, e chiamava il C. come capo di gabinetto. Il ministero "nazionale" di Boselli si muoveva secondo un disegno di mediazione tra le diverse forze politiche, disegno all'interno del quale Orlando, come esponente della Sinistra liberale, rappresentava la continuità con la linea giolittiana. Contrario a snaturare i meccanismi del sistema liberale con una repressiva politica di guerra, Orlando aveva scelto il C. non solo per i passati rapporti di collaborazione, ma anche per la dimostrata capacità del neoconsigliere di Stato di saper conciliare le necessità di governo con le istanze liberaldemocratiche.
La relativa tolleranza verso le agitazioni e gli scioperi, adottata da Orlando e dal C. fin dall'inizio, si attirò però le critiche e gli attacchi dei salandrini e dei gruppi interventisti. Così, mentre il Corriere della sera, l'Idea nazionale, il Popolo d'Italia e il Mattino conducevano contro il ministro degli Interni ed il C., la "sua anima dannata", una violenta campagna, i contrasti interni alla compagine governativa si aggravavano progressivamente. Nell'estate 1917 la posizione di Orlando si era fatta ormai difficile, per le accuse di disfattismo e debolezza verso i socialisti che gli venivano rivolte dai ministri interventisti di Destra e di Sinistra. Né migliore era la posizione del suo collaboratore, indicato appunto, soprattutto per i suoi rapporti e la sua amicizia con Turati, come l'artefice di questa politica "neutralista". "A Roma, a palazzo Braschi, auspice il capo di gabinetto di Orlando, Camillo Corradini, i giolittiani ed i socialisti erano i favoriti", scriverà il direttore del Corriere della sera L. Albertini. Di fronte alla crisi provocata dai fatti di Torino dell'agosto 1917, fu proprio il C., simbolo dell'irriducibile "pacifismo giolittiano", a fare le spese dei duri attacchi degli interventisti, dimettendosi.
La sommossa di Torino, iniziata spontaneamente per la mancanza di pane il 22 agosto, e proseguita nei giorni successivi con violenti scontri tra forza pubblica e dimostranti che provocarono tra questi più di cinquanta morti, era stata dal C. in qualche modo prevista. Questi, come ricorda O. Malagodi (pp. 124 s.), almeno fin dal maggio aveva segnalato la difficile situazione dell'ordine pubblico nel capoluogo piemontese, i disagi e le privazioni cui era sottoposta la popolazione e la forte presenza di una classe operaria politicizzata. Quando il 22 agosto scoppiò lo sciopero di protesta, il C. si mise immediatamente in contatto con Turati, insistendo sulla necessità di evitare un allargamento della rivolta e una sua caratterizzazione politica. Anche in questa occasione il C. si trovò d'accordo con Turati: entrambi temevano infatti la reazione della Destra salandrina che avrebbe potuto rompere il fragile equilibrio instaurato fra il governo, le masse popolari e lo stesso partito socialista.
La condotta del ministro degli Interni fu oggetto di durissimi attacchi da parte di alcuni ministri (tra cui Bissolati, Sonnino, Bonomi), che ne richiesero le dimissioni. Orlando però, in cura a Vallombrosa per un mal di gola, nonostante le insistenze del C., non tornò a Roma fino al 12 settembre, giorno della seduta del Consiglio dei ministri, motivando la decisione con la necessità di evitare uno scontro. Ed effettivamente, al Consiglio dei ministri non più delle sue dimissioni si trattò, ma di quelle del suo capo di gabinetto e del capo della polizia G. Vigliani. Il giorno stesso il C. scriveva a Orlando una lettera in cui, accettando il proprio allontanamento, esprimeva la piena consapevolezza di aver rappresentato il capro espiatorio della sconfitta di una precisa linea, politica. "Come mai io possa essere responsabile della politica interna del ministero nazionale fino ad essere obietto di una crisi di gabinetto è una cosa piuttosto misteriosa, che potrebbe lusingare il mio amore proprio di uomo politico, se non fosse, invece, soltanto un sintomo del malessere della vita politica nostra in questo momento. Non quindi concezione e azione mia, in contrasto con la concezione e l'azione del primo ministro e del ministro dell'Interno, ma dissenso e contrapposizione tra la politica interna così concepita e quella cosidetta interventista di alcuni membri del gabinetto" (G. De Rosa, Giolitti e il fascismo, p. 51). Quale fosse quella "politica interna così concepita", il C. lo spiegava chiaramente nella lettera, quando ricordava la propria posizione contraria al "vecchio armamentario reazionario" della repressione o accusava gli avversari di puntare a una crisi extraparlamentare che avrebbe portato all'instaurazione di "quel clima di compressione all'interno, per evitare il quale s'è lavorato per quattordici mesi con indiscutibile successo". Con questa lettera rivendicava insomma la giustezza della linea seguita dal ministero nazionale e la condivideva totalmente, confermando così la propria posizione politica fiduciosa nei principi del liberalismo giolittiano.
