CASTIGLIONI, Camillo
Nato a Trieste il 22 ott. 1879 da Vittorio, pedagogista ed ebraista, e da Enrichetta Bolaffio, studiò con l'aiuto della comunita israelita, che intendeva fare di lui un rabbino come lo era stato il padre. Lasciò presto la scuola per entrare nell'ufficio di un cambiavalute che lo iniziò alle pratiche e agli espedienti dei piccoli traffici e del gioco in Borsa.
La città adriatica era allora non solo il massimo scalo commerciale della monarchia austro-ungarica ma anche la centrale del capitalismo ebraico d'origine austriaca e danubiana: banchieri, assicuratori, armatori con molteplici collegamenti e interessi in Germania, in Italia e nel Levante. E nelle pieghe di questo vasto e multiforme giro d'affari non mancavano le possibilità di proficue transazioni e speculazioni finanziarie.
Grazie alle aderenze procuratesi, negli ambienti di Borsa e all'abilità dimostrata nel maneggio di alcune delicate operazioni, il C. riuscì a farsi avanti e ad accumulare nel giro di pochi anni un patrimonio ragguardevole, frutto di audaci investimenti sul corso dei titoli e di varie mediazioni di natura fiduciaria. A venticinque anni, agendo con sagace e calibrata spregiudicatezza nei circoli economici e sfoggiando un fiuto non comune nel valutare le diverse opportunità d'investimento, s'era già fatto un nome nell'élite finanziaria israelita, e aveva cominciato a stabilire rapporti con alte personalità di governo.
Il capitale di centomila corone austriache, che aveva raggranellato fino allora, si rivelò quanto mai utile per dar la scalata a traguardi più ambiziosi quando egli, trasferitosi a Vienna, riuscì ad accedere alla cerchia più intima della corte imperiale e ad entrare in familiarità con il giovane arciduca Carlo. Conquistatasi la fiducia del principe, alle prese con il problema di integrare in qualche modo le proprie rendite, il C. trovò modo di venirgli in soccorso giocando per l'arciduca alle Borse di Vienna e di Parigi, senza pretendere un soldo d'anticipo, con lo stesso esito lusinghiero che aveva coronato i suoi esordi a Trieste. D'altra parte, la dimestichezza con personaggi altolocati consentì al finanziere triestino di carpire preziose indiscrezioni in materia politica. In particolare si avvalse di quanto venne a sapere per tempo sui prodromi della guerra balcanica dell'ottobre 1912 per piazzare in Borsa una serie di operazioni a colpo sicuro, a conclusione delle quali moltiplicò le sue fortune personali e riuscì a guadagnarsi il credito degli ambienti finanziari più esclusivi. Divenuto consulente dell'Anglo-Austrian Bank, negoziò importanti prestiti a Londra e a Parigi per conto di vari governi balcanici e della Turchia, e da allora assunse un ruolo di primo piano nell'alta finanza internazionale.
Lo scoppio della prima guerra mondiale offrì nuove possibilità di affari al C., che fondò in Austria una grande impresa per la fabbricazione di aeroplani e di motori d'aviazione, e si trovò poi a godere della protezione personale dell'imperatore Carlo, successo al trono dopo la scomparsa nel novembre 1916 di Francesco Giuseppe. Ma, falliti i negoziati segreti avviati a più riprese dal nuovo sovrano per svincolarsi dalla tutela germanica e per una pace separata con le potenze dell'Intesa, e presagendo l'imminente sconfitta, il C. provvide alla fine del 1917 a trasferire i suoi fondi liquidi in Svizzera, cambiandoli in valuta pregiata, e cominciò a prendere le distanze dal governo austriaco che nel frattempo aveva militarizzato i suoi stabilimenti aeronautici di Vienna e di Budapest. Alla fine, del conflitto, questo suo atteggiamento e il fatto che a Milano risiedevano due suoi fratelli e una sorella gli facilitarono l'acquisto della cittadinanza italiana. Del resto il C. aveva stabilito nuove alleanze finanziarie in Italia e ripreso a manovrare in grande stile fra le coulisses di Borsa e negli ambienti dell'alta banca, per mettere a frutto i depositi accumulati a suo tempo nelle banche elvetiche. Da Vienna, dove aveva mantenuto il suo quartier generale, egli venne interessandosi, personalmente o in veste di socio e intermediario di potenti gruppi industriali, all'acquisto dei pacchetti azionari di numerose imprese siderurgiche e metallurgiche dell'ex Impero austro-ungarico e badò anche a non lasciarsi sfuggire altre proficue occasioni di speculazione che si presentavano, nel clima di grave disordine economico e di forzata smobilitazione del dopoguerra, in Ungheria, in Baviera e in varie regioni tedesche. Impossessatosi del pacchetto di maggioranza della fabbrica di automobili Austro-Daimler, presidente della Depositen Bank e titolare di una propria banca privata a Firenze, strinse rapporti con la Banca commerciale, e il suo massimo esponente Giuseppe Toeplitz, e con i principali industriali della penisola.