Nel marzo 1919 Orlando richiamò il C. al ministero degli Interni come capo di gabinetto, incarico che tenne fino alla caduta del governo nel giugno. Nel novembre dello stesso anno si tennero le prime elezioni con il sistema proporzionale, cui il C. partecipò; fu eletto deputato per la circoscrizione dell'Aquila: capolista del raggruppamento democratico costituzionale, ottenne 16.967 preferenze, oltre a 1.034 in altre liste. Già in precedenza, nel 1909, come candidato di Popoli e appoggiato dall'Associazione dei maestri delle scuole elementari, il C. era stato eletto alla Camera, dalla quale però, nonostante i discorsi in suo favore pronunciati da Baccelli e Turati, era stato dichiarato decaduto per la incompatibilità" con la funzione di direttore generale per l'Istruzione primaria e popolare. Ora quello stesso Giolitti, che nel 1909 aveva annullato la sua elezione, nel giugno 1920 lo scelse quale sottosegretario agli Interni. In questa veste il C. si trovò a dover fronteggiare alcune gravi situazioni del dopoguerra, dall'occupazione delle fabbriche allo squadrismo fascista.
La condotta politica giolittiana, quel sistema di governo consolidatosi nell'età precedente che il C. aveva così profondamente condiviso e assunto come proprio, dimostrerà però, nelle mutate condizioni dell'Italia postbellica, la sua sostanziale inadeguatezza. Nel passato infatti le contrapposte istanze progressiste e moderate potevano essere rispettivamente governate dal riformismo turatiano e dal conservatorismo sonniniano, così da permettere a Giolitti di esplicare con successo la propria capacità di mediazione. Ora però la nuova dimensione di massa dei movimenti sociali e la loro rilevanza politica esigevano altre e diverse risposte, che né la vecchia leadership del partito socialista, né la tradizionale classe dirigente liberale potevano dare, ancorate com'erano a una logica e a una prassi in ultima analisi personalistiche ed elitarie.
Così, di fronte alla definitiva rottura delle trattative tra la Federazione italiana operai metallurgici e la Confindustria, quando il 31 ag. 1920 la direzione della società meccanica Alfa Romeo per prima rispose con la serrata all'ostruzionismo proclamato dal sindacato metallurgico, il C. aveva già subito una prima sconfitta. Sostituendosi infatti in varie occasioni allo stesso ministro del Lavoro, A. Labriola, egli aveva attuato fin dall'inizio di maggio forti pressioni sugli industriali per evitare la chiusura degli stabilimenti. Ma il mondo imprenditoriale, seppur in larga parte tranquillizzato dal ritorno al potere di Giolitti, non era più disposto ad assicurargli il sostegno di prima e, deciso alla prova di forza con il movimento sindacale, rifiutava di corrispondere alle richieste governative. Mantenendo i rapporti con le due parti fin dal momento in cui prendeva avvio l'occupazione delle fabbriche, che da Milano si allargava fra il 1° e il 4 sett. 1920 a quasi tutti gli stabilimenti metallurgici del paese, il ministero degli Interni, in collaborazione con il prefetto di Milano A. Lusignoli, praticò la più rigorosa neutralità. Il 1° settembre il C. telegrafava a Giolitti, che si trovava a Bardonecchia: "Confermo che il governo non intende intromettersi nel conflitto, responsabilità del quale è quasi esclusivamente loro [degli industriali]" (De Rosa, Il Partito popolare..., p. 57).
L'intesa fra il C. e Giolitti, il quale non interruppe le vacanze a Bardonecchia proprio a dimostrazione del riserbo e della neutralità governativa, continuò nei giorni successivi, mentre l'occupazione delle fabbriche si allargava anche ai centri minori, e nelle grandi città, a fabbriche chimiche e tessili. Il voto contrario all'estendersi del fenomeno, espresso dalla maggioranza del Consiglio nazionale della Confederazione generale del lavoro, aveva notevolmente allentato tensioni e paure, rappresentando un'oggettiva conferma dell'efficacia della linea governativa. Ciononostante, la campagna di stampa contro il ministero degli Interni investi le stesse testate "giolittiane" del Messaggero, della Tribuna e della Stampa. La progressiva perdita dell'appoggio di buona parte dell'opinione pubblica non influì su Giolitti e sui suoi collaboratori, i quali non abbandonarono la scelta neutralista, né i tentativi di spingere a una soluzione pacifica l'ala più oltranzista degli industriali, ancora una volta rappresentata dalle dirigenze dell'Ilva e dell'Ansaldo. Contemporaneamente, il governo definì la propria posizione sulla richiesta avanzata dalla Federazione operai metallurgici del "controllo sindacale". Giolitti era infatti favorevole a una forma di partecipazione operaia agli utili e all'accesso dei rappresentanti sindacali ai consigli di amministrazione delle aziende. Il C., per parte sua, ne discuteva con Turati cercando nell'atteggiamento di questo la conferma che la rivendicazione sindacale non intendesse aggredire il principio della proprietà privata e che si limitasse alla richiesta di una forma di cogestione: "Se si tratta di ammettere gli operai nei Consigli di amministrazione, se si tratta di ammetterli a partecipare agli utili, quando ve ne sono, non vi sono difficoltà. Ma se si tratta di istituire Consigli di fabbrica, che tolgano la direzione della vita interna e della disciplina alle direzioni delle fabbriche, emanazione degli industriali, è meglio che questi rinunzino", gli scriveva il 19 settembre (in De Rosa, Partito popolare, p. 62). Così, alla conclusione della vertenza, Giolitti emanò un decreto che istituiva una commissione paritetica di sindacalisti e industriali per elaborare proposte utili alla presentazione di un progetto di legge. Il progetto, pur redatto, non diventerà mai legge, superato dagli avvenimenti e dalla grave crisi determinata nel paese dalla crescita del movimento fascista.
Fu di fronte proprio al fenomeno del fascismo che il governo Giolitti dimostrò la debolezza e la incapacità a capirne la novità e l'aspetto di massa. Da parte del ministero degli Interni la risposta alle violenze delle squadre d'azione di Mussolini fu ristretta essenzialmente al mantenimento dell'ordine pubblico. Ben lontano dal favorirle o dal coprirle, il C. si limitava però (copie del carteggio sono anche nel suo archivio privato) ad inviare innumerevoli dispacci ai prefetti delle varie città perché impedissero con ogni mezzo - requisizioni di camion, blocchi stradali, arresti preventivi, ecc. - le azioni dei fascisti, o perché intervenissero duramente nei casi in cui le autorità locali si fossero compromesse con lo squadrismo. Misure comunque inadeguate, e poi sostanzialmente contraddette dalla decisione di indire nuove elezioni e di costituire con quegli stessi fascisti i blocchi nazionali.
Di fronte a questa scelta governativa, anche l'ala riformista del partito socialista abbandonò la vecchia linea di collaborazione con Giolitti. Sarà lo stesso Turati, amico ed estimatore del C., a pronunciare alla Camera il 24 giugno 1921 l'atto di accusa contro il governo: "Non dite, signori del Governo, che questo spirito di violenza voi non avete suscitato, che voi lo deplorate, che voi mandate circolari e telegrammi ai prefetti (quanti ne ho veduti io stesso!) in cui raccomandate la legalità, l'equità, l'eguale trattamento, la repressione imparziale, severa; posso concedere che tutto questo sia verissimo, ma tutto questo non fa che aggiungere una nota di ridicolo alla vostra situazione. La colpa sarà di Giolitti, sarà di Corradini, sarà della guardia regia; non me ne importa: fatto è che il Governo è assente, perché le sue parole sono fiato di vento, perché non sa colpire il nodo vitale della sedizione civile. Un tale governo tradisce, ci tradisce tutti. Un tale Governo deve sgombrare. Con un tale Governo nessuna solidarietà è possibile; nessuna indulgenza è legittima; neanche per timore del peggio, perché, in un momento di tanta perturbazione sociale, non v'è un peggio che sia peggiore di Pier Soderini".