In Italia il C. aveva allacciato solide amicizie anche in ambienti politici e diplomatici. A lui ricorse il segretario generale del ministero degli Esteri, Salvatore Contarini, nel luglio 1920, per delicati sondaggi con i governanti cecoslovacchi al fine di accertare fino a qual punto arrivasse la solidarietà della Cecoslovacchia con la Iugoslavia, e se vi fossero pertanto concrete possibilità di uno sganciamento di Praga dalla causa iugoslava nella questione di Fiume. Fu così che, su mandato di C. Sforza, il C. si trovò a trattare con il presidente del Consiglio cecoslovacco Tusar, di cui era amico, l'opportunità di aderire alla proposta di un incontro confidenziale con il ministro degli Esteri italiano, all'insaputa di Beneš risoluto a sostenere le richieste della Iugoslavia o a far valere quantomeno, con tale atteggiamento, l'influenza particolare della Cecoslovacchia se si fosse giunti a una trattativa ufficiale con il governo di Roma.
Il colloquio, avvenuto in gran segreto a Venezia, dopo che Tusar ne aveva informato il presidente della Repubblica Masaryk, consentì ai rappresentanti italiani di illustrare meglio il punto di vista del governo Giolitti sulla questione adriatica e di ottenere infine l'impegno del presidente del Consiglio cecoslovacco che Praga non avrebbe aiutato in alcun modo la Iugoslavia con iniziative che potessero nuocere all'Italia. La firma della convenzione di Belgrado (agosto 1920) per un'alleanza difensiva fra Cecoslovacchia e Iugoslavia e la caduta nel settembre 1920 del governo Tusar non mutarono tale impegno, fatto proprio dal presidente Masaryk: d'altra parte, Beneš venne a conoscenza dell'incontro di Venezia quattro mesi dopo, quando era ormai stato concluso fra Italia e Iugoslavia il trattato di Rapallo (12 nov. 1920).
Fu probabilmente per il successo di questa delicata missione diplomatica che venne steso poi un velo, qualche mese dopo, sulle modalità e sull'esito di una complessa operazione finanziaria, in cui accanto al C. era coinvolto anche il presidente della Fiat G. Agnelli, che aveva assunto lungo la strada importanti risvolti politici. Si era trattato dell'alienazione al gruppo tedesco Stinnes del pacchetto di maggioranza della società austriaca Alpinen Montangesellschaft (con importanti officine a Donawitz e miniere di ferro e carbone in Stiria, in Slesia e in Boemia), venuta in possesso della Fiat nel 1919, durante il ministero Nitti, dopo che i delegati italiani alla conferenza di Parigi s'erano battuti per ottenere un così importante pegno economico e il capo della missione italiana per l'armistizio a Vienna era riuscito a impedire che il governo austriaco nazionalizzasse gli stabilimenti dell'impresa sul suo territorio.
La vendita dell'Alpinen al potente gruppo siderurgico tedesco era avvenuta senza alcuna richiesta preventiva di autorizzazione né alla legazione italiana a Vienna, né al governo di Roma. Sicché nel marzo 1921, quando il ministro degli Esteri ne aveva avuto notizia la questione era apparsa estremamente grave almeno per due ordini di motivi: in primo luogo, perché erano insorte complicazioni diplomatiche con il governo francese, che riteneva inammissibile un rafforzamento per questa via dell'industria tedesca e che premeva pertanto sulle autorità italiane per un intervento che valesse a ripristinare la situazione precedente, ma che intanto non escludeva la possibilità di venire esso stesso in possesso dei titoli venduti dalla Fiat attraverso complicate transazioni finanziarie; in secondo luogo, perché erano stati annullati d'un colpo gli sforzi del governo italiano per ottenere in Austria una base economica che servisse da collegamento fra l'area danubiana e il porto di Trieste (non a caso, all'iniziativa della Fiat erano interessati anche gruppi finanziari e cantieristici della città adriatica). Tutto ciò, senza considerare che la cessione dell'Alpinen era avvenuta all'insaputa del governo e probabilmente aggirando le norme vigenti in materia di esportazione di capitali e di transazioni finanziarie.
Fatto sta che Agnelli - di fronte alle pressioni di alcuni ministri su Giolitti per l'apertura di un'inchiesta e l'applicazione a carico dei dirigenti della Fiat di sanzioni penali, previo risarcimento integrale del "danno prodotto dall'abusiva speculazione" - tirava in ballo il nome del C., che ricopriva allora anche la carica di presidente del Lloyd Triestino. In una dichiarazione al Giornale d'Italia e al Corriere della Sera del 16 ag. 1921, egli sosteneva che la Fiat si era limitata a vendere le azioni dell'Alpinen in suo possesso a "un altro cittadino italiano",ossia al C., e non aveva creduto pertanto che si rendesse necessaria l'autorizzazione preventiva del governo. Replicava il C., con una lettera alla legazione italiana a Vienna, che a lui le azioni erano state consegnate e non vendute, mentre le trattative tra la Fiat e il gruppo Stinnes s'erano svolte direttamente a Berlino.
È difficile stabilire chi dei due dicesse la verità. Probabilmente s'era trattato di un abile gioco delle parti: del resto, caduto nel frattempo il governo Giolitti, il successore di Alessio al ministero dell'Industria, Belotti, prima di pronunciarsi, volle essere debitamente informato dell'intera vicenda, sicché sotto il governo Bonomi ricominciò a tessersi fra i vari ministri un'altra inutile trafila di memoriali e incartamenti.
Di un personaggio come il C., abituato ad agire dietro le quinte e mai come primo attore, pronto a tornare nell'ombra ogni qualvolta il suo intuito finanziario gli suggeriva di abbandonare una parte per intraprenderne un'altra, sono rimaste scarse annotazioni biografiche.
L'unico ritratto di prima mano che si possiede è quello tracciato dal figlio del banchiere Giuseppe Toeplitz, Ludovico, che ricorda una sua visita proprio intorno al 1921 nella villa dell'amministratore delegato della Banca commerciale a Varese. "Un piccolo uomo insignificante - scriveva Ludovico Toeplitz nei suoi appunti -,assai poco rappresentativo, a linee curve arrotondate: come un uovo. Il viso non aveva tratti marcati, il naso s'incrinava sulla bocca tra le guance mollicce. Sembrava non aver scheletro sotto la maschera di carne. Solo gli occhi avevano sprazzi vividi, ogni tanto, che davano al suo viso smorto un inatteso sfavillio di intelligente ironia .... Camillo Casfiglioni non lasciava certo trasparire l'enorme cumulo di furbizia e di volontà che si celava sotto il suo aspetto di mollusco. Parlava costruendo la frase come se traducesse letteralmente dal tedesco, con un accento spiccatamente veneto, anzi triestino". E concludeva: "Egli era il vero "pescecane" ma faceva pensare piuttosto ad una piovra, pronta a protendere all'improvviso i suoi viscidi tentacoli per ghermire la preda. Papà affermava che era il più scaltro negoziatore che avesse mai incontrato. Non diceva mai di no, lasciando che l'avversario si affondasse ben bene per poi chiuderlo nella rete, acchiappandolo senza farlo strillare".
A Vienna dove risiedeva, approfittando del dissesto economico della vecchia nobiltà, aveva ammassato beni e oggetti preziosi e acquistato un palazzo principesco trasformandolo in una sorta di dimora rinascimentale con quadri, vasellame, statue, mobili, fatti scovare da una schiera di specialisti da lui ingaggiati in ogni parte d'Europa, e con interi soffitti tolti a palazzi del Cinquecento italiano. Aveva messo insieme anche un'importante collezione di piccoli bronzi di buona epoca e aveva donato alla città di Salisburgo la splendida sala dei concerti del Mozarteum. La sua potenza finanziaria era tale che egli aveva assunto i modi e i costumi dei vecchi regnanti (viaggiava in vagone ferroviario privato) e che nella più delicate questioni diplomatiche concernenti l'Austria veniva regolarmente interpellato.
Nel marzo 1921 aveva trattato la mediazione dell'Italia nelle divergenze fra Austria e Ungheria per i nuovi confini, e fu presente sia pure in incognito alla successiva conferenza a Venezia del 7 luglio, dove ebbe parte di rilievo nello svolgimento dei colloqui fra il ministro degli Esteri italiano Tomasi della Torretta, il cancelliere austriaco Schober e il conte Teleki, che si conclusero con la cessione del Burgenland all'Ungheria. Svolse un ruolo importante anche nell'organizzazione del convegno di Verona nel maggio 1922 fra il ministro degli Esteri Schanzer e il nuovo cancelliere austriaco Seipel per discutere la proposta di Vienna di una unione doganale diretta con l'Italia. Buoni rapporti egli stabilì successivamente con Mussolini, che per lui ottenne la nomina nel 1923 a cavaliere di Gran croce della Corona d'Italia.