Sconfitto dai risultati delle elezioni che lui stesso aveva voluto, Giolitti cadde nel luglio 1921. E il C., che nel maggio era stato confermato deputato per il collegio di Aquila, Chieti e Teramo (capolista del partito costituzionale con quasi 70.000 preferenze), ancora convinto che l'unica barriera al dilagare del movimento fascista potesse essere costituita da un governo presieduto da Giolitti e appoggiato dai socialisti moderati e dai popolari, tentò nei mesi successivi di creare le condizioni favorevoli a un ritorno al potere dello statista piemontese. Ma in questi tentativi si consumeranno definitivamente una ipotesi e un metodo politico affidati alla tessitura di una rete di intese fra gli esponenti delle diverse formazioni parlamentari in grado di arginare l'eversione. Giolitti infatti rimase fermo nell'idea che fosse inattuabile un governo frontalmente contrapposto a Mussolini. E, caduto il primo gabinetto Facta, la possibilità di un accordo tra popolari, socialisti e liberali si scontrò proprio con il rifiuto di Giolitti, che deluse in questo modo le aspettative del suo ex collaboratore. Un ulteriore rifiuto il C. ricevette nell'ottobre, pochi giorni prima della marcia su Roma, nonostante avesse scritto più volte a Giolitti prospettandogli una generale disponibilità verso un suo ritorno al governo.
L'attività del C., con l'avvento del fascismo, cessò quasi completamente. Presentatosi alle elezioni dell'aprile 1924, fu sottoposto a una campagna diffamatoria da parte dei fascisti locali, mentre i suoi elettori venivano fatti oggetto di violenze continue. Le inutili denunce presentate dal C. a G. Acerbo e a Mussolini non riuscirono a impedire la sua sconfitta elettorale: presentatosi per la circoscrizione elettorale degli Abruzzi e Molise nella lista liberale, ottenne solo 4.291 preferenze.
Escluso dalla Camera, progressivamente emarginato dalla vita politica, nel 1927 fu accusato da Mussolini di legami "con elementi di tendenza sovversiva e con elementi massonici" (cfr. De Rosa, Giolitti..., p. 100) e dichiarato decaduto dalla carica di consigliere di Stato. Morì a Roma il 30 dic. 1928, pochi mesi dopo la scomparsa di Giolitti.
Fonti e Bibl.: 1 documenti e le carte inedite qui utilizzate sono state consultate nell'archivio privato del C., conservato dal nipote cav. Mario Oliva. Tra gli scritti sul C. e l'istruzione primaria e popolare, si vedano G. De Rosa, La legge Daneo-Credaro e la scuola popolare, in Rass. di politica e storia, III (1957), 34, pp. 19-32; 35, pp. 10-14; 36, pp. 18-21; G. Ricuperati, La scuola nell'Italia unita, in Storia d'Italia, V, 2, Torino 1973, pp. 1700-1711; D. Bertoni Jovine, Storia della scuola popolare in Italia, Bari 1965, ad Indicem. Sulla funzione del C. al ministero degli Interni si veda: Atti parlamentari, Camera, Discussioni, legislature XXV-XXVI, ad Indicem;L. Albertini, Vent'anni di vita politica, 1898-1918, Bologna 1950-53, II, ad Indicem;G. De Rosa, Giolitti e il fascismo in alcune sue lettere inedite, Roma 1957, ad Indicem; Dalle carte di Giovanni Giolitti. Quarant'anni di vita politica italiana, Milano 1962, III, a cura di C. Pavone, ad Indicem; O.Malagodi, Conversazioni della guerra (1914-1919) a c. di B. Vigezzi, Milano-Napoli 1960, ad Ind.;P. Spriano, L'occupazione delle fabbriche, Torino 1964, ad Indicem;R. De Felice, Mussolini il rivoluzionario, Torino 1965, ad Ind.; Id., Mussolini il fascista, Torino 1966, ad Indicem;F. Martini, Diario 1914-1918, Milano 1966, ad Indicem;G. De Rosa, Il partito popolare italiano, Bari 1969, ad Indicem; P. Melograni, Storia politica della grande guerra, 1915-1918, Bari 1969, ad Indicem;A. Lyttelton, La conquista del potere. Il fascismo dal1919 al 1929, Bari 1974, ad Indicem;F. Turati-A. Kuliscioff, Carteggio, Torino 1977, II-VI, ad Indicem.