Le fortune del C. parvero crollare nei primi mesi del 1924, quando, confidando sulla caduta del franco e giocando al ribasso, egli si accingeva a cogliere il risultato di una serie di operazioni a largo raggio per la scalata ad alcune grandi industrie e banche francesi. Ma le energiche misure assunte nel frattempo da Poincaré per il salvataggio e la stabilizzazione del franco impedirono al C. di realizzare i suoi progetti, ed egli si trovò così da un momento all'altro costretto a vendere quasi tutte le aziende che controllava, e a disfarsi anche della banca privata fondata a Firenze, che fu assorbita dalla Commerciale. Nel giro di pochi mesi il suo patrimonio personale di circa venti milioni di sterline-oro si era praticamente dissolto. Presto si risollevò tuttavia dalla crisi finanziaria che sembrava dovesse travolgerlo definitivamente. A Berlino, dove si trasferì dopo il 1924, riprese a interessarsi di industrie aeronautiche e automobilistiche, lanciò la BMW di cui si era assicurato la proprietà, e divenne socio di Ernst Heinckel prima in varie fabbriche di aeroplani all'estero, quindi nel complesso di Oranienburg, quando la Germania riprese palesemente la costruzione di velivoli. Era divenuto nel frattempo amico personale di John Pierpont Morgan jr., e in America, su richiesta di Mussolini, assistette nel novembre 1925 la delegazione italiana capeggiata da Volpi per la sistemazione dei debiti di guerra con gli Stati Uniti, facendo poi da intermediario nella negoziazione di alcuni prestiti a industrie italiane e alle città di Milano e di Roma. Fu anche autore del progetto presentato a Mussolini nell'aprile 1928 che - puntando sulla possibilità che l'industriale Anton Rintelen, allora fra i principali dirigenti dell'estrema Destra austriaca, s'impadronisse del potere, e sulle simpatie di costui verso l'Italia fascista - avrebbe dovuto portare all'instaurazione di nuove amichevoli relazioni con Vienna e Berlino.
I crescenti rapporti d'affari stabiliti con gli ambienti finanziari americani consentirono al C., dopo l'avvento di Hitler al potere, di tentare miglior fortuna fuori d'Europa. Dopo aver ceduto le sue attività in Germania e in Austria, si trasferì nel 1934 negli Stati Uniti dove si specializzò come consulente finanziario per gli affari europei di grandi banche come I'Import-Export Bank, la Chase National e la Morgan. Con Mussolini, nonostante che i rapporti si fossero raffreddati dopo le leggi razziali del 1938, il C. continuò a carteggiare soprattutto tra la fine del 1939 e i primi mesi del 1940, quando insisté a più riprese nelle sue lettere personali perché l'Italia non partecipasse al conflitto, tenendo conto anche delle buone predisposizioni del governo e degli ambienti finanziari americani verso le richieste e gli interessi economici italiani.
Alla fine della seconda guerra mondiale il C. tornò in Italia stabilendosi a Roma dal 1946 come fiduciario in Europa delle principali banche americane. Fu in questa veste che egli negoziò, fra l'altro, con il governo di Belgrado un prestito di 40 milioni di dollari della Import-Export Bank nei difficili anni che seguirono all'espulsione della Iugoslavia dal Cominform. Sembra che fosse stata promessa al C., a compenso della sua opera di mediazione, una somma di centomila dollari. Non avendo il governo iugoslavo riconosciuto successivamente tale impegno, il C. intentò causa dinanzi alla magistratura italiana contro lo stesso maresciallo Tito, e ottenne dal tribunale di Milano una sentenza che lo autorizzava a pignorare i beni iugoslavi nella penisola. Seguì il sequestro di un certo numero di immobili, compresa la sede del consolato iugoslavo a Milano, e la minaccia di porre i sigilli alle navi dello Jugoslavenski Lloyd che approdavano a Trieste, Venezia e Genova. Infine, dopo non poche complicazioni diplomatiche rese più acute dalla questione di Trieste ancora pendente, la vertenza si concluse con un compromesso, per cui il C. ottenne la somma da lui richiesta, pagata dal Tesoro italiano che la stornò dal "fondo riparazioni" dovute dal governo di Roma a quello di Belgrado.
Il C. morì a Roma il 18 dic. 1957.
Fonti e Bibl.: Necr. in La Nuova Stampa, 24 dic. 1957; Roma, Arch. Centr. dello Stato, Presidenza Consiglio dei Ministri, Gabinetto, Atti (1919-1936), 1921, busta 317, n. 340; N. Giuffrida, C., Toeplitz e C., in Rivista di Milano, IV (1921), pp. 416 s.; C. Belloni, Dizionariostorico dei banchieri italiani, Firenze 1951, advocem;A. Guerriero, Un abile colpo diplom. fu realizzato da Giolitti e Sforza, in Corriere dellaSera, 25 novembre 1952; T. Maiorino, Aeroplani e sale da concerto, in Settimo Giorno, 16 genn. 1958; L. Toeplitz, Il banchiere, Milano 1963, pp. 133 ss.; G. Carocci, La polit. estera dell'Italia fascista (1925-1928), Bari 1969, p. 352; V. Castronovo, G. Agnelli, Torino 1971, pp. 297, 301, 738.